Il vantaggio di essere una nazione
Il nodo dell’identità. Corriere della sera 2 agosto 2020
Lorenzo Cremonesi intervista Yael Tamir
“Appartengo alla generazione cresciuta con le canzoni di John Lennon. Avevo 17 anni nel ’71 quando ascoltai per la prima volta Imagine e come tanti giovani occidentali m’innamorai subito del sogno, anzi dell’utopia, di un mondo aperto e pacifico. Lennon e Yoko Ono forgiarono il nostro immaginario con la loro Nutopia, uno Stato senza confini. Bene, oggi non esito a sostenere che fu un’utopia sbagliata, una fantasia pericolosa. Un mondo senza frontiere non è affatto un mondo ideale: non può essere né democratico, né giusto. E comunque quell’utopia è stata cancellata in pochissimo tempo dopo l’esplodere della pandemia del Coronavirus. In un pugno di giorni sono stati chiusi i confini, è stato sospeso il trattato di Schengen. Per garantire la vita dei loro cittadini anche le democrazie hanno sbarrato le frontiere». Attivista della sinistra israeliana da quando era liceale, paladina dei diritti civili e della nascita di uno Stato palestinese, fondatrice nel 1978 con un pugno di compagni del movimento Pace Adesso contro l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, quindi deputata e ministra laburista sino al 2020, oggi docente universitaria, Yael Tamir non smentisce nulla del suo passato. «Rimango una convinta laburista, anche se non esisto a definirmi una liberale nazionalista. Credo che le élite della sinistra illuminata e cosmopolita abbiano commesso gravi errori e nei miei lavori accademici studio le radici e gli sviluppi del nazionalismo», spiega a «la Lettura», presentando il suo Le ragioni del nazionalismo (Bocconi).
Tra gli argomenti che cita per criticare l’illusione cosmopolita, ci ricorda che solo il 3,3 per cento della popolazione mondiale vive in un Paese diverso da quello di nascita. Ma come replica a chi ci ammonisce in Europa sui disastri provocati dal nazionalismo, responsabile di due terribili guerre mondiali? «Certo, temo gli estremismi e il nazionalismo xenofobo. Amo sempre ricordare gli insegnamenti di Isaiah Berlin, mio tutor al dottorato di Oxford tanti anni fa ormai, che spesso parlava della necessità di relativizzare le proprie convinzioni. Il modo in cui le si sostiene differenzia il civilizzato dal barbaro. Una volta sottolineati i pericoli del nazionalismo estremo, io miro a porre l’accento su quelli altrettanto gravi del distacco tra le classi dirigenti illuminate ma sradicate, individualiste, prive del senso di solidarietà sociale per i propri concittadini, e invece gli strati meno abbienti della popolazione, che si sentono traditi, abbandonati e tendono a votare per i partiti populisti. Theresa May, quando era premier britannica, parlava non a torto di “cittadini del mondo che in realtà sono cittadini di nessun luogo”. Individui che vanno a sciare a Cortina, al mare alle Maldive e per i weekend a Parigi. Sono coloro che mandano i figli nelle grandi scuole internazionali, dispongono delle ricchezze per farlo, e non sono toccati dai problemi delle periferie urbane, dove i genitori non vogliono avere i bambini dei migranti in classe con i loro figli. Tanto dove studiano i figli dei cosmopoliti abbienti i migranti non ci sono. Un moderato nazionalismo trasforma invece lo Stato in patria, dà forza e sostanza al Welfare State, crea la solidarietà comunitaria, ci fa sentire tutti parte di una stessa casa. II problema delle sinistre è che spesso non comprendono il bisogno dell’elettorato popolare di vivere in una società dai confini chiari e sicuri. Ancora, lo ha dimostrato il virus: solo nei nostri confini possiamo aiutarci gli uni con gli altri nell’emergenza, sappiamo a chi dare e a chi prendere. La verità è che non esiste un welfare globale».
Concorda con chi vorrebbe bloccare i migranti? «Non ho detto questo. Dico che occorre una chiara politica sulle migrazioni. Lo Stato deve controllare i flussi. La scelta della composizione demografica di un Paese non può essere lasciata alle organizzazioni non governative. La popolazione in genere teme le migrazioni non controllate. I meno abbienti hanno paura degli stranieri, li vedono come concorrenti in casa loro. Il dramma dei progressisti in Italia è stato che, accecati dall’ideologia globalista, non hanno capito i bisogni e le paure più elementari degli elettori».
I suoi argomenti non fanno il gioco delle destre israeliane e dei coloni, che vorrebbero espellere i palestinesi? In queste settimane il premier Benjamin Netanyahu cerca di mettere a punto l’annessione di larga parte della Cisgiordania. Che ne pensa? «Contesto Netanyahu e chi lo sostiene. Non ho mai cambiato idea dai tempi di Pace Adesso: sono per la soluzione dei due Stati, uno accanto all’altro. E ciò non contrasta con le tesi dei miei libri. Noi israeliani abbiamo bisogno di uno Stato sicuro e socialmente solidale e di altrettanto necessitano i palestinesi. La pace sta nella divisione della terra, assolutamente non nell’annessione. La considero un disastro per entrambi i popoli».
Ma non crede sia troppo tardi? Di fatto l’espanslone delle colonie ebraiche negli ultimi decenni ha reso impossibile la spartizione. «Certo, ogni giorno che passa rende le cose sempre più difficili. Ma la situazione è reversibile, penosa, eppure la terra può ancora venire divisa. Non ci sono altre vie che abbiano senso e non comportino tragedie. L’alternativa sarebbe comunque peggio: uno stato continuo di tensione, guerriglia e addirittura guerra a bassa intensità, con picchi di violenza molto gravi. Sarebbe come la ex Jugoslavia negli anni Novanta».
Nel libro cita la famosa frase di Massimo D’Azeglio, per cui, fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani. Una dinamica del nostro Risorgimento a cui guardava anche il movimento sionista delle origini e poi alla nascita di Israele nel 1948. Che cosa altro individua di positivo nel nazionalismo moderato? «I due Risorgimenti hanno avuto dinamiche simili e i sionisti guardavano con ammirazione all’esempio italiano. Nel nazionalismo si trovano l’amore per la storia e per la natura del luogo in cui si vive, il senso di appartenenza individuale che coincide con quello collettivo. Ogni volta che vengo in Italia resto stupefatta da come voi valorizzate il vostro passato: si vede nelle statue, nelle piazze, nei palazzi, nelle targhe delle vie, di fronte alle fontane, nelle basiliche. Il vostro rispetto reciproco è stato encomiabile durante la fase di massima crisi del virus. Oltretutto, il nazionalismo aiuta a dare un senso alla propria esistenza in un mondo secolarizzato. Prevale l’idea che, dopo la nostra morte, la patria, la collettività a cui siamo appartenuti, continuerà a vivere. La nostra esistenza non sarà stata vana».