Eshkol Nevo: «Noi, il male e la sfida: non farci contagiare»
di Eshkol Nevo
Lo scrittore israeliano sul suo ritorno in patria. «Solo immaginare il futuro ci può aiutare». E i piccoli «momenti di grazia» che si manifestano nella vita quotidiana
Il 7 ottobre, quando è avvenuta la carneficina, ero in Italia. A Torino, in un bell’appartamento, vicino a Piazza Emanuele Filiberto. In quelle stesse ore mia moglie e le mie figlie erano in volo per Israele. Il loro aereo non ha ricevuto l’autorizzazione ad atterrare per timore che i missili colpissero l’aeroporto ed è stato dirottato su Cipro. L a maggior parte dei passeggeri è sbarcata a Cipro e poi ha trascorso la settimana successiva nel vano tentativo di trovare una maniera di raggiungere Israele. Mia moglie e le mie figlie hanno deciso di tornare assieme all’equipaggio in Italia. Da me.
Le ho aspettate a casa. Ho imbandito la tavola, una grossa insalata, una frittata speciale, formaggio, pane fresco. Nel frattempo leggevo notizie spaventose e guardavo video terrificanti diffusi da Hamas. Sono arrivate la sera molto tardi, stanche, tristi e affamate. Hanno mangiato e sono andate a dormire. La mattina presto mi ha svegliato il suono di un messaggio in arrivo sul mio telefono. Era il mio amico Assaf. Credo che Yftach, il figlio di Shira, sia stato ucciso, scriveva. Puoi controllare se è proprio lui? Era accaduto il peggio. Yiftach Yavets, il figlio di Shira, che conosco da quando è nato, era morto nella battaglia il primo giorno di guerra. Mia moglie si è svegliata. Gliel’ho raccontato. Ho pianto tra le sue braccia. Non piangevo da vent’anni, da quando c’è stato l’attentato nel Sinai.
Il giorno dopo, mentre viaggiavo in treno, ho parlato di Yiftach e Shira con alcuni amici israeliani. Ho pianto di nuovo. La sera ho partecipato a un evento a Milano. È stata dura. Non trovavo parole. Ho chiesto al moderatore che si facesse un minuto di silenzio in memoria di Yiftach. Lui ha accettato. Centinaia di italiani hanno taciuto in ricordo di un ragazzo bello, intelligente, sensibile, che non conoscevano e non potranno più conoscere. Il moderatore ha cercato di parlare con me di fake news. Di verità e falsità. Mi sono innervosito. Gli ho detto: quale falso? Guarda i video di Hamas e credici. Questa è la faccia del male, il male nel mondo esiste e se non lo fermeremo arriverà fino alla vostra casa. Ai vostri figli.
Sono tornato a Torino, ai miei studenti alla Scuola Holden. Ho confuso il fuso orario di Israele con quello italiano. Sono arrivato tardi. Io non sono mai in ritardo. In venticinque anni non ho mai tardato a una lezione. Ho detto agli studenti: farò del mio meglio per continuare a insegnarvi fino a quando io e la mia famiglia non troveremo un volo per Israele. Ma in classe non ci saranno più risate. Ho il cuore in pezzi. Gli studenti si sono dimostrati empatici, nonostante nessuno di loro si fosse mai trovato in una situazione del genere e quindi non potessero capire veramente.
Ci è voluto parecchio tempo prima che trovassimo i biglietti per tutti su un volo per Israele. Nel frattempo molti amici, da Israele, suggerivano: rimanete in Italia. È meglio. Qui è l’inferno. Nessuno esce di casa. Si dorme con un coltello sotto il cuscino. Noi rispondevamo: non ci passa nemmeno per la testa. Abbiamo una figlia nell’esercito. Dal momento in cui è iniziata la guerra, ci telefona in Italia sei volte al giorno implorandoci di tornare. Una sua conoscente è stata ammazzata al rave. Un’altra è stata rapita, è a Gaza, ostaggio. La sua migliore amica si è salvata per miracolo perché i terroristi di Hamas, per puro caso, non sono entrati nella sua postazione. Non mi è possibile uscire dalla base, ci ha spiegato nostra figlia, ma mi farebbe bene sapere che siete qui vicini.
