Blog – Full Width

by

Opinioni : In my name

Stefano Jesurum

In my name (secondo uno dei più profondi insegnamenti dell’ebraismo, ovvero quello della – per me sacra – responsabilità individuale) considero la lettera dell’ormai noto gruppo di giovani ebree e ebrei italiani ( NotInOurNames) innanzittutto una sciocchezza, oltre che un grave errore politico, inopportuna, controproducente, offensiva.

In my name giudico tempi e contenuti della pubblicazione un oggettivo appoggio sia all’antisemitismo mascherato da accusa alle scelte politiche dello Stato di Israele sia una mano tesa a quella parte delle nostre Comunità da anni obnubilate da un acritico osanna a qualsiasi mossa di Gerusalemme.

In my name penso sia una colpevole miopia mischiare fatti e storie che andrebbero invece tenute ben separate se non si vuole regalare una buona carta a chi, sono certo, i firmatari vogliono opporsi. Gli sfratti a Sheikh Jarrah e l’insensata e provocatoria repressione della polizia sulla Spianata delle Moschee pochissimo o nulla c’entrano con gli oltre tremila criminali missili lanciati finora da Hamas e Jihad – fosse solo ché un simile spaventoso arsenale non si prepara e posiziona in pochi giorni.In my name supplico questi giovani di lavorare all’interno della sinistra – a cui palesemente si rifanno – e alle loro Comunità per combattere l’ignoranza e i pregiudizi imperanti e portatori di antisemitismo e islamofobia.

In my name chiedo ancora una volta ai vertici comunitari e ai nostri rabbanìm di fermare le ondate di odio che dalle nostre fila aggrediscono troppo spesso correligionari che non si adeguano al mainstream: un miscuglio, che a me fa paura e orrore, di metodologia squadrista, ignobili insulti legati a dati personali privatissimi, segnali di plebea invidia sociale – tutti ingredienti tipici di identikit intolleranti e illiberali, insomma per nulla democratici.

In my name agisco e prego affinché il maggior numero di noi si convinca che lontano da noi si stanno confrontando da decenni due torti e due ragioni, opposti ma che se non verranno risolti pacificamente porteranno sempre e soltanto morte e dolore, sofferenza e ingiustizie.

In my name affermo con convinzione: è vero, a volte gli ebrei sono (siamo) esasperanti, demenzialmente litigiosi, ottusamente sordi. Però ricordo che Rashì, nel suo commento all’incarico che Mosè fa al suo successore Giosuè, scrive che egli gli disse: «Sappi che loro [il popolo che stai per condurre] sono importuni e contenziosi». Ma gli disse anche: «Tu sei fortunato perché avrai il privilegio di condurre il popolo di Dio in persona». In my name. Un ebreo orgogliosamente di sinistra, sionista, che ama Israele e odia qualunque ingiustizia e sopraffazione.

20 Maggio 2021

by

DOPO LA TREGUA: LE QUESTIONI APERTE DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

Parla con Gariwo Nadav Tamir, l’ex consigliere personale di Shimon Peres

Nadav Tamir, diplomatico israeliano, è il direttore esecutivo di J-Street in Israele: J-Street è un’organizzazione ebraico-americana che lavora per promuovere la politica estera americana pro-Israele e pro-pace. Nadav Tamir è anche serior advisor per gli affari governativi e internazionali al Peres Center for Peace and Innovation, ex consigliere personale di Shimon Peres per gli affari diplomatici, membro del comitato direttivo dell’Iniziativa di Ginevra e del think-tank Mitvim. Ha lavorato all’ambasciata di Israele a Washington e come console generale nel New England. In questa intervista sul conflitto israelo-palestinese, ci parla delle realtà esistenti di collaborazione tra arabi ed ebrei, del ruolo della comunità internazionale, e dell’estremismo e della leadership moderata sia in Israele che in Palestina.

Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto un disperato appello di pace da Neve Shalom, un villaggio in Israele dove arabi palestinesi ed ebrei israeliani vivono insieme, praticando la non violenza e la coesistenza pacifica. Può dirci di più sulle realtà esistenti di collaborazione tra ebrei e arabi?

Ci sono tanti progetti di collaborazione tra ebrei e arabi: secondo me questo è l’unico motivo per cui essere ottimisti nel mezzo di questo disastro. La maggior parte della gente vuole vivere in pace, anche se gli estremisti ricevono sempre molta più attenzione. Oggi molte di queste realtà di collaborazione sono ben collegate attraverso i social media, e c’è persino un gruppo Whatsapp con tutte le diverse iniziative che riuniscono arabi ed ebrei. Una delle più interessanti è Women Wage Peace, un’organizzazione guidata da donne, sia arabe che ebree, sia di destra che di sinistra, sia religiose che laiche, che sono unite nella richiesta di un accordo non violento reciprocamente vincolante tra israeliani e palestinesi, e che credono anche che le donne debbano essere più coinvolte nel processo decisionale, un punto di vista che condivido. Ma ci sono tante altre reti professionali e politiche diverse, di diversa provenienza: medici, comuni, ONG e organizzazioni no-profit, artisti: c’è di tutto.

