PROFILO
BRUNO SEGRE
(1930-2023)
Bruno Segre ha osservato il XX secolo e l’inizio del XXI da una posizione leggermente defilata: è stato un testimone con tutti gli strumenti per comprendere ciò che accadeva intorno a lui
11 DICEMBRE 2023
In Storie di un’altra Italia. Incontri e ritratti (Edizioni Casagrande, 2023) ho riunito le storie di una serie di personaggi nati nel XX secolo che mi è capitato di incontrare perlopiù di persona a partire dagli anni Novanta. Alcuni celebri (Umberto Eco, Stajano, Giulia Maria Crespi), altri raccontati attraverso chi li ha conosciuti molto da vicino, come Giulio Einaudi nelle parole del fratello Roberto, o Pier Pasolini in quelle del cugino Nico Naldini. Poi ci sono i ritratti di maestri di inapparenza come Gianni Antonini, braccio destro di Raffaele Mattioli alla Ricciardi, o Roberto Cerati, direttore commerciale dell’Einaudi degli anni d’oro. Scrittori come Marisa Bulgheroni o Manlio Cancogni, ma poi tanti nomi meno noti come Bruno Segre (1930-2023) che collaborò a questa testata negli ultimi anni di vita con pezzi molto lucidi sul Medioriente. La sua vita merita di essere conosciuta.
Camignolo, Canton Ticino, 1976. Sono, con Emanuele Segre, ospite della casa di campagna dei genitori: Bruno e Matilde. I nostri rispettivi genitori ci hanno iscritto alla scuola media sperimentale di via Vivaio, a Milano, e rapidamente abbiamo fatto amicizia. Gli esperimenti consistevano in una scuola a tempo pieno, in insegnamenti pluridisciplinari e nell’apprendimento di uno strumento musicale. Emanuele è divenuto un chitarrista classico che si esibisce in tutto il mondo; quanto a me, dopo tre anni di studio del pianoforte riuscivo a eseguire Coccinella con due dita. Pur avendo nel tempo notizie della famiglia Segre e dei progressi della carriera di Emanuele, ho rivisto Bruno, credo, solo nel 2012, in occasione di un suo incontro per il Giorno della Memoria organizzato dal Comune di Milano. Era gennaio e, terminata la conferenza, scambiammo due parole, ma il clima non induceva a trattenersi in chiacchiere. In quegli anni stavo andando a caccia di chi aveva conosciuto di persona Adriano Olivetti e ricordavo vagamente che Bruno aveva lavorato per l’azienda di Ivrea; così, qualche mese più tardi trascorsi un intero pomeriggio a parlare con lui del mondo intorno a Olivetti. Lo aveva frequentato in gioventù e aveva partecipato all’esperienza del Movimento Comunità, di cui era stato membro attivo, vivendo per qualche anno a Ivrea nella seconda metà degli anni Cinquanta. C’era poi tornato negli anni Settanta, lavorando, tra Milano e il Canavese, ai servizi culturali della Olivetti con Renzo Zorzi.
Nella conversazione affiorarono però altre esperienze che sembravano essere state più importanti per lui. Mi ripromisi quindi di tornare a intervistarlo, ma, come sempre accade, c’erano sempre delle cose più urgenti da fare. Poi una domenica, era il 2015, apparvero due pagine su «La Repubblica» in cui, con Antonio Gnoli, Bruno ripercorreva le principali tappe della sua esistenza. Al momento ebbi l’impressione di essermi lasciato soffiare uno scoop. Poi, riflettendo, pensai che c’era ancora molto altro da dire e, alla successiva Buchmesse, ne parlai con Fabio Casagrande, che lo aveva intervistato per l’«Archivio Storico Ticinese» sulle sue esperienze di insegnamento negli anni del Sessantotto ticinese. Bruno aveva vissuto in Canton Ticino tra il 1964 e il 1969, quando aveva insegnato nella Scuola magistrale di Locarno. Dovette abbandonare la Svizzera perché fu accusato dalla dirigenza scolastica di aver fomentato le proteste degli studenti, insieme ai colleghi e amici Sandro Bianconi e Virgilio Gilardoni (ma la sua frequentazione del Ticino è proseguita nei decenni successivi). Dissi a Fabio che qualcuno avrebbe dovuto intervistarlo. Lui mi esortò: «Fallo tu». Risposta ineccepibile per un editore. Con Bruno fu facile combinare. Lessi un po’ di suoi articoli «militanti», soprattutto sulla politica di Israele negli ultimi anni e sui suoi riflessi sulla comunità ebraica in Italia.
Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 abbiamo trascorso due giornate insieme tra Canton Ticino e Milano. Abbiamo parlato delle sue origini, della sua vita, delle sue idee. La conversazione è ruotata intorno al concetto di identità ebraica per un cittadino italiano della sua generazione – è nato nel 1930 –, ma Bruno Segre aveva il dono di raccontare e riflettere allo stesso momento; perciò la chiacchierata ha assunto un andamento narrativo.
In Storie di un’altra Italia. Incontri e ritratti (Edizioni Casagrande, 2023) ho riunito le storie di una serie di personaggi nati nel XX secolo che mi è capitato di incontrare perlopiù di persona a partire dagli anni Novanta. Alcuni celebri (Umberto Eco, Stajano, Giulia Maria Crespi), altri raccontati attraverso chi li ha conosciuti molto da vicino, come Giulio Einaudi nelle parole del fratello Roberto, o Pier Pasolini in quelle del cugino Nico Naldini. Poi ci sono i ritratti di maestri di inapparenza come Gianni Antonini, braccio destro di Raffaele Mattioli alla Ricciardi, o Roberto Cerati, direttore commerciale dell’Einaudi degli anni d’oro. Scrittori come Marisa Bulgheroni o Manlio Cancogni, ma poi tanti nomi meno noti come Bruno Segre (1930-2023) che collaborò a questa testata negli ultimi anni di vita con pezzi molto lucidi sul Medioriente. La sua vita merita di essere conosciuta.
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Camignolo, Canton Ticino, 1976. Sono, con Emanuele Segre, ospite della casa di campagna dei genitori: Bruno e Matilde. I nostri rispettivi genitori ci hanno iscritto alla scuola media sperimentale di via Vivaio, a Milano, e rapidamente abbiamo fatto amicizia. Gli esperimenti consistevano in una scuola a tempo pieno, in insegnamenti pluridisciplinari e nell’apprendimento di uno strumento musicale. Emanuele è divenuto un chitarrista classico che si esibisce in tutto il mondo; quanto a me, dopo tre anni di studio del pianoforte riuscivo a eseguire Coccinella con due dita. Pur avendo nel tempo notizie della famiglia Segre e dei progressi della carriera di Emanuele, ho rivisto Bruno, credo, solo nel 2012, in occasione di un suo incontro per il Giorno della Memoria organizzato dal Comune di Milano. Era gennaio e, terminata la conferenza, scambiammo due parole, ma il clima non induceva a trattenersi in chiacchiere. In quegli anni stavo andando a caccia di chi aveva conosciuto di persona Adriano Olivetti e ricordavo vagamente che Bruno aveva lavorato per l’azienda di Ivrea; così, qualche mese più tardi trascorsi un intero pomeriggio a parlare con lui del mondo intorno a Olivetti. Lo aveva frequentato in gioventù e aveva partecipato all’esperienza del Movimento Comunità, di cui era stato membro attivo, vivendo per qualche anno a Ivrea nella seconda metà degli anni Cinquanta. C’era poi tornato negli anni Settanta, lavorando, tra Milano e il Canavese, ai servizi culturali della Olivetti con Renzo Zorzi.