Cinque giorni dopo il massacro ho incontrato per la prima volta i miei studenti in Israele via Zoom, nell’ambito di quello che abbiamo deciso di chiamare «spazio di scrittura». Non «laboratorio di scrittura». Perché fosse chiaro che sono protetti. All’inizio dell’incontro ho detto che non dovevano scrivere bene, belle parole. Solo esprimere le loro emozioni. E che io non avrei commentato come al solito, ma mi avrebbe fatto piacere leggere in chat quello che scrivevano. Ho detto loro che una delle domande che mi tormentano in questi giorni è come si combatte la malvagità pura di Hamas senza esserne contagiati. Come possiamo continuare a credere nella bontà insita nell’uomo, dopo quanto abbiamo visto questa settimana? La chat si è pian piano riempita di piccoli momenti di grazia. Una donna aveva offerto a un’altra di bere dell’acqua dalla sua bottiglia dopo un allarme. Un uomo aveva fumato una sigaretta con calma, sul balcone, un minuto tutto per sé. Un bambino aveva abbracciato la mamma senza rendersi conto di come la stava confortando. Un cane, accorgendosi della tristezza del padrone, si era accucciato al suo fianco.
Ho guardato le facce dei miei studenti su Zoom. Erano molto pallidi. Non era il pallore già familiare dai giorni del Covid. Era un pallore diverso. Più profondo. Più preoccupante. Ho pensato: è tempo di tornare a casa.
Mentre ci avvicinavamo alle coste di Israele, l’uomo seduto accanto a me ha asserito con assoluta sicurezza: non stiamo atterrando come sempre a Ben Gurion. Non siamo sulla rotta normale. Ho il brevetto da pilota. Lo so. Ci portano a Eilat. Forse a Cipro. Ho guardato fuori dall’oblò. Non sapevo se credere a quello che vedevano i miei occhi o a quello che diceva l’uomo con il brevetto da pilota. Siamo atterrati a Ben Gurion. Non ci sono stati i soliti applausi. In generale, i passeggeri hanno mantenuto un silenzio assai poco israeliano durante tutto il volo. Abbiamo preso un taxi. Le strade erano vuote e l’autista furibondo nei confronti del governo e del fallimento dei servizi segreti. Agitava le mani mentre parlava e a un certo punto ho pensato che avrebbe perso completamente la testa, e anche il controllo dell’auto. Nei giorni successivi ho scoperto che il tassista era solo un’avvisaglia. Tutte le persone che conosco, senza alcuna eccezione, sono al limite. A un passo dal baratro.
Mentre eravamo in Italia, si è trasferita a casa nostra una famiglia scappata dalla zona vicina alla Striscia di Gaza. Amici. La madre non era riuscita a spiccicare parola per tutta la settimana. Si limitava a messaggi WhatsApp con richieste pratiche: dov’è il telecomando del condizionatore? Come funziona il forno? Avete una seconda chiave di casa? Metà dei suoi amici sono stati assassinati o rapiti nel Sabato Nero, ci ha scritto. Perciò è sotto choc. In lutto. Non è in grado di parlare. La sera prima del nostro rientro mi ha scritto che lo Stato aveva messo a disposizione una camera in un albergo, si trasferivano lì. Quando siamo entrati in casa e ho aperto il frigorifero, ho visto che ci avevano lasciato dei cioccolatini per ringraziare. Piccoli momenti di grazia. Di notte è partita la sirena d’allarme. Siamo corsi nel rifugio in pigiama. Abbiamo un rifugio in condivisione con i nostri vicini, una famiglia di sei persone. Ci si stringe tutti in uno spazio grande un quarto di un’aula della scuola Holden. Si sta lì dentro per dieci minuti. Dopodiché si può uscire. Il padre della famiglia dei vicini non c’era. Non ci sarebbe stato bisogno di chiedere alla madre, ma l’ho fatto ugualmente e lei ha risposto: sì, è arruolato tra i riservisti. In questo momento è al confine nord. Non so quando tornerà. Al mattino c’è stato un altro allarme. Le figlie sono rimaste a casa perché le scuole erano chiuse. Al supermercato scarseggiavano molti prodotti perché il Comando del fronte interno aveva dato indicazione di approvvigionarsi per l’eventualità di lunghe permanenze nei rifugi. Gli amici esitavano a incontrarsi per paura di lasciare i figli soli. Indifesi. Eppure, provavo una sensazione innegabile che si faceva più netta di ora in ora: essere a casa era bello.
