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AMOS LUZZATO(1928-2020)

Bruno Segre Il Mulino 7 Dicembre 2021

In Italia i rabbini scrivono spesso articoli in cui denunziano le condizioni critiche delle comunità ebraiche. L’andamento demografico dell’ebraismo italiano – lamentano quei testi – è inquietante, caratterizzato dal rovinoso calo del numero degli iscritti e dalla scomparsa, a quanto pare irreversibile, di varie comunità minori. Con questo trend, affermano i rabbini, nel giro di pochi anni saranno progressivamente ridotte all’osso anche le due comunità maggiori, Roma e Milano. A tali denunce si accompagnano vigorose filippiche che rivelano, negli scriventi, una patetica nostalgia per «il mondo di ieri». Vi si prendono di mira, in particolare, i matrimoni misti, sempre più numerosi, la scarsa osservanza delle mitzwot e la generale tendenza di molti ebrei ad assimilarsi agli usi e ai costumi dei goyim. Il declino delle comunità italiane viene generalmente letto dai nostri rabbini nel segno di un deprimente pessimismo conservatore.

Rileggo gli scritti di Amos Luzzatto a distanza di un anno dalla scomparsa. E il suo pensiero, se lo paragono a quello attuale dei rabbini, mi appare decisamente più moderno, più equilibrato, più calato nel mondo e nei suoi problemi, e più aperto a orizzonti di speranza nel futuro. In un saggio pubblicato nel 2003, intitolato Il posto degli ebrei e dedicato fra l’altro a individuare le possibili vie che la costruzione della nuova Europa aveva allora dinanzi a sé, Luzzatto scriveva:

«L’Europa deve essere aperta e inclusiva delle culture e delle confessioni di minoranza, nella consapevolezza che queste ultime presentano una costante crescita per numero e per importanza … Se l’Europa deve aspirare a essere un fenomeno nuovo che nasce all’insegna del superamento di un passato di sopraffazioni, di lacrime e di sangue, allora deve essere soprattutto la patria di tutti coloro che la abitano e che intendono abitarla, portandovi una sintesi tra culture, religioni, lingue e costumi di vita diversi, all’insegna del rispetto reciproco».

Nato in una famiglia di antica tradizione ebraica, cacciato a dieci anni dalle scuole italiane in seguito alle leggi fasciste sulla «difesa della razza», costretto nel 1939 a emigrare nella Palestina mandataria con la madre e i nonni Lattes, rientrato in Italia dopo la fine della guerra, iscritto al Partito comunista dal 1946, impegnato per più di quarant’anni quale chirurgo in svariati ospedali, eletto presidente dell’Unione della Comunità ebraiche italiane per due mandati, dal 1998 all’inizio del 2006 – cioè in un periodo di impervia transizione, con la nuova destra postfascista al potere a Palazzo Chigi e un quadro politico nazionale e internazionale gravido di rischi –, Amos Luzzatto fu l’autorevole dirigente ebreo che nel 2003 si assunse la responsabilità di scortare il postfascista Gianfranco Fini nella sua storica visita allo Yad Vashem di Gerusalemme.

Nel 2008 la rivista di vita e cultura ebraica «Keshet», che dirigevo, celebrò l’ottantesimo compleanno di Amos dedicandogli un corposo Festschrift. Nelle pagine di apertura, quel fascicolo conteneva una calorosa lettera intitolata «Amos visto da vicino», nella quale Alisa, Gadi e Michele, i tre figlioli di Amos e Laura, scrivevano fra l’altro:

«Anche quando eravamo bambini Amos non è mai stato un uomo “privato”, chiuso nell’orizzonte della famiglia e della sua vita […] Amos si è sempre occupato attivamente di politica, ha fatto il chirurgo, non come un mestiere ma come un’avventura intellettuale e umana, ha continuato a studiare l’ebraismo anche in periodi in cui non era proprio di moda e poteva essere scomodo farlo in certi ambienti. Nel frattempo scriveva racconti, per bambini e per grandi, studiava matematica […] Come filo rosso, costante su tutto, Amos ha sempre tenuto la cultura al primo posto».

In coincidenza con l’ottantesimo compleanno, Amos stesso diede alle stampe nel 2008 l’autobiografia Conta e racconta (un titolo che si rifà a un versetto del libro di Daniele, «fai il tuo bilancio e parlane»), con il significativo sottotitolo Memorie di un ebreo di sinistra. Pubblicata a tre anni di distanza dalle dimissioni dalla presidenza dell’Ucei, quest’opera ha il grande pregio di restituirci un ampio quadro delle riflessioni che Luzzatto stesso ebbe a fare circa il proprio impegno nella vita pubblica italiana e nell’ambito della cultura degli ebrei.

«Mi dichiaro di sinistra», spiegava Amos, «e sostengo che si debba promuovere una cultura di sinistra, non certo un’ideologia. E mi dichiaro al tempo stesso ebreo; certo, non un ebreo ortodosso, ma uno che è cresciuto immerso nello studio della cultura ebraica. E mi dichiaro al tempo stesso europeo. Perché l’Europa ha avuto la filosofia, il teatro, l’arte, la matematica e la scienza. E voglio e devo capire perché ha avuto anche le Crociate, l’Inquisizione, i roghi, la tratta degli schiavi dall’Africa, il nazismo».

Per quanto concerne l’impegno in ambito ebraico, Luzzatto dichiarava di averlo perseguito essendo influenzato da più fattori indipendenti fra loro, ma in particolare dall’esigenza di comprendere meglio la sua stessa esperienza palestinese, quell’ebraismo che vi si era formato «con quel carattere non ortodosso, non sefardita, laico […] Intensificare i rapporti con Israele – chiariva Amos in Conta e racconta – significava e significa necessariamente entrare nell’ottica del pluralismo che non respinge neppure un ebraismo cosiddetto laico».

Amos fu membro del Consiglio dell’Unione delle Comunità ebraiche per ben diciannove anni, dal 1986 al 2006, ivi compreso il periodo in cui ne fu il presidente. Sosteneva di avere fatto, in tale veste, il suo lavoro «senza cercare di imporre una linea di parte, consapevole di rappresentare la totalità dell’ebraismo italiano». Così, quando assunse la presidenza succedendo a Tullia Zevi, volle definirne il carattere presentando una sua breve linea programmatica, articolata con equilibrio lungo tre assi che, in senso lato, si potevano ben qualificare come «politici».

Vi si affermava in primo luogo la necessità di una presenza pubblica dell’ebraismo in Italia, nella nostra società civile, «per sostenere le ragioni di uno Stato laico, equanime nei confronti di tutte le sue minoranze, religiose, linguistiche, di recente immigrazione; nessuna identificazione con precisi schieramenti politici ma apertura al confronto con tutti, con l’unica pregiudiziale del nostro antifascismo». In secondo luogo vi si sosteneva l’importanza di promuovere la cultura e la conoscenza della lingua ebraica, unitamente a un intenso rapporto con lo Stato d’Israele. E, in terzo luogo, vi si sottolineava la necessità di potenziare «il dialogo interreligioso, affrontando con civile dignità una serie di problemi ancora insoluti, malgrado l’indiscutibile innovazione portata dal Concilio Vaticano II, e parlando con il mondo musulmano dove le riserve politiche condizionano troppo spesso le relazioni religiose».

Nel frattempo Luzzatto non mancava di prendere parte di persona a iniziative di dialogo, soprattutto a quelle dette «interconfessionali» quali il Sae, l’Amicizia ebraico-cristiana, il Colloquio cristiano-ebraico di Camaldoli; e poi alle iniziative della Comunità di Sant’Egidio nonché a iniziative squisitamente culturali quali quelle promosse da «Biblia».

In una lettera scritta nel 2001 al pastore luterano Jürg Kleeman, Amos affermava:

«Dobbiamo guardarci dall’errore di personificare, per così dire, le nostre religioni facendole diventare i “soggetti” del dialogo. I soggetti rimangono sempre, con tutti i loro limiti, le donne e gli uomini che si riconoscono in queste religioni… le “persone” in dialogo hanno bisogno di parlarsi per confessarsi reciprocamente i propri dubbi, i propri dilemmi, le contraddizioni che non sanno risolvere. Se lo fanno con sincerità, essi diventano amici e alla fine cercano la strada per aiutarsi l’uno con l’altro […] si domanderanno assieme perché c’è ancora tanta malvagità a questo mondo, perché ci si uccide, perché tanti cercano rifugio nella droga […]  perché si glorificano ancora le divise militarti e le battaglie […]  Pensiamo a Giobbe. Egli aveva tanti dubbi. I suoi amici non ne avevano affatto. Egli cercava il dialogo, i tre amici gli rispondevano con monologhi […]  Ma alla fine del libro, Dio apprezza la sincerità di Giobbe».

A proposito del contributo offerto da Luzzatto alle sessioni estive del Sae, il compianto Gioachino Pistone rilevava:

«Amos è stato non solo un grande hakham (in ebraico: “sapiente, saggio”) ma anche un grande morè (in ebraico: “maestro”), senza rinunciare mai alla profondità del messaggio. Con le sue conferenze, con le sue meditazioni, con la partecipazione ai gruppi di lavoro, con i suoi interventi di cui è difficile dimenticare l’acutezza e la ricchezza, unite alla chiarezza cristallina, Amos non solo ha trasmesso alle generazioni di cristiani che si sono succedute al Sae dei contenuti di conoscenza fondamentali ma – cosa che credo ancora più importante – ha insegnato loro a guardare e a rapportarsi in modo diverso al popolo d’Israele e a tutto ciò che lo rappresenta e lo definisce».

