È morto Abraham Yehoshua, scrittore israeliano di fama internazionale
Aveva 85 anni. Autore di romanzi di successo da “Un divorzio tardivo” a “L’amante”. L’ultimo era dedicato all’Italia
di Wlodek Goldkorn La Repubblica 14 giugno 2022
Il suo ultimo libro, specie di congedo da questo mondo, è stato un libro d’amore per l’Italia, Paese che Abraham B. Yehoshua, scomparso all’età di 85 anni, considerava la seconda patria. La figlia unica, un romanzo breve o “una novella italiana” come diceva l’autore, ambientato fra Venezia e Padova, è anche un omaggio a una delle due identità dello stesso scrittore. In questa caso: l’identità che lui definiva mediterranea. La prima era, ovviamente, quella dell’israeliano. Israeliano, a sua volta, significava “pienamente ebreo”, al contrario dei confratelli e consorelle della diaspora, divisi fra l’attaccamento al ricordo mitologico di Gerusalemme e la vita nei luoghi in cui abitano, e per questo nevrotici. Yehoshua, sionista convinto, teorizzava la necessità degli ebrei di essere una “nazione normale”, con un territorio, una sovranità e una lingua: l’ebraico moderno. Valga un ricordo personale. Era gennaio 2011. Sul display del telefono appare il nome con cui lo chiamavano gli amici, Buli. “Sono ad Auschwitz”, dice. Racconta le sue emozioni e poi: “Ho un’idea in proposito”. Quell’idea, semplificando e radicalizzando, era: la Shoah è stata la conseguenza del rifiuto degli ebrei di misurarsi con la categoria della Patria.
Il fascino dell’autore e della persona
Scrittore che con le parole sapeva fare qualunque cosa (ci torneremo), il fascino che Yehoshua esercitava da persona su chi l’abbia conosciuto da vicino, era dovuto alla sua genuina curiosità: non smetteva di porre domande, era impaziente ad avere le risposte; a un certo punto, dell’Italia voleva sapere tutto, e stava sognando di prendere per un certo periodo una casa, in Toscana o in Umbria; e poi la sua generosità, il senso dell’amicizia: dava moltissimo ma chiedeva altrettanto, soprattutto esigeva onestà e senso critico (“dimmi cosa non ti piace”, esortava, “non mi devi confermare nella mia capacità di scrivere”) e potrei continuare.
Yehoshua amava presentarsi come “quinta generazione nata a Gerusalemme”, a sottolineare il suo radicamento nella Terra degli antenati. Il padre, Yaakov, discendente di una famiglia originaria di Salonicco, era un orientalista, aveva molti rapporti con gli arabi palestinesi della città, verso la fine della vita scrisse un’opera di dodici volumi sulla comunità sefardita locale. La madre Malka Rosilio, veniva da una famiglia di rabbini del Marocco, adorava la cultura, la lingua francese, l’Europa. Ecco, Yehoshua, qualche volta raccontava che l’idea di scrivere Il signor Mani, un romanzo che narra appunto cinque generazioni di ebrei sefarditi e il loro rapporto forte con Gerusalemme e con l’identità di famiglia, considerato il suo capolavoro, gli venne in mente durante i funerali del padre. Che volle che il luogo del suo eterno riposo fosse un vecchio cimitero, quasi caduto in disuso, fra lapidi divelte.
Contraddizioni e creatività
Sostenitore della “normalità” sinonimo della “sovranità”, come si diceva, Yehoshua era anche un uomo pieno di meravigliose (perché foriere di creatività) contraddizioni. E così, nel 1967, al ritorno di una lunga permanenza a Parigi, assieme alla moglie Rivka, psicoanalista saggia, intelligente e bellissima, che gli amici chiamavano Ika e di cui era follemente innamorato fino alla fine degli ultimi giorni di lei (nel 2016, da quel lutto non era mai uscito, e il rapporto con lei lo raccontò, sublimato, in Il tunnel), tornati dunque da Parigi, i due decisero di stabilirsi a Haifa. Haifa è una città laica, porto di mare, raffinerie e forte presenza di residenti arabi. Non avevano alcuna intenzione di abitare in una Gerusalemme, la cui parte orientale, compreso il Muro del Pianto, era stata appena conquistata da Israele. “Troppi simboli, troppa religione, troppo pesante il passato”, spiegava. E del resto, a un certo punto, Yehoshua cominciò a teorizzare la necessità dell’oblio, come fatto psico-politico. La troppa memoria degli ebrei e dei palestinesi, paralizzava ogni sforzo di trovare la soluzione al conflitto. Quale soluzione? Uno Stato binazionale, ebrei e arabi insieme, perché altrimenti l’occupazione si sarebbe trasformata in apartheid.
Si è detto che nessuno come lui sapesse usare le parole in ebraico. La sua padronanza della lingua sfiorava la perfezione, così come l’architettura dei romanzi. Su incipit lavorava per settimane, qualche volta mesi, perché nelle prime pagine doveva esserci il Dna di tutta la storia. Fatto questo, i protagonisti conquistavano una certa autonomia rispetto all’autore. Diceva: “Sai, quello (e faceva il nome del protagonista inventato) mi ha sorpreso, ha fatto il contrario di quello che mi sarei aspettato”. Oppure: “Volevo farlo morire ma si è rifiutato”. E rideva. E per tornare alla scrittura, in ogni romanzo cambiava registro e ogni protagonista aveva una voce diversa, originale e difficile da imitare. Anche nei romanzi meno riusciti, ci sono pagine e pagine di vero virtuosismo, con una maniacale attenzione ai dettagli, quasi tecnici. Lui citava l’influenza che subì di Faulkner e di Kafka (“per me la martora animale antico, del racconto Nella nostra sinagoga, di Kafka, è l’essenza dell’ebraismo”) e ricordava quanto da giovane fosse affascinato da surrealismo. Dopo un lungo periodo a Haifa, si trasferì a Tel Aviv per essere vicino ai nipoti. Abitava in una casa luminosa. Quando sentì dire che sapeva descrivere la luce come pochi altri, forse solo come Camus la luce algerina, rispose di non essere bravo a descrivere gli oggetti e allora si fa aiutare dalla luce.
Fra i romanzi che resteranno a lungo: Un divorzio tardivo, L’Amante, Viaggio alla fine del Millennio, Cinque stagioni, Ritorno dall’India. Ma ha scritto pure saggi e opere teatrali. Lodatore della normalità era invece maestro nel raccontare l’impossibilità di essere normali e i disastri della vita familiare. Eppure, ripeteva: “Sono l’ultimo difensore della famiglia”.
Nell’estate sempre del 2011, Yehoshua, assieme a Ika, era a Pietrasanta. Gli proposi di venire a Sant’Anna di Stazzema. Mi chiese perché. Gli risposi che volevo fargli vedere un luogo di dolore altrui. Raccontare la sua commozione durante la visita richiederebbe la sua penna. Quelle vittime, italiane, assassinate dai nazisti, erano fratelli e sorelle, parte della famiglia.