Nella conversazione affiorarono però altre esperienze che sembravano essere state più importanti per lui. Mi ripromisi quindi di tornare a intervistarlo, ma, come sempre accade, c’erano sempre delle cose più urgenti da fare. Poi una domenica, era il 2015, apparvero due pagine su «La Repubblica» in cui, con Antonio Gnoli, Bruno ripercorreva le principali tappe della sua esistenza. Al momento ebbi l’impressione di essermi lasciato soffiare uno scoop. Poi, riflettendo, pensai che c’era ancora molto altro da dire e, alla successiva Buchmesse, ne parlai con Fabio Casagrande, che lo aveva intervistato per l’«Archivio Storico Ticinese» sulle sue esperienze di insegnamento negli anni del Sessantotto ticinese. Bruno aveva vissuto in Canton Ticino tra il 1964 e il 1969, quando aveva insegnato nella Scuola magistrale di Locarno. Dovette abbandonare la Svizzera perché fu accusato dalla dirigenza scolastica di aver fomentato le proteste degli studenti, insieme ai colleghi e amici Sandro Bianconi e Virgilio Gilardoni (ma la sua frequentazione del Ticino è proseguita nei decenni successivi). Dissi a Fabio che qualcuno avrebbe dovuto intervistarlo. Lui mi esortò: «Fallo tu». Risposta ineccepibile per un editore. Con Bruno fu facile combinare. Lessi un po’ di suoi articoli «militanti», soprattutto sulla politica di Israele negli ultimi anni e sui suoi riflessi sulla comunità ebraica in Italia.
Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 abbiamo trascorso due giornate insieme tra Canton Ticino e Milano. Abbiamo parlato delle sue origini, della sua vita, delle sue idee. La conversazione è ruotata intorno al concetto di identità ebraica per un cittadino italiano della sua generazione – è nato nel 1930 –, ma Bruno Segre aveva il dono di raccontare e riflettere allo stesso momento; perciò la chiacchierata ha assunto un andamento narrativo.
Presto dovette fare i conti con la sua identità ebraica. Un primo trauma furono, nell’autunno del 1938, le leggi razziali, che non gli consentirono di proseguire gli studi in una scuola pubblica
Ho sbobinato e messo in ordine, poi Bruno ha rivisto integralmente il tutto, annotando, precisando, aggiungendo. Che razza di ebreo sono io è un libro suo a tutti gli effetti.
Che razza di ebreo è stato Bruno Segre? La risposta rimane aperta, a partire dalle origini dei genitori: la famiglia paterna ha seguito il classico processo di assimilazione degli ebrei italiani tra Otto e Novecento, quella materna è di origine irlandese. Le carte quindi si sono mescolate da subito, con un cosmopolitismo di fondo che ha reso Bruno un cittadino del mondo con la consapevolezza di essere il risultato di una stratificazione di storie. Presto però dovette fare i conti con la sua identità ebraica. Un primo trauma furono, nell’autunno del 1938, le leggi razziali, che non gli consentirono di proseguire gli studi in una scuola pubblica. «La mia è stata un’infanzia abbastanza solitaria», mi ha detto con il suo classico understatement, ma non poteva dimenticare di essere diventato da un giorno all’altro «un invisibile».
Un secondo trauma fu la morte del padre nel giugno 1941, quando fu colpito da un ictus fatale dopo che la sua domanda di assimilazione (una pratica che il regime fascista offriva agli ebrei di nazionalità italiana per recuperare i propri diritti civili, ma che si rivelò poco più che un bluff) fu respinta. Fu la madre, Kathleen, a superare le trappole mortali della guerra, specie dopo l’8 settembre, quando condusse i due figli minorenni nelle campagne attorno ad Ascoli Piceno dove, in qualche modo, la sfangarono. Nei racconti di Bruno ci sono immagini che restano scolpite: il ritorno a Milano su un camion, con la madre e la sorella accanto al guidatore, mentre lui, seduto dietro in mezzo a un carico di mele, scorge l’Italia sconvolta dalle conseguenze della guerra; oppure le perlustrazioni in bicicletta nella Milano del 1945 distrutta dai bombardamenti, di notte ancora buia e pericolosa per il rischio di incontrare sbandati in armi.