Nei primi anni di Luzzatto alla presidenza dell’Ucei, si tenne a Roma il primo gay pride italiano: un evento nel corso del quale vi furono pressioni perché il corteo non si avvicinasse troppo alle mura vaticane. In quella circostanza Amos – incurante di chi gli ricordava che l’omosessualità è condannata dalla Torà – insistette perché l’Ucei sostenesse senza mezzi termini i diritti degli omosessuali: minoranza irrisa, emarginata, assassinata anch’essa ad Auschwitz («noi con il triangolo giallo, voi con il triangolo rosa»). Secondo Luzzatto, il diritto a manifestare pacificamente, quando e dove avessero voluto, nel rispetto della Legge e all’interno del territorio gestito dalle autorità italiane, doveva essere sostenuto quale diritto irrinunciabile per i gay, come pure per altre minoranze quale sarebbe potuta essere quella ebraica, per ribadire la stessa laicità dello Stato come valore comune.

Un capitolo di Conta e racconta (intitolato La politica degli ebrei, gli ebrei nella politica) illustra in modo argomentato il senso che Luzzatto intendeva dare al suo impegnarsi di persona, in quanto ebreo, nella vita pubblica italiana. «Ho spesso detto – scriveva Amos – che anche se gli ebrei non vanno dalla politica, è la politica che va dagli ebrei (e non solo dagli ebrei) […] L’errore – proseguiva – non è quello di “fare politica”, semmai è quello di far coincidere le istituzioni ebraiche con un preciso schieramento politico che venga proclamato “il miglior amico degli ebrei”, generalmente sulla base di un’autentica autocertificazione». Richiamati, poi, alcuni temi politici che a suo parere sono  di spiccato interesse ebraico, e precisamente: la laicità dello Stato, la democrazia, i diritti delle minoranze, il ripudio della violenza, la promozione della cultura, Amos rilevava che «istituzioni rappresentative pubbliche, come le nostre Comunità o la loro Unione, che si proclamano pluraliste (e anche unitarie, che non significa la stessa cosa di maggioritarie), dovrebbero essere rappresentate con modalità, forme e contenuti largamente condivisi, sempre nel rispetto dei principi qui enunciati». E infine, ricorrendo a parole profondamente meditate, che sottintendevano sofferti interrogativi, Amos dichiarava: «ho cercato di farlo con tutte le mie forze. Può darsi che non sempre ci sia riuscito, ma ho impegnato in questo sforzo tutta la mia attività in sette anni di presidenza, contro coloro che cercavano in tutti i modi di spingermi ad abbracciare posizioni di parte».

Nel ricordare qui con voi la vicenda di Amos Luzzatto alla testa della massima istituzione ebraica italiana, temo di non poter confermare che egli sia riuscito, al di là delle sue migliori intenzioni, a trasformare l’Ucei in uno strumento capace di guidare il piccolo rissoso mondo degli ebrei italiani verso quei valori che egli riteneva dovessero stare al centro dell’azione e degli interessi del nostro ebraismo. Sugli ultimi burrascosi mesi della sua presidenza, dal settembre 2005 al febbraio 2006, e sulle circostanze che lo indussero a dimettersi, sarebbe inutile cercare in Conta e racconta qualche cenno chiarificatore.

Per comprendere il dramma che Luzzatto visse in quel periodo, occorre tenere conto del fatto che la sua cultura politica era quella di un uomo formatosi negli anni dell’immediato dopoguerra, nella temperie culturale dettata da quella élite che fece nascere e crescere l’Italia repubblicana, contribuendo a dotarla di una Carta costituzionale per molti versi splendida e muovendosi all’interno del cosiddetto «paradigma antifascista e resistenziale». Durante la Resistenza e negli anni del dopoguerra, molti furono nel nostro Paese gli ebrei che tennero fede alla solidarietà antifascista militando nei vari partiti, in particolare in quelli della sinistra e in quelli laici che, assieme alla Democrazia cristiana, facevano allora parte dell’arco costituzionale.

Durante la Resistenza e negli anni del dopoguerra, molti furono nel nostro Paese gli ebrei che tennero fede alla solidarietà antifascista militando nei vari partiti, in particolare in quelli della sinistra e in quelli laici

Ma con il collasso e la scomparsa dell’Unione Sovietica, nel 1989, con la fine della Guerra fredda e la conseguente crisi della Prima Repubblica, vennero emergendo in un ruolo protagonista nuove formazioni politiche, quali la Lega e Forza Italia, estranee alla vicenda storica dell’antifascismo o addirittura, come nel caso di Alleanza nazionale, affondanti le radici nelle vicende storiche e nei valori dello stesso regime fascista. Fin dal loro sorgere, queste nuove forze dimostrarono d’avere inteso chiaramente quanto la storia e la memoria possano essere formidabili strumenti di lotta politica e ideale. Perciò, sfruttando anche con maestria il circuito tra media e politica, avviarono una spregiudicata e martellante «guerra della memoria», tesa a operare un profondo spostamento del clima civile, culturale e politico del Paese, e a spianare la strada al post-fascismo con la diffusione presso la pubblica opinione di un giudizio edulcorato e assolutorio dell’avventura fascista, e mediante la contestuale messa sotto accusa della Resistenza, considerata colpevole di troppi eccessi e soprattutto d’avere legittimato i comunisti. «L’antifascismo è un mito incapacitante» della storia italiana, ebbe a dichiarare in quel periodo il berlusconiano Marcello Pera quand’era presidente del Senato. Vi fu persino uno storico di vaglia, come Renzo De Felice che, dedicando l’ultimo periodo della sua vita a una tenace battaglia per superare il paradigma antifascista, propose un’implicita riabilitazione di Mussolini affermando, fra l’altro, che il suo regime rimase «al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto» e «come non fu razzista, non fu nemmeno antisemita».

L’eredità che vari anni di guerra della memoria lasciarono dietro di sé in Italia consistette in un profondo cambiamento dello spirito pubblico, frutto di una vera e propria «frattura delle memorie» e di una diffusa amnesia collettiva: fenomeni che – agevolati dalla progressiva scomparsa dei sopravvissuti e dei testimoni della persecuzione nazifascista – investirono anche il piccolo mondo degli ebrei, in nulla diversi da tutti gli altri italiani.

L’eredità che vari anni di guerra della memoria lasciarono dietro di sé in Italia consistette in un profondo cambiamento dello spirito pubblico, frutto di una vera e propria “frattura delle memorie” e di una diffusa amnesia collettiva

Così la galassia politica delle destre, con la quale Amos Luzzatto si dovette confrontare nella veste di presidente dell’Ucei, destinò all’oblio il paradigma antifascista sostituendolo con due altri paradigmi, quello anticomunista e quello antislamico: paradigmi che, assunti quali stelle polari anche dall’establishment di destra che da vari decenni andava governando lo Stato d’Israele, non per caso risultarono andare a genio alla maggioranza degli ebrei italiani, in particolare agli ebrei che egemonizzano la Comunità di Roma.

Fu dunque un ruolo ufficiale improbo, particolarmente ostico, quello che Amos, «ebreo di sinistra», si trovò a svolgere nell’Italia politica di quegli anni, esponendosi ad attacchi colmi di veleno provenienti da ogni parte, ma in particolare dall’interno della stessa comunità ebraica, attestata ormai in larga maggioranza su posizioni di destra.

Fedele alla sua cultura politica, Luzzatto si sforzò con lucido impegno di porre al centro dell’azione e degli interessi della massima istituzione del nostro ebraismo temi quali la laicità dello Stato, la democrazia, i diritti delle minoranze, il ripudio della violenza, la promozione della cultura. Ma il momento storico non era più tale da consentire che un simile impegno potesse svilupparsi con successo.

Mi accade ora dunque, come rammentavo all’inizio, di ritrovarmi al cospetto del cupo, chiuso pessimismo con il quale i rabbini assistono, apparentemente impotenti, al progressivo declino del nostro piccolo mondo. E tuttavia, il fare qui con voi memoria dell’alta figura e della lezione mirabile di Amos Luzzatto, mi induce a credere che sapremo reagire all’amnesia collettiva e al mediocre provincialismo autoreferenziale che da qualche decennio ci stanno ottundendo, e che riusciremo prima o poi a recuperare con orgoglio quella variegata creatività culturale che il mondo ebraico ha saputo, anche in Italia, storicamente produrre.

[Questo testo riproduce l’intervento tenuto dall’autore il 6 dicembre 2021 al XLI Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli.]

Bruno Segre

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Colum McCann: “Vi racconto la pace tra un arabo e un israeliano”

di Andrea Bajani – Repubblica 21 Maggio 2021

La guerra non è l’unica scelta possibile. Come dimostra l’amicizia di Bassam e Rami, protagonisti reali del nuovo libro dell’autore irlandese. E di questo colloquio a distanza tra due scrittori sul potere delle storie

HOUSTON (Texas). Inizia tutto con un volo, e ancora non so che quella perdita dell’equilibrio diventerà il baricentro di quel che ci diremo. Ma è un fatto che da dentro il computer portatile in cui sto parlando con Colum McCann, di colpo decollo, vedo il soffitto della sua casa newyorkese, poi i pensili di una cucina, e lui che sorridendo mi poggia accanto al bollitore e si prepara un tè. Poco dopo prende la tazza con una mano e con l’altra il computer dentro cui ancora fluttua la mia faccia, e torniamo nel suo studio. Ed è così che finalmente ci parliamo, due scrittori europei ai due estremi dell’America.

Il volo di cui parliamo poco dopo cambia il tono alla conversazione. Sono gli aerei israeliani sopra la striscia di Gaza da cui piovono bombe, e i razzi di Hamas che in questi stessi istanti spaccano i cieli d’Israele. Tra le due traiettorie, le persone restano a terra senza vita. Colum McCann ha da poco pubblicato il suo nuovo romanzo, Apeirogon (Feltrinelli, traduzione di Marinella Magrì), al cui cuore c’è la stessa storia, quello stesso incendio che non smette mai di bruciare in Medio Oriente, visto con gli occhi di una pace impossibile, possibile nella condivisione delle storie. Rami e Bassam, due uomini sulle due sponde del conflitto, in comune la perdita di due figlie, Smadar e Abir, uccise da uno scontro che non finisce mai.