Il giorno dopo sono andato a trovare Shira. La shivà, la settimana di lutto stretto, era già terminata. Era a casa da sola. Rughe nuove incise sul viso. Ci conosciamo da trent’anni, abbiamo lavorato insieme. È una delle donne più solide che abbia mai incontrato. Ci siamo seduti sul balcone a leggere in silenzio un libriccino che lei e Yiftach avevano creato insieme e intitolato Poesia per Shabbat. Da quando lui si era arruolato nell’esercito si scambiavano una poesia ogni venerdì. Un dialogo, una poesia di lui e una di lei. Ogni poesia rivela un diverso aspetto delle loro anime. Poi mi ha fatto leggere un biglietto di auguri che il figlio le aveva scritto qualche anno fa per il compleanno. Un amore così esplicito e aperto da parte di un figlio per sua madre, le ho detto, non è affatto scontato. Lo so, ha annuito con le lacrime agli occhi, avevamo un legame speciale. Abbiamo rievocato i giorni in cui lo portava, piccolissimo, nel posto dove lavoravamo. Una volta mi aveva pregato di tenerlo mentre partecipava a una riunione. Poi mi ha chiesto consiglio sulle parole da scrivere sulla lapide. Per me è importante, ha detto, che si sappia che ha salvato civili innocenti. Non ti puoi immaginare in quanti mi scrivono. Per ringraziare. Abbiamo riflettuto a lungo e alla fine abbiamo trovato una frase che la soddisfaceva. Poi si è alzata e ha detto che stavano per arrivare i rappresentanti del ministero della Difesa, si doveva preparare per la visita. L’ho abbracciata. Ho pensato che non esiste nulla che si possa fare o dire per consolare una mamma che ha perso suo figlio.
La stessa sera sono andato a un incontro per gli sfollati del kibbutz Mefalsim, ospiti in un albergo a Herzliya. La maggioranza dei membri del kibbutz è sopravvissuta al massacro del 7 ottobre grazie alla strenua resistenza della squadra di sicurezza locale. Ma i loro amici delle comunità vicine sono stati uccisi o portati a Gaza come ostaggi e loro, mentre venivano evacuati, sono passati davanti a cadaveri di bambini, donne e anziani, buttati lungo la strada. Quando lo spettacolo è cominciato sono stato contento di aver chiesto l’accompagnamento di alcuni musicisti. La musica sembrava aiutare il pubblico più delle parole. Mentre i musicisti suonavano ho osservato le facce dei presenti. I loro corpi. Sembrava che ne avessero succhiato fuori la vita, l’anima. Restavano solo dei gusci vuoti.
Con il passare dei giorni mi rendo conto che non solo i membri del kibbutz Mefalsim, ma tutte le persone che conosco soffrono di qualche trauma. Un caro amico, con cui vado a camminare la sera da anni, dal 7 ottobre ha paura di uscire di casa. Una coppia di amici, di solito dotati di eccellente senso dell’umorismo, ha passato un’intera serata nel nostro salotto senza che l’ombra di un sorriso sfiorasse le labbra. Il figlio è nell’esercito. Sono preoccupati. La donna ha detto: sono traumatizzata e consapevole di esserlo.
Tengo due o tre incontri al giorno, su Zoom, con studenti e lettori. Con gli studenti, cerco di aiutare a trovare parole che possano descrivere le loro sensazioni: trovare parole ti restituisce un minimo di controllo, o quanto meno ti illude di trovarlo, nel mezzo del caos che ci ha travolti. Per i lettori cerco racconti che possano confortare, rincuorare, regalare speranza. Uno di loro mi ha scritto nella chat: la storia che ci siamo raccontati sulla nostra vita sicura in questo posto si è spezzata. Non ci possiamo più credere. Aiutaci a trovare una storia nuova.
