Dove inizia la notte
Stefano Jesurum , Setirot, pubblicato in Attualità il 20/08/2020
Nello speciale dell’ultimo numero di Pagine Ebraiche Daniela Gross segnala la mostra “Hannah Arendt and the Twentieth Century” (curata dalla filosofa Monica Boll; fino al 18 ottobre al Deutsches Historisches Museum di Berlino). Punto focale è il poco conosciuto talento fotografico della grande intellettuale, e la conseguente raccolta di scatti che documentano sentimenti, quotidianità, volti più o meno noti, frammenti di vita che scorrono per decenni, attimi felici, ritratti rubati, album estemporanei. Icona del ‘900, lei e le sue riflessioni sul totalitarismo, sul razzismo, e la fuga negli anni della persecuzione nazista, la complicata vita sentimentale, le amicizie con i Grandi…
… e così sono andato a rileggere un libriccino che consiglio a chi ad Hannah Arendt abbia voglia di sentirsi un po’ più vicino. Eichmann. Dove inizia la notte, atto unico teatrale di Stefano Massini (Fandango Libri).
La rappresentazione di vittima e carnefice. Centoquattordici pagine dirompenti, fredde, viscerali, profondissime, razionali, emotive, piene e vuote di passione. Massini, un cantastorie che mi piace molto, con quegli occhi che sprigionano la durezza della bontà e la follia della ragionevolezza. Sul palcoscenico delle pagine ci sono solamente loro due, come li ricordiamo dai filmati del processo o dalle immagini di archivio. E le loro parole, incessanti, attanaglianti. «Il linguaggio, Herr Eichmann. Il linguaggio è lo specchio, sempre, di cosa sentiamo davvero. Ci pensi: la chiamavate “Soluzione Finale”. Non avevate il coraggio di dire “Massacro”. E il gas di Globočnik? Era un “Trattamento Speciale”». Ma poi, dice Hannah, «le grandi masse fanno così: scordano tutto, velocemente, in un attimo. E non per distrazione, no. Lo fanno perché condannare gli altri – condannarli davvero – è pericoloso: corriamo il rischio, prima o poi, di sbagliare tutti. E nessuno vuol essere fatto a pezzi». Ci vuole coraggio. Anzi, no, non il coraggio, la dignità. «Il coraggio in fondo è una cosa di un attimo», vero Herr Eichmann?, il coraggio «fa rumore, abbaglia. Ci senti sotto l’orchestra. Ecco, sì, il coraggio è cinema. Perfino un vigliacco può avere un attimo di coraggio, nella vita, e non cambia il fatto che era e resta un vigliacco. No. Più del coraggio è la dignità. Molto di più. Perché la dignità, se ce l’hai, ti resta incollata addosso, è parte di te».
«Ognuno ha la sua idea di dignità: per lei, Hannah, è ribellarsi. Per me era rispettare gli ordini. Stiamo su due fronti opposti». Già, due fronti opposti. Ieri, oggi, domani. Così il dialogo immaginario tra l’SS-Obersturmbannführer Eichmann, esperto di questioni ebraiche, responsabile operativo della soluzione finale, organizzatore del traffico ferroviario per il trasporto dei deportati ai campi di sterminio (sfuggito al processo di Norimberga, scappato in Argentina, individuato e rapito dal Mossad, processato in Israele, condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità) e la giornalista politologa filosofa Hannah Arendt (suo il resoconto del processo ad Eichmann per il New Yorker, poi diventato il saggio La banalità del male), ci interroga senza un attimo di tregua. Si è appena concluso il processo. Siamo nel 1961. E oggi con la Arendt noi cerchiamo, grazie a Massini, dove comincia e perché comincia il male. «Ci sarà un momento, preciso, in cui prende forma. O no? Deve esserci. Tutto ha un inizio. Quell’attimo impercettibile in cui si passa dal nulla al qualcosa. È questo che cerco io, da lei». Anche oggi, no? C’è qualcosa di talmente… stupido nel male. «Sì: stupido. E guardi che non parlo delle coincidenze. Dico che il male si nutre di paura. Ne ha bisogno. Voi eravate fieri che la gente tremasse, anche solo a vedere una divisa. Portavate i teschi coi coltelli incisi nei distintivi. La paura, certo, la paura. Eppure, a sentirvi parlare, è così chiaro che ad avere paura eravate per primi voi».
La paura. Non ci dice qualcosa? Herr Eichmann si indigna: «Non mi pagavano». «Oh sì. La pagavano con un verbo essere: “Sono un SS”. Dare a qualcuno un verbo essere è una buona forma di stipendio».
Stefano Jesurum