Abir (a sinistra), figlia del palestinese Bassam Aramin, uccisa a dieci anni da un proiettile israeliano fuori dalla sua scuola in Cisgiordania, e Smadar, israeliana, figlia di Rami Elhana, uccisa a 14 anni in un attentato suicida mentre faceva shopping con i suoi amici  a Gerusalemme. L’attentatore era palestinese 

“Abbiamo letto troppe volte notizie come queste” mi dice mentre si sistema sulla sedia, i libri impilati alle sue spalle in uno dei tanti set pandemici con cui abbiamo imparato a nostre spese l’arte della messa in scena. Il viso gli si raccoglie dentro una specie di sconfitta. “La storia purtroppo si ripete. Sappiamo già cosa diranno gli uni e che cosa diranno gli altri, e poi anche tutto il resto”. Il sentimento che lo prende è un misto tra la stanchezza, la rabbia, è una forma di estenuazione. La foresta non smette di bruciare da decenni, non è un incendio scoppiato a metà maggio, più spesso brucia da sola, ignorata, insieme a chi ci vive dentro. “Mi chiedo solo quando succederà che una nuova Greta Thunberg uscirà da scuola e comincerà a raccontare in un modo che sarà impossibile non ascoltare”.

L’ascolto è la parola chiave. “John Berger, che ha dedicato molta della sua vita al vedere, diceva che serviva un nuovo modo di ascoltare”. La letteratura si fonda su questo. C’è qualcuno che racconta una storia, e qualcuno che gli apre la porta e lo fa accomodare. E chi racconta non deve smettere mai di farlo. Ciascuno sa che questo comporta un rischio: chi racconta si espone, chi apre la porta contempla la possibilità che chi entra metta in disordine la casa. “Il rischio e il disordine sono due parole fondamentali”, mi dice sfogliando un libro in cerca di una citazione. Intanto New York entra nell’appartamento e nel microfono di Colum, il numero di clacson sembra dire una città ritornata a cento all’ora. La freddezza morbosa dei dispacci di questi giorni parla di traffico aereo chiuso su Tel Aviv, città in lockdown, barricate, fuochi appiccati alle auto e alle case. E di decine di bambini già uccisi, quando anche uno sarebbe già uno di troppo. “Cosa si può fare  quando muore un bambino?” si chiede Colum McCann. “La lezione di Rami e Bassam è l’unica possibile: non smettere mai di raccontare la loro storia, la storia di Smadar e Abir”.

Le emozioni sono pericolose

Poco meno di dieci anni fa, insieme a Lisa Consiglio, Colum McCann ha fondato Narrative 4, un’organizzazione ormai diventata una realtà importante, che riunisce attori diversi, artisti, avvocati, attivisti. Si basa su un principio basico: scambiarsi le storie è l’unico modo per reagire. Decine di progetti in tutto il mondo, scambi tra ragazzi che condividono le proprie storie a distanza. “Il punto, per me, non è andare in Israele o nei Territori occupati a cambiare le cose. Il punto è far sì che ragazzi israeliani o palestinesi si raccontino ai coetanei in Kentucky o Algeria, ascoltino le storie altrui, e che poi tornino a casa. L’importante è tornare a casa cambiati dopo aver incontrato la storia di un altro”.

Narrative 4 e la scrittura sono i due versanti su cui McCann si muove, come cittadino e come autore: non a caso fu volando a Gerusalemme con la sua organizzazione che entrò in contatto con Rami e Bassam, a cui poi aprì le porte del romanzo che sarebbe venuto. Lo strumento, sui due fronti, è comune: lasciar entrare l’altro, essere disposti a cambiare il proprio punto di vista. L’empatia è il mezzo: farsi raccontare la storia da un altro, e poi restituirgliela. “Eppure l’emozione non basta, da sola. L’emozione va trasformata in azione. Senza l’azione l’emozione è molto pericolosa”.

Con i suoi 1001 brevi capitoli, Apeirogon, è la monumentale messa in scena di quanto la letteratura può fare in questo caso. Accettare la complessità del mondo, e fare di quella complessità una visione. Lasciar fuori la semplificazione, costruire uno spazio in cui ospitare il casino, come direbbe Beckett. “Dovremmo accettare di dire “non lo so”, o “sono confuso””, quando ci troviamo di fronte all’incendio che divampa a Tel Aviv. Il “non lo so” come strumento primo di azione conoscitiva, letteraria, politica. “Tutti sanno sempre, hanno tutti una versione da fornire”. Invece che il celebre “Io so” pasoliniano, “Io non so”, e per questa specifica ragione mi metto in ascolto con tutto il corpo. Raccontami la tua storia e io ti racconterò la mia, ne usciremo sconvolti.

Apeirogon tiene insieme tutte queste storie, facendo divampare per frammenti il rovescio esatto di quell’incendio che brucia ogni cosa. In un caleidoscopio che tiene insieme l’istinto enciclopedico a dire tutto e l’amore più vivo per tutto ciò che è umano, Colum McCann ci consegna in qualche modo una pietra miliare. Non tanto di come si risolve il conflitto in Medio Oriente, ma di come si possano trasformare lo sconforto in processo di conoscenza, la sconfitta in azione, la letteratura in pratica d’emergenza.

“L’emergenza è fondamentale, ma non nel significato cui ci riferiamo comunemente. Pensa agli uccelli quando si mettono in volo, alla forma che descrivono quando sono tutti insieme in un volo migratorio”. Si tratta di sistemi complessi chiamati “comportamenti emergenti”: presi tutti insieme sono molto più della somma dei singoli uccelli nello stormo. Avviene qualcosa di inspiegabile e misterioso, che solo la scienza sa descrivere ma non sa spiegare del tutto. Una massa in movimento aumenta la potenza a dismisura. Uno stormo: l’inspiegabile moltiplicazione della forza.

Ottimismo della volontà

La luce del Texas rovescia troppa luce nello schermo, chiudo la tenda del mio studio. Ed è così che nella penombra che unisce Houston a New York, Colum e io voliamo in un cielo molto più grande, inseguendo stormi migratori. “Non so cosa dire quando leggo notizie come queste, e non riesco a pensare che ci sia una via d’uscita. Ma come direbbe Gramsci: sono un ottimista della volontà, e penso quindi che raccontare la propria storia, continuare a farla, sia la via da praticare”. Forse una storia che vola da sola non è sufficiente, anche cento forse non saranno abbastanza. Ma migliaia di storie che battono le ali nel cielo di Tel Aviv, che dicono il dolore e l’insensatezza, possono far succedere qualcosa di stupefacente.

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Egitto-Israele: pragmatismo al vertice

ISPI 14/09/2021

Il premier israeliano Naftali Bennett e il presidente egiziano Al Sisi si incontrano a Sharm el Sheikh. Un vertice che riflette il rapido cambiamento nelle prospettive bilaterali e regionali.

Per la prima volta in un decennio, un premier israeliano si reca in Egitto per una visita ufficiale. A interrompere dieci anni di ‘assenza’ è stato il nuovo primo ministro israeliano Naftali Bennett, che ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso. Sul tavolo, le numerose questioni che agitano il Medio Oriente e che preoccupano il Cairo come Tel Aviv: la stabilità dell’area, la “minaccia” iraniana, il tracollo del Libano e il nodo di Gaza. L’enclave palestinese – isolata da Israele ed Egitto da quasi 15 anni, da quando è governata da Hamas – resta per Israele un problema costante. E che affonda sul nascere ogni speranza di un rilancio del processo di pace con i palestinesi, fermo dal 2014. Ma la spinta per ricucire un filo esile ma inevitabile di rapporti poggia anche sui comuni interessi: dal contenimento del radicalismo ed estremismo islamico, alle rotte del gas e dell’energia. Ieri alle spalle dei due leader svettavano, allineate, le bandiere dei rispettivi paesi. Un passo avanti nel processo di ‘normalizzazione’ in corso da qualche anno tra lo stato ebraico e i paesi della regione. Nelle scorse settimane era stata la volta di altri incontri di livello tra il ministro della Difesa Benny Gantz e il sovrano Abdallah di Giordania e lo stesso Gantz e il premier palestinese Mahmud Abbas. Qualcosa, forse poco, sembra muoversi davvero.

Un decennio di alti e bassi?
L’ultimo premier israeliano a visitare l’Egitto nel gennaio 2011 era stato Benjamin Netanyahu. All’epoca, ricorda Radio France Internationale (Rfi), “le televisioni egiziane coprirono l’evento con un servizio breve, fatto di immagini quasi subliminali di due uomini tesi”. Pochi giorni dopo, le proteste di piazza avrebbero rovesciato il trentennale regno di Hosni Mubarak, e inaugurato un decennio turbolento, durante il quale i rapporti tra i due paesi hanno visto alti e bassi. In mezzo c’è stata l’ascesa dei Fratelli Musulmani al Cairo, il golpe militare di Al Sisi, l’Intifada del 2015, innumerevoli violazioni di cessate-il-fuoco e ben due guerre contro Gaza, quella del 2014 e quella del maggio scorso. Anche se in definitiva le relazioni degli ultimi anni sono state segnate soprattutto dalla cooperazione in materia di sicurezza, e in particolare dalla lotta ai gruppi terroristici nel Sinai. L’Egitto – primo paese con cui Israele ha stipulato accordi di pace nel 1979 – e Israele hanno collaborato anche nel settore energetico: dal 2020 lo stato ebraico esporta in Egitto il proprio gas. Inoltre, l’Egitto ha svolto un ruolo chiave nel mediare diverse tregue tra Tel Aviv e il movimento islamico di Hamas a Gaza.