Durante un incontro su Zoom con dei bambini, dopo che avevo letto loro i miei libri per piccoli, la moderatrice ha chiesto: avresti qualche consiglio per i bambini che in questi giorni hanno paura, su come affrontarla? Non ero preparato. Non sono uno psicologo, né un esperto di resilienza. Perciò ho risposto di pancia: due cose mi fanno bene in questo periodo. Una è aiutare gli altri, essere disponibile per loro. Così pensi meno a te stesso. L’altra è immaginare e ricordare. Non rimanere costantemente in questo momento difficile, angosciante, ma riandare a momenti piacevoli e belli del passato e immaginare un futuro migliore che ci aspetta.
Ancora non so quale sarà la nuova storia che verrà scritta dopo questa guerra. È troppo presto per saperlo. Una cosa però mi è chiara.
Il 7 ottobre, Hamas ha cercato di spezzare lo spirito degli israeliani. Il fatto che stupri, saccheggi e sevizie siano stati documentati dalle telecamere frontali degli assassini e diffusi come video sui social media, dimostra che era una mossa di guerra psicologica premeditata. Mi inorgoglisce il fatto che sia successo l’esatto opposto di quanto pianificato da Hamas: le crudeltà del 7 ottobre hanno giustamente risvegliato negli israeliani i ricordi della Shoah e dei pogrom contro gli ebrei avvenuti nel passato, ma invece di spezzarci, ci siamo uniti. Rialziamo la testa consapevoli che non abbiamo altro posto dove andare. Questo è il nostro Paese e dobbiamo combattere perché continui a esistere. Le organizzazioni che protestavano contro il governo hanno ridiretto la loro energia, attività e intraprendenza nel sostenere chi è partito a combattere. Più del cento per cento dei riservisti richiamati si sono presentati. Chi non ha più l’età per combattere si offre volontario per prestare servizio ai confini. Israeliani che vivono all’estero rientrano per partecipare allo sforzo collettivo. Le diverse tribù che compongono la società israeliana, che fino allo scoppio della guerra erano divise in due fronti opposti riguardo al sistema giuridico, adesso agiscono unite, fianco a fianco. In reazione al trauma sorgono ogni giorno nuove iniziative. Mentre scrivo questo diario, mia moglie e nostra figlia in cucina preparano vaschette di cibo da mandare a chi combatte a Gaza. La figlia soldatessa si è ripresa e viaggia su e giù per il Paese, svolgendo qualunque compito le venga assegnato. I miei amici offrono aiuto alle decine di migliaia di israeliani, del sud e del nord, che sono stati evacuati dalle loro case. Fanno spettacoli, curano, ascoltano, ospitano, mandano abiti. Si ha la sensazione che non ci sia una sola persona in Israele non coinvolta in qualche modo in iniziative che, una per una e tutte insieme, dimostrano che non ci siamo spezzati. E che, insieme, vinceremo.
E c’è un’altra cosa chiara, e perché lo sia anche ai miei lettori fuori da Israele la scrivo qui senza mezzi termini. Perché questa storia possa avere un lieto fine, Hamas non ne può fare parte. Chi spera, come me, nella pace del Medio Oriente, deve augurarsi una inequivocabile, rapida, sconfitta di Hamas in questa guerra. Chi pensa, come me, che i palestinesi hanno diritto all’autodeterminazione, deve sperare che questa organizzazione terroristica, più micidiale dell’Isis, smetta di rappresentarli. Chi soffre, come me, anche per il dolore degli abitanti di Gaza in questi giorni, deve sperare che Hamas smetta di governare la Striscia.
Dicono che la guerra durerà diversi mesi. Spero vivamente di no. Altre madri come Shira, da ambo le parti, perdono i loro figli ogni giorno. Altra distruzione. Altro dolore.
Sfrutto tutte le capacità della mia immaginazione e guardo avanti, a primavera. La guerra è finita. Gli ostaggi sono stati rilasciati. Hamas non usa più Gaza come base per il terrorismo. Ci sono nuovi accordi di sicurezza e anche un orizzonte politico. Il primo ministro Netanyahu si è dimesso a causa delle responsabilità per questo disastro. Lo sostituisce un leader più coraggioso, più attento, che ha una vera visione per questa regione. Gli abitanti ai due lati del confine tornano alle loro case distrutte e iniziano a ricostruire.
Io parto per Torino, con il cuore in pace. Torno al mio bell’appartamento in Piazza Emanuele Filiberto.
La sera sento le campane della chiesa, non più le sirene d’allarme.