Luminoso, oggi quasi un miraggio, il ricordo di Israele, visitata nel 1961, in un viaggio con Matilde e la sorella Laura. Allora sembrava un’utopia in grado di realizzarsi; così Bruno pensò seriamente di fare aliyah, di tornare alla terra dei padri, quando scoppiò la Guerra dei sei giorni (1967) e per un momento si pensò che il giovane Stato rischiasse la sopravvivenza. Ci tornò dieci anni dopo, con Emanuele, ma i semi dell’intolleranza erano già stati gettati. I territori occupati ponevano problemi quotidiani di convivenza, un tema a cui Segre si dedicò, in maniera inaspettata, a partire dal 1991, quando era da poco in pensione. Un amico dei tempi di Ivrea lo aveva coinvolto in Nevé Shalom (Wāħat as-Salām, il nome in arabo), un villaggio cooperativo e un esperimento di convivenza tra 25 famiglie ebraico-israeliane e 25 arabo-palestinesi. L’amico morì improvvisamente e toccò a Bruno occuparsi della sezione italiana dell’associazione a sostegno del villaggio, il che significava andare in Israele tre-quattro volte l’anno per cercare di dirimere difficoltà di ogni genere, proseguendo un’esperienza che provai a sintetizzare così: «Una goccia nell’oceano». La risposta di Bruno («Sì, però esiste») è quella di un costruttore di ponti, pronto a ricostruirli ogni volta che vengono distrutti. Bisognerebbe aggiungere che le conversazioni con lui sono sempre state scandite dal suo sense of humour, dal contagioso ottimismo con cui incoraggiava chi incontrava sul suo cammino, dalla sua capacità di analisi della situazione internazionale, con particolare riferimento a quella di Israele, di cui non ha mai smesso di occuparsi. Sullo sfondo c’era la ricerca di spiritualità di una persona che restava integralmente laica.
“Già, che razza di ebreo sono io? È una domanda che mi sto ponendo da un po’ di tempo. Sarò forse capace di rispondere il giorno in cui, finalmente, diventerò adulto?”
La vita di Bruno è cambiata dopo la morte, nel 2018, di Matilde, la colonna portante dell’intera famiglia – non solo per i sessant’anni di matrimonio, ma per avere condiviso tutto «nella buona e nella cattiva sorte». Bastava entrare in casa Segre per capire come Matilde sia stata il cuore pulsante della famiglia, colei che teneva insieme tutto e tutti. Torinese, severa e dolce al tempo stesso, è stata una madre e una nonna non solo dei tre figli e dei cinque nipoti ma degli amici dei figli e dei nipoti. Ricordo che dopo aver completato Che razza di ebreo sono io, chiesi a Matilde se lo avesse letto in bozza. Rispose che lo avrebbe fatto con calma perché le storie raccontate nel libro le aveva ascoltate già tante volte. Come ha rammentato la figlia Vera, in occasione della commovente celebrazione laica al cimitero di Lambrate, era diventata una perfetta Jewish mother senza in realtà esserlo. Intenzione di Bruno è stata quella di seppellire Matilde, secondo una tradizione della famiglia Segre, nel cimitero di Monticelli d’Ongina, ma l’autorizzazione è stata negata dal rabbino della comunità di Parma, che ha giurisdizione su quel cimitero, perché non era di origine ebraica. Un’amarissima sorpresa per lui che, dopo averla metabolizzata (e non è stato facile) ne ha fatto lo spunto per Il funerale negato (2020), un altro libretto che abbiamo fatto insieme dove, al di là del caso personale, Bruno ha ragionato sulla persistente mancanza di spirito laico nel nostro Paese, «l’ombra lunga dei Patti Lateranensi», per citare il sottotitolo.
Bruno Segre ha osservato più di due terzi del XX secolo e l’inizio del XXI da una posizione leggermente defilata: non è stato un protagonista, ma un testimone con tutti gli strumenti per comprendere quello che accadeva intorno a lui.
Così finisce la riflessione sulla sua identità: «Già, che razza di ebreo sono io? È una domanda che mi sto ponendo da un po’ di tempo. Sarò forse capace di rispondere il giorno in cui, finalmente, diventerò adulto?»
Bruno è mancato nell’agosto 2023. Lo avevo incontrato il mese prima e, seppur molto provato, non aveva perso il suo spirito leggero che rendeva molto attraente la sua frequentazione. Alla notizia della sua morte ho pensato che il mondo aveva perso un uomo giusto.