Qualcosa è cambiato? 
Se fin qui si sono limitati alla cooperazione su temi di comune interesse, ora la volontà è quella di far fare ai rapporti bilaterali un salto di qualità come dimostrato dalla riapertura del valico di Taba attraverso cui turisti israeliani passano per trascorrere le loro vacanze sul versante egiziano, e l’inaugurazione, da ottobre, di voli diretti Egyptair tra Il Cairo e Tel Aviv. E se la cornice dell’incontro di Sharm el-Sheikh è la stessa di dieci anni fa – da anni gli eventi politici di peso in Egitto si tengono a Sharm anziché al Cairo, per questioni di sicurezza – tutto il resto o quasi sembra cambiato. “Israele si sta aprendo ai paesi della regione”, ha detto Bennett con riferimento agli accordi di Abramo inaugurati durante l’amministrazione Trump. Il fatto che dal 2020 quattro paesi arabi – Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan – abbiano normalizzato i legami con lo stato ebraico è stato un punto di svolta. E soprattutto, come osserva il politologo Mostafa Kamel al-Sayed, a differenza dell’era Mubarak, “il regime di Al Sisi è riuscito ad addomesticare l’opposizione” dopo una capillare campagna di repressione: oggi, dopo 19 mesi passati in carcere, lo studente egiziano iscritto all’università di Bologna, Patrick Zaki, è comparso davanti ai giudici di Mansura, cittadina a nord del Cairo. Rischia una condanna a cinque anni per reati minori.

Pragmatismo vs Pace?
“L’Egitto sostiene tutti gli sforzi volti a raggiungere una pace globale in Medio Oriente, sulla base della soluzione dei due stati e della legittimità internazionale” ha detto il portavoce della presidenza egiziana al termine dell’incontro. Ma nonostante le aspettative, le speranze di una ripresa del processo di pace restano lontane. Poche settimane fa Bennett aveva riaffermato la sua netta opposizione alla creazione di uno stato palestinese e ha detto di non vedere all’orizzonte “alcuna svolta politica” con i palestinesi. Per il premier israeliano, leader del partito della destra ebraica Yamina, se il conflitto non può essere risolto, comunque si può “ridurne la portata dell’attrito”: il suo governo ha già approvato permessi di lavoro per i palestinesi in Israele, autorizzazioni edilizie per i palestinesi in Cisgiordania e permessi di residenza per migliaia di persone. Su questo, i due governi si intendono: il deterioramento della situazione economica a Gaza preoccupa molto l’Egitto, che teme un’esplosione della rabbia palestinese vicino ai suoi confini. Il Cairo ha cercato di realizzare un piano di ricostruzione che ha incontrato molti ostacoli da parte del movimento di Hamas che controlla la Striscia. Il vertice di Sharm emana dunque barlumi di pragmatismo, forse, ma non di pace. E di ‘successi’ personali: per Bennett, che forgia il suo profilo di ‘statista’ e per Al sisi, che vede l’incontro come un modo per ritornare a svolgere il ruolo di mediatore e accreditarsi con Washington. “L’Egitto vede le relazioni con Israele e gli sforzi per ricostruire Gaza come un percorso verso la Casa Bianca”, osserva un funzionario israeliano ad Haaretz, aggiungendo che il Cairo “ne ha bisogno” per deviare la pressione internazionale sui suoi diritti umani.
IL COMMENTO di Ugo Tramballi, Senior Advisor ISPI
“Che questo fosse il primo incontro dopo dieci anni, non deve ingannare: fra Egitto e Israele i legami sono stretti. Almeno sul piano strategico, meno su quello economico; almeno fra le leadership dei due paesi: l’ultimo incontro fra Bibi Netanyahu e Hosni Mubarak, nel 2011, provocò grandi proteste fra un’opinione pubblica che non ha mai apprezzato la pace con Israele. Ma i contatti fra i governi sono sempre stati intensi, soprattutto riguardo al contenimento della striscia di Gaza. L’ombra di un disimpegno dal Medio Oriente dell’amministrazione Biden è forse una ragione dell’incontro di lunedì: più per l’Egitto che per Israele. Nessun presidente americano si disimpegnerà mai dallo stato ebraico. La brutalità del regime di al-Sisi, tollerata da Donald Trump, è invece insopportabile per Biden. Una conferma delle intese strategiche con Israele non può che far piacere agli Usa”.
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Israele/Palestina: risposte problematiche a scomode domande

Dialogo tra Bruno Segre , Gabriele Eschenazi, Luciano Belli Paci, Bruno Piperno Beer

Bruno Segre : “Inizio a scrivere queste note sul Vicino Oriente la sera dell’1 giugno. Mentre registro con inquietudine l’estrema liquidità della situazione, mi rendo conto che sto rischiando di mettere qui per iscritto riflessioni che ben presto potrebbero rivelarsi aleatorie.

Mi pongo innanzitutto un paio di scomode domande. Dopo le gravissime violenze che nel maggio scorso hanno insanguinato e devastato i territori di Israele/Palestina, è ipotizzabile che la piccola regione compresa tra il Giordano e il Mediterraneo riesca a riemergere dal caos nel quale sembra ormai irrimediabilmente sprofondata? E ancora, più specificamente, è ipotizzabile che le popolazioni arabo-palestinesi che vivono da decenni in condizioni di umiliante sottomissione traggano, proprio dalle recenti vicende, le energie per puntare con successo all’emancipazione?

Per rispondere a tali quesiti, getto lo sguardo nella nebbia che avvolge quell’intricato complicatissimo scenario socio-etno-politico, mettendomi di volta in volta occhiali palestinesi, occhiali israeliani, occhiali degli ebrei della diaspora, in particolare della diaspora nordamericana, occhiali di chi negli USA tiene attualmente in mano le leve del potere.

A Washington, da quando gli elettori hanno costretto Donald Trump ad abbandonare il proscenio, il clima politico sta cambiando. A fine maggio il potentissimo Senatore repubblicano-trumpiano James Risch, che presiede la Commissione senatoriale per le relazioni estere, tiene bloccati 75 milioni di dollari che l’amministrazione Biden ha destinato ad aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Ma un gruppo di 145 membri democratici della Camera dei Rappresentanti, capitanato da Jamie Raskin e composto dai portabandiera dei più vari orientamenti ideologici del partito democratico, gli indirizza una lettera per sollecitarlo a rendere disponibile con urgenza quel finanziamento. Si tratta di un sussidio, scrivono i Rappresentanti, “disperatamente necessario per sopperire ai bisogni di centinaia di migliaia di civili palestinesi che devono ricostruire le loro esistenze all’indomani dei combattimenti svoltisi all’inizio di questo mese fra Hamas e Israele.” Tra i firmatari figurano parlamentari di cui sono note le scarse simpatie verso Israele, come Alexandria Ocasio-Cortez, Rashida Tlaib e Ilhan Omar, accanto a politici tradizionalmente filoisraeliani come Ted Deutch, Kathy Manning e Debbie Wasserman Schultz. Il Presidente Hadar Susskind dell’associazione ‘Americani per Pace Adesso’ dichiara: “Siamo lieti di appoggiare l’iniziativa assunta dal Rappresentante Raskin ed esprimiamo tutta la nostra stima ai 145 politici che hanno sottoscritto il suo appello. Esigiamo con loro che il Senatore Risch sblocchi quel finanziamento senza indugi.”

Il mantenere buoni rapporti con la presidenza degli Stati Uniti (con qualsivoglia presidente) costituisce per Israele (qualsivoglia uomo politico sia alla testa del governo) la migliore ‘assicurazione’ per tutelarsi nei rapporti con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la Corte Criminale Internazionale dell’Aia, e anche nei negoziati in corso con l’Iran, che Israele può sperare di condizionare soltanto a patto di conservare con chi governa a Washington una relazione positiva.

Qual è stato il ruolo del governo USA nella recente guerra Israele-Hamas?  Durante i primissimi giorni del conflitto il presidente Biden ha offerto a Netanyahu un sostegno significativo, vuoi in sede di Consiglio di Sicurezza opponendo per ben due volte il veto a risoluzioni di condanna di Israele per violazione dei diritti umani, vuoi dichiarando a più riprese che Israele “ha il diritto di difendersi qualora subisca attacchi terroristici.” Con l’assumere tali posizioni  Biden si è esposto a pesanti critiche dall’interno del suo stesso partito. Fra i democratici infatti, che dispongono ora della maggioranza in entrambi i rami del Congresso, va acquisendo un peso sempre più rilevante un settore che, in tema di rapporti Israele-Stati Uniti, non è più disposto ad aderire supinamente al tradizionale consenso bipartitico pro-Israele. La pretesa, da parte di una società immobiliare di ebrei ultraortodossi, di allontanare con la forza i residenti palestinesi da alloggi del sobborgo di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, che alcune famiglie ebraiche erano state costrette a lasciare nel 1948, suscita l’indignazione di senatori dello spessore di Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Chris Van Hollen e Chris Murphy. Nella seconda metà di maggio, diversi parlamentari autorevoli si rivolgono a Biden per invitarlo a congelare la fornitura a Israele di nuove armi, criticandolo tutte le volte in cui non assume, in conversazioni telefoniche con Netanyahu, un atteggiamento di maggiore fermezza.

Netanyahu, per parte sua, orbato del protettore Trump,  lungi dall’esprimere a Biden gratitudine per il sostegno offerto all’inizio del conflitto, e dall’aderire ai suoi pressanti inviti alla moderazione, fa ricorso  con ostentazione per vari giorni alla maniera brutale contro Hamas e contro la stessa popolazione civile di Gaza, sino a porre Biden in palese imbarazzo   − com’era accaduto un decennio prima con il suo predecessore Barack Obama −  e a spingere i rapporti israelo-americani molto vicino a un punto di rottura.

Ma a partire dal 2 giugno lo scenario politico regionale presenta all’improvviso connotati nuovi. In Israele, grazie all’iniziativa  di Yair Lapid (il pragmatico leader del partito di centro Yesh Atid) e di Naftali Bennett (leader di Yamina, il partito dell’estrema destra nazional-religiosa dei coloni),   sette partiti  con orientamenti molto difformi  − nazionalisti, centristi e progressisti −  affiancati da  un minipartito arabo-israeliano di ispirazione islamista (la Lista Araba Unita, Ra’am, guidata da Mansour Abbas)  − un’assoluta ‘prima volta’ nella storia travagliata del Vicino Oriente −  hanno dato vita a una coalizione di unità nazionale con il precipuo scopo di detronizzare Benjamin Netanyahu, lo storico ‘re’ di Israele. Il voto con cui la Knesset dovrebbe concedere la fiducia al nuovo esecutivo è previsto per il 13 giugno. Prima di quel giorno, però, tutto potrebbe ancora succedere: le trappole che Netanyahu, e con lui il Likud e i vari partiti religiosi ultra-ortodossi, potrebbero tendere alla fragile maggioranza che sta per disarcionarli e spingerli finalmente all’opposizione, sono davvero infinite come le vie del Signore. Se supererà indenne la prova del voto di fiducia, questo bizzarro ‘governo a otto’ dovrà comunque tenere testa alla quotidiana ostilità del Likud, ricompattare un sistema politico che quattro successivi turni elettorali andati a vuoto hanno profondamente dilaniato  e voltare pagina per cercare di restituire alle istituzioni democratiche del Paese una dignitosa credibilità.

I quesiti scomodi in attesa di risposta saranno in tale circostanza davvero numerosi. Quanto a lungo una coalizione così eterogenea riuscirà a conservare la compattezza necessaria per reggere le redini del governo in un Paese in cui il ‘monarca’ Netanyahu ha favorito con spregiudicatezza per dodici anni ogni sorta di conflittualità: tra ebrei e palestinesi, tra ebrei e musulmani, tra destra e sinistra, tra religiosi e laici, tra ‘patrioti’ e ‘traditori’? Poiché Lapid e Bennett prevedono una premiership a rotazione biennale – riservando a Bennett la presidenza del Consiglio nel primo biennio, mentre a Lapid viene affidato il ministero degli Esteri  −,  quale reazione è lecito attendersi da parte della minoranza arabo-israeliana della Lista islamista Ra’am di fronte alle intenzioni che Bennett ha espresso in termini tanto netti: “quello con Lapid non sarà un governo di sinistra, non faremo ritiri e non consegneremo territori”? E a dispetto dei dinieghi del ‘falco’ Bennett, riusciranno gli otto partiti coalizzati a spingersi tanto avanti sino a proporre qualche sostanziale miglioramento  nei rapporti con i palestinesi? Quale settore della complessa galassia palestinese trova la sua espressione nella Lista Ra’am, che con i suoi quattro voti assicura al governo una maggioranza risicatissima alla Knesset?  Dopo i notevoli guasti operati da Donald Trump, questo inedito ‘governo del cambiamento’ si renderà conto di quanto è urgente l’impegno di normalizzare i rapporti con la Casa Bianca, nonché con la comunità ebraica nordamericana?

Per rendere meno ‘febbricitante’ e più pacato il rapporto con Washington, Bennett – un uomo di governo che si presenta sulla scena per la prima volta, e che negli USA nessuno conosce −  e il suo ministro degli Esteri dovranno evitare di ostacolare − come era solito fare Netanyahu in maniera ossessiva −  la ripresa delle trattative sul contenimento del nucleare iraniano: trattative che Barack Obama aveva a suo tempo portato a termine con successo e che Donald Trump si era affrettato a cancellare. Si preoccuperanno di sicuro, questi nuovi governanti, di ammorbidire i rapporti con  il partito democratico USA, presso il quale negli ultimi anni è andato montando, e non soltanto tra gli esponenti dell’ala progressista, un sordo malumore per la politica aggressiva ed espansiva  di Israele.  Dovranno infine, Bennett e Lapid,  cercare di ricostruire legami più solidi e positivi con la comunità ebraica d’oltre Atlantico, le cui preferenze elettorali vanno appunto al partito democratico: un compito reso ora più agevole grazie al fatto che dalla coalizione governativa sono finalmente esclusi i haredim, gli ultra-ortodossi. In virtù di tale esclusione Bennett, che pure è a capo di un partito di coloni religiosi, si sentirà libero di affrontare con minore intransigenza alcuni temi che investono la vita personale degli ebrei osservanti (il matrimonio, il divorzio, la conversione all’ebraismo): temi sui quali gli ultra-ortodossi israeliani hanno storicamente esercitato una pesante influenza, con esiti legislativi considerati ostici dalla diaspora d’oltre Atlantico in quanto hanno riproposto come cogente erga omnes la legislazione d’ispirazione ortodossa  messa in vigore nello Stato ebraico dai haredim. A tal riguardo, qualora  si rivelasse più malleabile dei governi che l’hanno preceduto, il governo Bennett-Lapid si farebbe apprezzare in particolare  dai Conservative e Reform, che nella grande comunità  degli ebrei USA sono largamente maggioritari.

Se è vero, in ogni caso,  che il nuovo esecutivo dovrà in primo luogo misurarsi con il tema dei rapporti con la striscia di Gaza e del conflitto in corso da qualche tempo tra ebrei e arabi nelle città israeliane con popolazione mista, non sfugge a nessuno che, proprio in questi giorni,  in Israele alcune forze politiche chiaramente di destra stanno accettando, senza particolari  pudori, di dare vita a un governo di unità nazionale assieme a un partito arabo-israeliano di ispirazione islamista. Non costituisce  ciò, di per sé, una premessa per possibili insperate relazioni più civili e umane tra ebrei e arabi in Israele e, chissà, persino tra israeliani e palestinesi nella Cisgiordania e a Gaza? In una prospettiva di tal genere,  il cammino che gli uni e gli altri dovranno compiere è comunque ancora lunghissimo. Ed è un cammino che dovrà fare i conti non soltanto con le faglie che lacerano in profondità il mondo  israeliano, ma anche con le varie contrastanti anime che da decenni creano tensioni e rivalità feroci all’interno della stessa galassia palestinese.

Nel corso degli scontri interetnici che nello scorso maggio hanno avuto come epicentro  Gerusalemme est, in particolare a Sheikh Jarrah e alla moschea Al-Aqsa, la partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme (che sono il 40 per cento circa della popolazione totale della città) è stata largamente meno rilevante di quella di dimostranti arabo-israeliani residenti in  località diverse, del nord e del centro d’Israele. Degna di nota è stata la massiccia presenza di attivisti arabo-israeliani giovani, appartenenti a una generazione nuova:  una gioventù che non aveva partecipato all’ultima intifada, nel settembre del 2000, una gioventù non necessariamente riconducibile a questo o a quel partito, persone che soltanto ora iniziano a prendere parte con vigore alla vita politica. Negli ultimi giorni del Ramadan, giunti a Gerusalemme a bordo di dozzine di autobus, questi attivisti di varia provenienza hanno affrontato la polizia di Israele a viso aperto, avviando un primo significativo cambiamento nelle relazioni tradizionalmente non facili fra i palestinesi di Gerusalemme – che il governo di Israele considera ‘residenti permanenti’  ma non ‘cittadini’ −  e gli arabi con cittadinanza israeliana che vivono in altre località. Verso questi ultimi, infatti, in passato i gerosolimitani solevano esprimere un sordo risentimento accusandoli di godere, proprio grazie alla cittadinanza israeliana, di un relativo benessere, e di avere perciò dimenticato le sofferenze che i fratelli di Gerusalemme erano costretti a patire a causa della perdurante occupazione degli israeliani. “Noi, giovani arabi cittadini d’Israele,” ha dichiarato una ragazza di 22 anni di Baka al-Garbiyeh, nel nord di Israele,  “prendiamo viva parte alle proteste perché [noi palestinesi] siamo un solo popolo, una sola nazione, dalla Galilea al Negev.” Già un paio di mesi prima delle recenti cruente vicende,  tre gruppi di giovani politicizzati della città arabo-israeliana di Um al-Fahm, non lontana da Haifa, avevano dato vita al United Fahmawi Movement per organizzare dimostrazioni contro la polizia, sia a Um al-Fahm sia a Gerusalemme.  Perfettamente attrezzati nel diffondere attraverso i social network informazioni circa il loro movimento,  hanno lanciato su Twitter l’evocativo hashtag PLM, Palestinian Lives Matter quando hanno appreso che nella spianata delle Moschee stava scorrendo abbondante sangue palestinese.

Le vicende dello scorso maggio sono  sfociate, com’è noto,  in diffusi episodi di violenza locale tra arabi ed ebrei in varie città israeliane a popolazione mista, con incendi e devastazioni di sinagoghe e di moschee che hanno fatto temere lo scoppio di una vera e propria guerra civile. Ma infine l’attenzione dei media è andata  ovviamente concentrandosi sullo scambio smisurato di  missili e bombardamenti tra Hamas e Netanyahu, e sulle centinaia di morti innocenti che quel breve conflitto ha provocato. Hamas e Netanyahu: sono stati questi due gli interlocutori indiscussi di un’escalation scriteriata, convinti entrambi di disporre di un’ottima opportunità per capitalizzare consenso politico. Da questa partita, come s’è visto il 13 giugno, Netanyahu è uscito decisamente sconfitto. Ma sul versante opposto, è proprio sicuro che il movimento islamista che, finanziato dal Qatar e in parte dall’Iran,  fa  di Gaza la propria roccaforte, sia riuscito a intestarsi la leadership della resistenza palestinese e a scrollarsi di dosso le accuse  di inconcludenza politica e governativa del suo regime inequivocabilmente autoritario?

Da poco meno di un secolo israeliani e palestinesi vivono all’ombra della grande storia, gli uni accanto-insieme-contro gli altri. In un recente articolo su France Inter Pierre Haski rileva con acutezza che la storia può esercitare un peso schiacciante soprattutto quando, veicolando insopportabili memorie traumatiche, si caratterizza come una storia non condivisa. E riflettendo su israeliani e palestinesi, l’opinionista francese si domanda se sia mai possibile che essi superino  il conflitto in cui sono tragicamente coinvolti senza prima riconoscere gli uni i traumi e le cicatrici degli altri.

Affronta questo tema con osservazioni illuminanti Aluf Benn, redattore-capo del quotidiano israeliano Haaretz, che l’1 maggio 2021   − poco prima, dunque,  che Israele e Palestina siano sconvolti dalle recenti violenze – pubblica un articolo intitolato “Gli  ebrei israeliani dovrebbero smettere di temere la Nakba.” Ricorda, questo brillante giornalista, che dopo la guerra del 1948, in Israele è a lungo circolata come un mantra la tesi secondo la quale il problema dei rifugiati palestinesi sarebbe nato da un appello dell’Alto Comitato Arabo di Vigilanza che avrebbe ingiunto agli abitanti dei territori palestinesi l’evacuazione delle case e delle città. Gli storici dell’epoca non trovarono alcun documento che convalidasse  quella  tesi. Ma quantunque, fin dal 1959, lo studioso palestinese Walid Khalidi avesse rivelato che il racconto dell’ordinanza emessa dall’Alto Comitato Arabo di Vigilanza era una bufala fatta circolare da un propagandista americano sostenitore della destra sionista,  echi di quella fake news riemergono ancor oggi in occasionali dibattiti circa  le responsabilità morali dell’esodo dei palestinesi. Nel panorama molto vivace della giovane storiografia israeliana, inattesi indizi circa  le vicende che portarono alla nascita di Israele e alla contemporanea diaspora dei palestinesi emersero dal libro (1988) del capofila dei ‘nuovi storici’ Benny Morris, Esilio: Israele e l’esodo palestinese, 1947-1949. A Morris, sottolinea Benn, va riconosciuto in particolare il merito di avere posto al centro di quelle vicende la decisione politica, che gli israeliani presero mentre la guerra era ancora in corso,  di rendere sin da allora impossibile il ritorno dei rifugiati e di confiscare il loro territorio a tutto vantaggio delle città e dei villaggi ebraici. Alla radice dell’interminabile conflitto tra Israele e Palestina sta proprio quella decisione, che ancor’oggi è operativa. Sul versante israeliano essa ha dato luogo a un ventaglio di leggi  − a quella sulla Proprietà Assenteista, a quella sull’Acquisizione della Terra, nonché alle leggi che istituiscono il Fondo Nazionale Ebraico e l’Autorità per la Terra di Israele –  mentre sul versante palestinese essa ha prodotto la Nakba, l’espulsione, la spogliazione, la confisca, l’oppressione e l’insopprimibile speranza dei palestinesi di recuperare  il diritto al ritorno. Se non ci si tuffa risolutamente nella storia del 1948, rammenta Benn, non si comprende nulla delle relazioni attuali tra ebrei e arabi in Israele, né si comprende nel suo complesso il conflitto israelo-palestinese e i vari velleitari  tentativi di risolverlo, e persino la bizzarra inclusione di un partito arabo nella attuale coalizione di governo. ‘La nascita del problema dei rifugiati’, afferma  in conclusione Benn, è un tema ‘scolastico’ che in Israele ogni istituto secondario superiore e ogni scuola  per allievi ufficiali dovrebbe proporre ai propri studenti.  Sta di fatto, però, che la stessa la parola  “Nakba” suona ripugnante al cuore del mainstream israeliano, tant’è che di Nakba e di rifugiati palestinesi non si fa cenno né nei corsi liceali di storia né in alcun museo di storia.

Per trovare informazioni utili sull’argomento è consigliabile approcciare l’app ‘Nakba’ dell’organizzazione non governativa Zochrot, fondata nel 2001 da Eitan Bronstein Aparicio. Nato in Argentina 60 anni fa ed emigrato in Israele con la famiglia all’età di 5 anni, Bronstein Aparicio è cresciuto nel Kibbutz Bahan nell’Israele centrale. “Da Claudio, come mi chiamavo, il mio nome è diventato Eitan:  porto la rivoluzione sionista dentro di me”, dichiara con tranquillità. Eitan parla di sé come di un “israeliano normale” che ha fatto il servizio militare, alla pari di chiunque altro. Al termine di  un percorso personale che definisce la “decolonizzazione della mia identità sionista”, è pervenuto a creare Zochrot (in ebraico “ricordare”): una ong che, mediante un articolato programma di studi storici alternativi, destinato alle classi terminali delle scuole superiori d’Israele,  si propone di suscitare e diffondere fra gli israeliani la consapevolezza della Nakba e del diritto dei palestinesi al ritorno. Molto noti nella cerchia degli attivisti di sinistra,  Bronstein Aparicio  e la sua compagna Eléonore Merza, di 40 anni, hanno scritto a quattro mani un libro proprio sulla Nakba.  Eléonore è una cultrice di antropologia politica. Nata in Francia da madre ebrea e da padre circasso, anno dopo anno ha trovato la vita in Israele sempre meno accettabile sotto il profilo ideologico, politico e professionale. E pur avendo ottenuto la residenza permanente, nel dicembre 2019 ha deciso assieme a Eitan e ai figlioli di trasferirsi a Bruxelles, dove le è stato offerto un lavoro particolarmente interessante.  

Nelle intenzioni di questa coppia, il trasferimento in Europa è da considerarsi definitivo. Da parte mia esprimo l’auspicio che Eitan ed Eléonore ci ripensino: il Vicino Oriente ha un bisogno enorme di persone come loro.

Bruno Segre

Luciano Belli Paci :

“Ringrazio molto Bruno per le sue pregevoli e stimolanti riflessioni.

Solo su un punto non mi ritrovo.

Il discorso sulla Nakba, a mio modesto parere, è molto più articolato di come emerge dall’articolo.

E’ verissimo che si tratta di una storia non condivisa e che nella narrazione dominante israeliana e filo-israeliana sono prevalse versioni di comodo e rimozioni del problema (mi ricorda molto il modo in cui noi italiani abbiamo considerato per decenni la questione sud-tirolese).

Non mi pare però che sia neppure corretto generalizzare considerando l’esodo palestinese come conseguenza pressoché esclusiva di espulsioni forzate.

Quasi tutte le guerre provocano fughe di una parte della popolazione dalle zone in cui divampa il conflitto e nella sanguinosissima guerra di indipendenza del 1948 – simile per molti aspetti ad una guerra civile – è del tutto verosimile che l’esodo sia stato in gran parte di questa natura.  Benny Morris, largamente citato anche nel pezzo di Bruno, spiega bene che l’espulsione violenta riguardò solo un certo numero di villaggi in alcuni scacchieri, in genere dove gli israeliani temevano di non poter tenere le posizioni se avessero lasciato sacche di arabi ostili alle spalle.  Lo stesso Morris “rimprovera” Ben Gurion e la dirigenza israeliana dell’epoca per non avere voluto realizzare una pulizia etnica su larga scala, che secondo lui avrebbe prevenuto molti problemi per la vita futura dello Stato.

Ma soprattutto non mi pare che si possa sostenere che “alla radice dell’interminabile conflitto tra Israele e Palestina sta proprio quella decisione” (cioè l’espulsione, la spogliazione, la confisca, l’oppressione e l’insopprimibile speranza dei palestinesi di recuperare il diritto al ritorno).

Nello stesso periodo storico in cui si verificò la Naqba (anni 1945 – 1955) vi furono colossali fenomeni per molti versi affini: spostamenti di confini, nascita di stati, spostamenti di popolazioni, masse di profughi.  Circa 12 milioni di tedeschi dopo la disfatta della Germania si spostarono da est a ovest; circa 15 milioni di musulmani e di indù dopo l’indipendenza indiana abbandonarono le proprie case per rifugiarsi i primi in Pakistan e i secondi in India; 300.000 italiani fuggirono dall’Istria e dalla Dalmazia; alcune centinaia di migliaia di ebrei dell’est Europa sopravvissuti allo sterminio non poterono rientrare nelle loro case (vedi pogrom di Kielce) e si ricostruirono una vita altrove; 900.000 ebrei dei paesi Arabi fuggirono andando in Israele e in altri stati,  ecc. ecc.

Di tutti questi fenomeni si conserva a malapena la memoria storica, ma i profughi di allora non costituiscono più un problema politico e umano perché sono stati totalmente riassorbiti.  Quei profughi e i loro discendenti conservano spesso, come i palestinesi, le chiavi delle case che dovettero abbandonare, ricordi dolorosi, nostalgie, usanze ed elementi identitari.  Ma nessuno coltiva più velleità di “ritorno”.

Perché questo unicum palestinese ?

Perché la Naqba non è per nulla la causa, ma è l’effetto del conflitto ed è stata perpetuata insieme ad esso e in funzione di esso.

È l’effetto prima della guerra scatenata dagli arabi nel 1948 – senza la quale quelle povere persone sarebbero rimaste pacificamente nelle loro case –  e poi di una politica araba che, anziché riassorbire i profughi di quella guerra, ha voluto a tutti i costi perpetuarne la dolorosa condizione.  Quella ferita non solo non doveva in alcun modo cicatrizzarsi, ma doveva proprio rimanere infetta e purulenta, facendo di quegli eterni profughi l’emblema del “crimine” e dello “scandalo” della nascita di Israele, nonché una bomba sempre innescata per produrne un giorno la distruzione.

È giusto e doveroso ricordare la Naqba, un dolore senza fine inflitto al popolo palestinese.

Ma è altrettanto giusto e doveroso ricordare le responsabilità di quel dolore infinito. E distribuirle equamente.

Luciano Belli Paci

Gabriele Eschenazi : “Non fa una grinza. Come sempre non possiamo dimenticare come per il conflitto arabo-palestinese-israeliano si faccia spesso ricorso a parametri «speciali» cuciti addosso a Israele e slegati da precedenti storici.

Gabriele Eschenazi

Non dobbiamo cadere in questa trappola anche se uscire dal mito dell’idealismo sionista è dal punto di vista dell’onestà intellettuale necessario (Benny Morris, però, ormai non ha più nulla da dire). Nessuno, non per caso, ricorda mai l’esodo forzato degli ebrei dei paesi arabi (arrivati anche in Italia), espropriati di tutto e accolti in Israele insieme ai sopravvissuti della Shoà. Ci sono poi gli etiopi e i russi. Israele, terra di rifugio per il popolo ebraico discriminato e perseguitato, non è uno slogan, ma una realtà tangibile. C’è poi un aspetto che mi preme sottolineare come fece una volta Enrico Deaglio dopo una visita in Israele. Deaglio, grande e serissimo giornalista, disse di fronte a me e colleghi del Diario della settimana (cito a memoria): «Vedo Israele e tutto quello di meraviglioso che hanno costruito e prodotto e mi domando. Come potrebbero mai «restituire» e lasciare tutto questo? Hanno portato sviluppo e progresso in una terra desolata e arretrata». Di fatto ignorare questa grande capacità dello stato ebraico di costruire dal nulla in poco tempo agricoltura avanzata, industria, università, centri di ricerca, cultura, musica, sport non può essere cancellata a fronte del dramma dei profughi rifiutati da ogni paese arabo. Persino sotto l’odioso Bibi gli scienziati italiani non hanno fatto in questi mesi che indicare Israele come un esempio da seguire. Per non parlare del mio tema e cioè la dieta a base vegetale che in Israele trova ogni giorno nuove proposte. Non cadiamo nell’errore di farci trascinare a discutere di Israele sempre e solo guardando al problema palestinese. Non lasciamo alla destra ebraica il monopolio delle «buone notizie» su Israele.

Gabriele Eschenazi

Bruno Piperno Beer : Sono d’accordo con quanto scritto da Luciano.

Bruno Piperno Beer

Ho letto recentemente il libro “The war of return” di Adi Schwartz e Einat Wilf (Libro disponibile di amazon) che chiarisce molti aspetti del problema dei profughi palestinesi.

Riesaminando alcuni episodi storici, il libro ribadisce il concetto che i profughi in fuga da situazioni di guerra sono stati accolti dalle popolazioni che erano disposti ad accoglierli.

Mai si è verificata la situazione in cui i profughi sono rientrati in un paese con il quale esistevano situazioni conflittuali.

Questo vale, tra gli altri, per gli episodi citati da Luciano. E questa è una regola che deve valere anche per i profughi palestinesi.

È necessario inoltre riflettere sul ruolo negativo svolta dall’UNRWA (United Nation Relief and Work Agency) che nominalmente è un’emanazione delle Nazioni Unite e come tale dovrebbe favorire il reinserimento dei profughi in terre di accoglienza.  Invece si è trasformata negli anni in un’agenzia gestita da gruppi palestinesi che ha come fine quello di perpetuare il problema dei profughi anziché risolverlo.

Al contrario dell’UNRWA, è da evidenziare il comportamento  della UNKRA (United Nation Korean Reconstruction Agency), un’agenzia dell’ONU nata negli anni ’50 del secolo scorso per risolvere il problema dei 500.000 profughi della guerra di Corea. Tale Agenzia ha concluso con successo la sua missione di reinserimento dei profughi nel 1958 dopo 3 anni dalla conclusione della guerra tra le due Coree.

Bruno Piperno Beer

Bruno Segre : Caro Luciano e caro Gabriele,

vi sono molto grato per l’attenzione che avete dedicato a questo mio articolo e per le puntuali osservazioni che avete ritenuto necessario formulare: osservazioni di natura storiografica, a mio parere assolutamente corrette e condivisibili.

In realtà, quando mi sono messo a scrivere quelle note non mi proponevo  di ‘rifare la storia’ per l’ennesima volta, ma piuttosto di prendere le mosse dall’osservazione del presente  − per molti versi caotico, osceno, insopportabile  −  e tentare di immaginare esiti futuri dotati di un minimo di senso.

Personalmente continuo a essere convinto (a illudermi/pensare/sperare/desiderare, anche se nell’articolo non vi faccio esplicito cenno) che affinché il  conflitto in corso tra il Giordano e il Mediterraneo trovi una sensata conclusione  −  l’unica soluzione capace di rendere comprensibile al resto dell’umanità il progetto sionista −  ci vogliono due Stati per due popoli. Due Stati significa uno Stato per gli ebrei e un Stato per i palestinesi. Perché quella soluzione si realizzi, manca drammaticamente all’appello lo Stato per i palestinesi.

Tale constatazione mi ha indotto a scrivere quelle note cercando di non dare a esse la solita curvatura israelocentrica che ritrovo in tutto, o quasi, ciò che ho scritto in passato su questi temi. Ho tentato, insomma, di evitare le strettoie di un discorso ‘parrocchiale’ e di adottare per quanto più potevo ottiche ‘altre’. Con questo approccio ho cercato, fra l’altro,  di individuare in alcuni aspetti della partecipazione palestinese ‘dal basso’ ai tragici eventi dello scorso maggio qualche timido segnale di‘ risveglio’. Ritengo, infatti, che se mai riuscirà a nascere, lo Stato dei palestinesi dovranno farselo con le loro lacrime, il loro sudore, il loro sangue gli stessi palestinesi. Con un ritardo di poco meno di un secolo,  insomma, dovranno compiere un cammino molto simile a quello battuto dai sionisti quando fecero nascere lo Stato d’Israele.

Ancora vi ringrazio e vi abbraccio con grande amicizia.

Bruno  

Luciano Belli Paci : Carissimo Bruno,

concordo in pieno con questo tuo messaggio.

Il sionismo come modello da seguire per i palestinesi mi pare perfetto.

Anche quello palestinese è un popolo che è stato costretto ad inventarsi (come gli ebrei furono costretti a re-inventarsi) come soggetto nazionale sotto i colpi di un destino avverso e per il venire meno di tutte le alternative possibili.

Speriamo che trovino finalmente il loro Ben Gurion J

Un abbraccio.

Luciano

by

“Sogno una pace che cambi le coscienze”

David Grossman

Mentre israeliani e palestinesi tornano a scontrarsi il grande scrittore auspica un cambiamento “come in 67 anni non ho mai conosciuto”

Quando mi è stato proposto di scrivere qualcosa sul tema “metamorfosi” ho pensato a un cambiamento straordinario descritto nella Bibbia, nel libro di Isaia, che dovrebbe avvenire in futuro, alla fine dei tempi, e prevede un mutamento profondo della coscienza e del comportamento di tutti gli esseri umani.
Dio — profetizza Isaia — giudicherà i popoli ed essi «trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non impareranno più la guerra».

Questa è sostanzialmente la descrizione di un “disarmo” globale, universale, durante il quale gli esseri umani trasformeranno le armi in attrezzi agricoli per lavorare la terra, renderla fertile e produttiva. Isaia profetizza che i vari popoli «non impareranno più la guerra». Ovvero, non solo non si combatteranno a vicenda ma saranno talmente determinati a sradicare i conflitti dalla coscienza umana che cesseranno di insegnare e di imparare la “dottrina bellica”.

Isaia, figlio di Amoz, visse a Gerusalemme circa tremila anni fa, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Noi, nel XXI secolo d.C., dovremmo quindi già trovarci nel futuro utopico da lui profetizzato, goderne i frutti e apprezzare l’esistenza pacifica e priva di violenza che ci aveva promesso. Inutile dire che siamo lontani da questa auspicata prospettiva non meno di quanto non lo fosse lui stesso a suo tempo.

Ma scendiamo dalle vette liriche di questa profezia alla prosaica realtà delle nostre esistenze: scrivo queste righe durante un nuovo round di combattimenti particolarmente violenti tra Israele e Hamas, l’organizzazione che controlla la Striscia di Gaza. In questo momento sento suonare l’allarme e missili lanciati da Hamas cadono a poca distanza da me. Al tempo stesso la Striscia di Gaza è sotto un massiccio attacco israeliano. È ancora difficile stabilire chi abbia veramente causato questa esplosione di violenza e di morte ma potremmo pronosticare, sulla base dell’esperienza passata, che presto sarà raggiunto un cessate il fuoco e la situazione si calmerà per qualche mese, o per qualche anno. Entrambe le parti seppelliranno i loro morti, ricostruiranno le case e le città distrutte e torneranno a rifornirsi di armi e munizioni. Nessuno sforzo serio sarà fatto per risolvere veramente e alla radice il problema delle relazioni tra Israele e la Striscia di Gaza e, con ogni probabilità, le cose rimarranno invariate fino al prossimo scontro armato.

Israele si trova in uno stato di guerra da più di un secolo, principalmente con il popolo palestinese, e ormai da cinquantaquattro anni questo popolo è sotto la sua dominazione. Apparentemente non c’è alcuna soluzione a questa situazione distorta e nessuno ne sta cercando una. Da più di un secolo i membri di entrambi i popoli si svegliano ogni mattina con l’annuncio dell’ennesimo omicidio o atto di distruzione, di vendetta o di odio avvenuto durante la notte. «Colui che ride», ha scritto Bertolt Brecht, «probabilmente non ha ancora ricevuto la terribile notizia». Com’è vera questa affermazione per noi israeliani e palestinesi.

Io ho 67 anni e in tutta la mia vita non ho conosciuto un solo giorno di pace. Di pace vera, radicata nei cuori, che cambi la coscienza. Sì, gli accordi firmati da Israele con l’Egitto e la Giordania (e ultimamente con gli Emirati Arabi Uniti) sono importantissimi ma, in fin dei conti, sono stati stipulati tra governi, tra leader, e non si traducono in una pace vera e “naturale” tra popoli. Non creano una situazione in cui le lance si trasformino in falci. I cittadini di questo conflitto non hanno nemmeno mai conosciuto un tipo di pace che esaudisca desideri molto più modesti, che consenta loro di non pensare affatto alla pace ma di abbandonarvisi in maniera semplice e naturale. Una pace che permetta loro di fare respiri profondi, a pieni polmoni, senza avvertire in fondo a ogni respiro una punta di paura, di dolore, di lutto.

Nella realtà delle nostre vite la paura è sempre in agguato. Abbiamo sempre una spada che pende sopra la nostra testa. E anche se di tanto in tanto affiorano momenti di tranquillità e di calma, questi vengono percepiti come una pericolosa illusione, una cospirazione tramata nell’oscurità. Quindi, se allentassimo anche di poco la vigilanza, la tensione, se ci mostrassimo distratti, se concedessimo fiducia ai nostri vicini-nemici, questa illusione potrebbe esplodere all’improvviso e, come al solito, ci ritroveremmo nella realtà della guerra.

Ecco una piccola storia vera: nel 1977 il presidente egiziano Anwar Sadat annunciò di essere pronto a venire in Israele per firmare il trattato di pace con lo stato ebraico, il più grande nemico dell’Egitto. Israele fu travolto da un’enorme ondata di emozione ma il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito avvertì che Sadat stava forse architettando una trappola e, approfittando dell’euforia che regnava in Israele, si accingeva a sferrare un attacco a sorpresa come aveva fatto nella guerra dello Yom Kippur. Questo era ciò che pensava seriamente il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, e non ho dubbi che molti israeliani condividessero i suoi timori.
«Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, e non impareranno più la guerra». Questa frase racchiude un’aspirazione grande e autentica ma anche una certa dose di ingenuità. Un’ingenuità che io però invidio, come invidio il coraggio di esprimere con voce chiara e forte un auspicio tanto ardito, una possibilità tanto anelata.

Un popolo che ha vissuto per innumerevoli anni in uno stato di guerra è condannato a definire se stesso e la situazione in cui si trova in termini bellici, violenti, di sopravvivenza. Un popolo simile, che non conosce una realtà che non sia stata plasmata dalla guerra, farà fatica a credere che esiste la possibilità che non ci siano conflitti. Nell’anno 2000, a Camp David, si tennero colloqui di pace tra israeliani e palestinesi nel tentativo di raggiungere un accordo. I colloqui fallirono. La diffidenza reciproca fu più forte della volontà di pace e innescò una brutale spirale di violenze. A quel tempo, nei giorni della seconda Intifada, molti israeliani si sentirono ingannati, traditi, e non solo dai palestinesi. Vedevano se stessi come traditori, avevano l’impressione di aver tradito la loro impietosa ed eloquente esperienza storica, accumulata nel corso di generazioni, di guerre, di sofferenze. Un’esperienza che avrebbe dovuto metterli in guardia dal non lasciarsi tentare da “illusioni di pace”.

E invece era successo, si erano lasciati “tentare”, avevano tradito il loro istinto guerriero di eterni sopravvissuti, l’amara convinzione che noi ebrei siamo un popolo condannato a vivere e a morire con la spada in mano, per l’eternità. È possibile che israeliani e palestinesi abbiano mai una vita diversa, sicura e pacifica nella loro terra? Che possano godere di rapporti di buon vicinato? Potrà mai avvenire dentro di noi l’agognato cambiamento, la metamorfosi vaticinata dal profeta Isaia?

Come ho già accennato di recente sono stati firmati accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e tra Israele e Marocco. Questi sono sviluppi importantissimi e positivi. Ma, in fin dei conti, questi accordi hanno sancito una pace tra ricchi mentre quella più vitale, tra israeliani e palestinesi, non è stata ancora firmata. Una pace tra popoli che cambi la coscienza, l’esistenza, la percezione del futuro e l’approccio alla vita, in tutti i suoi substrati. Una pace che al giorno d’oggi non ha molti sostenitori e quasi nemmeno “agenti” che la promuovano. Gli agenti presenti nella nostra regione fomentano infatti più che altro il sospetto, la violenza e la disperazione. Il profeta Isaia visse in un’epoca di guerre tra i regni di Giuda, di Egitto e di Assiria. Se oggi resuscitasse rimarrebbe sicuramente sbalordito nel vedere che i guerrieri sono cambiati ma la guerra c’è sempre. L’auspicata trasformazione da lui pronosticata non è ancora avvenuta.

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Così possiamo trovare la strada del vivere insieme

David Grossman

Migliaia di israeliani, ebrei e arabi, riuniti a Tel Aviv, hanno lanciato un appello alla pace che chiuda il conflitto israelo-palestinese e alla convivenza dentro al Paese. Pubblichiamo il discorso pronunciato sabato sera 22 Maggio 2021 dallo scrittore

Permettetemi di dedicare le mie parole ai bambini che vivono in Israele nelle zone in prossimità di Gaza e ai bambini di Gaza e a tutti i bambini che hanno vissuto sulla pelle e nell’anima l’ultima guerra. La smania di ognuna delle parti in guerra di «incidere nelle coscienze» la sua vittoria ha creato migliaia di piccole sconfitte. Un’intera generazione di bambini, a Gaza e a Ashkelon, presumibilmente crescerà e vivrà con il trauma dei missilidei bombardamenti e delle sirene. A voi bambini, sulle cui coscienze questo conflitto ha inciso davvero, io sento il bisogno di chiedere scusa, perché non siamo stati capaci di creare per voi la realtà migliore e più sana a cui ogni bambino di questo mondo ha diritto. L’ultima guerra ha dimostrato una volta di più fino a che punto le due parti, Israele e Hamas, sono bloccate, prigioniere del letale circolo vizioso da loro stesse creato. Fino a che punto agiscono ormai da decenni come un meccanismo automatico capace solo di ripetere le stesse azioni, ancora e ancora, con forza sempre crescente. Un’altra pioggia di razzi e un altro bombardamento, e poi pioggia di razzi. E di nuovo lo stesso noto ritmo martellante, sempre più incalzante, che si autoalimenta e offusca la capacità di giudizio.

Poi arriva il momento in cui è evidente che la guerra si è esaurita, e tutti lo sanno, in Israele e a Gaza, ma non sono in grado di smettere, non è possibile smettere, come se la forza fosse diventata il fine stesso invece che il mezzo. Questo gigantesco stantuffo continua a colpire senza sosta, a Be’er Sheva e a Gaza. E può continuare per l’eternità — il meccanismo non è dotato di dispositivo di autospegnimento — a meno che Joe Biden non agiti un dito, e di colpo ci svegliamo dall’incantesimo ipnotico della distruzione, ci guardiamo intorno e chiediamo: cos’è successo qui? Cos’è successo di nuovo? E perché sentiamo che gli elementi più estremisti nel conflitto ci hanno manipolati un’altra volta? Com’è possibile che dopo l’inferno che hanno vissuto milioni di persone, a Gaza e in Israele, ci ritroviamo di fatto vicinissimi al punto di partenza?

E più di tutto chiedo, com’è possibile che Israele, il mio Paese, uno Stato che dimostra forze immense quando si tratta di creatività, di inventiva e di audacia, trascini da ormai più di un secolo le macine di pietra di questo conflitto e non sia in grado di trasformare la sua enorme forza militare in una leva che modifichi la realtà, che ci liberi dalla maledizione delle guerre periodiche? Che ci apra un’altra strada?

È vero, fare la guerra è più facile che fare la pace. Nella realtà in cui viviamo, la guerra si tratta solo di continuarla, mentre la pace costringe a processi psichici difficili ed elaborati, processi che popoli abituati quasi solo a combattere vivono come una minaccia. Noi israeliani ci rifiutiamo ancora di capire che è finito il tempo in cui la nostra forza può determinare una realtà comoda solo per noi, per le nostre necessità e per i nostri interessi. L’ultima guerra ci farà entrare finalmente in testa che da un certo punto in poi la nostra potenza militare non è quasi più rilevante? Che per quanto grande e pesante sia la spada che brandiamo, in fin dei conti qualunque spada è un’arma a doppio taglio?

Questa guerra è finita, ora la domanda bruciante è cosa succederà all’interno di Israele, ai rapporti tra arabi ed ebrei. Quanto è accaduto per le strade delle città israeliane è terribile. Non ha giustificazione. Il linciaggio di persone solo perché sono ebree o arabe rappresenta il livello più infimo di odio e crudeltà. Le vittime sono state uccise, la loro umanità negata. Gli assassini si sono trasformati, in quei momenti, in bestie.

Ma adesso — quando gli spiriti si sono raffreddati e lo Stato di diritto comincia finalmente ad assicurare i criminali alla giustizia — si può parlare di quanto è accaduto, cercare di capire cosa è venuto a galla dalle due parti, e delle radici di quanto è accaduto. Perché è dalla possibilità di comprendere che dipende il futuro di noi tutti, ebrei e arabi. Israele potrebbe trovarsi a breve ad affrontare le quinte elezioni. Gli eventi del mese di maggio e la virulenza dell’odio esploso fra arabi ed ebrei occuperanno un posto centrale nella campagna elettorale.

È facile indovinare che i politici sfrutteranno le angosce e la diffidenza, il razzismo e la brama di vendetta. Gli istinti più bassi che hanno fatto capolino nella realtà israeliana diventeranno il combustibile della prossima campagna elettorale e i sobillatori avranno vita più facile che mai. Tutti, ritengo, sappiamo chi ci guadagnerà. Tutti sappiamo anche che aspetto avrà la realtà in questo Paese se saranno gli estremisti nazionalisti e i razzisti a stabilire le leggi. Perciò la vera lotta oggi non è tra arabi ed ebrei, ma fra quanti — dalle due parti — anelano a vivere in pace, in una convivenza equa e quanti — dalle due parti — si nutrono, psicologicamente e ideologicamente, di odio e violenza.

Magari riuscissimo a ristabilire e irrobustire le forze sane nelle due società, coloro che fra noi si rifiutano di diventare collaborazionisti della disperazione. Così se anche dovesse scoppiare un’altra ondata micidiale come questa — e io temo che scoppierà ogni qualche anno — potremo resisterle in modo lucido e maturo, come sembra stia accadendo già in questi giorni, con un’infinità di incontri e dibattiti e iniziative straordinari. Come dimostriamo noi, che ci ritroviamo qui alla manifestazione, con la nostra risolutezza, con il nostro attaccamento all’idea di pace e uguaglianza, con la cooperazione equa fra i due popoli, e con il nostro «nonostante tutto», la fonte di speranza più grande in questi giorni bui, speranza grazie alla quale rimane possibile ritrovare la strada quasi perduta, la strada tortuosa e ardua per vivere qui insieme, in completa uguaglianza e in pace, arabi, ebrei, esseri umani.

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