Molti di questi gruppi hanno manifestato molto in questi giorni, chiedendo la cessazione delle violenze. Pensa che queste istanze possano trovare un spazio in politica?

Sì, penso di sì. Uno dei motivi per cui Netanyahu non è riuscito ad ottenere la maggioranza nelle ultime elezioni è stato a causa delle proteste civili, enormi in Israele negli ultimi due anni. La gente vi ha preso parte per motivi diversi. Per me, si trattava soprattutto del conflitto israelo-palestinese; per altri, della corruzione o dell’erosione della democrazia. In generale, comunque, quelle proteste hanno dato voce a un’insoddisfazione diffusa tra gli israeliani riguardo alla politica attuale. Tutto questo ha colpito anche la destra israeliana. New Hope – il recente partito di centro-destra fondato da Gideon Sa’ar – è nato proprio da una grande insoddisfazione per la politica di Netanyahu da parte di persone che credono che si possa essere di destra senza essere populisti, senza mettere se stessi prima del paese, e senza essere corrotti.

Dove sono ora queste voci critiche?

Quando il popolo israeliano è sotto attacco, molti si attaccano alla bandiera e scivolano in un sostegno poco critico del governo, prendendo sul personale ogni critica alle nostre politiche. Per questo stesso motivo mi capita di discutere anche all’interno della mia famiglia: è come se la gente non riuscisse a distinguere tra le politiche del governo e lo stato di Israele. La mettono in questi termini: o sei per Hamas, o sei per Israele. Ma non è questo il punto: per me, Hamas è un’organizzazione terroristica, ma questo non esime Israele dalle sue responsabilità per non aver creato un vero processo di pace e aver fatto uno sforzo reale, anche all’interno di Israele, per trattare con rispetto e uguaglianza gli arabi israeliani. Spero davvero che, ora che è stata concordata una tregua, il popolo israeliano sia più aperto a riflettere sugli errori e sulla mancanza di strategia che ci hanno portato a questa situazione.

In un recente articolo, lei ha detto che la “Legge sullo stato-nazione” – che il governo di Netanyahu ha approvato nel 2018 – ha inviato un chiaro messaggio agli arabi israeliani definendoli cittadini di seconda classe. Potrebbe dirci qualcosa di più su questa legge? Perché Israele ce l’ha e da dove viene?

Prima di tutto, è fondamentale chiarire che Israele non ha una costituzione scritta. Quando Ben Gurion dichiarò l’indipendenza di Israele, pensò che fare i conti con questioni giudiziarie sarebbe stato troppo complicato e avrebbe rappresentato una minaccia esistenziale per Israele. Così, decise di adottare il modello britannico, caratterizzato dall’assenza di una costituzione. Ma la Gran Bretagna e Israele sono molto diversi. La Gran Bretagna ha una lunga tradizione democratica di precedenti che assicurano la protezione e la salvaguardia dei diritti umani, e questo non è il caso di Israele. Nel nostro paese, molti vedono la Dichiarazione d’Indipendenza come una Costituzione. Credono, per esempio, nel principio della Dichiarazione secondo cui Israele è una patria sia per il popolo ebraico che per i suoi cittadini di altre confessioni religiose, un paese basato sulla libertà, la giustizia e la pace, in cui la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici è assicurata a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di religione, razza o sesso. Ma altre persone non considerano questi principi come valori fondanti in Israele, e questo è all’origine di un eterno conflitto tra la sinistra e la destra. Molte persone di destra dicono che la nostra corte suprema è troppo universale, troppo liberale, e si lamentano perché manca un carattere distintamente ebraico nelle leggi dello Stato. Per me, queste obiezioni non hanno senso: come ebreo, credo che la democrazia sia di per sé un valore ebraico perché è l’ebraismo che ha portato nel mondo l’idea che siamo tutti uguali. Eppure, la destra israeliana ha alla fine approvato una legge che dà al carattere ebraico dello Stato uno statuto prevalente sul valore liberale della democrazia, promuovendo così ineguaglianza e discriminazione. Questa legge, per esempio, sancisce l’ebraico come lingua ufficiale di Israele, declassando l’arabo – la lingua parlata dagli arabi israeliani – a uno “status speciale”. Ci sono persone nel centro e a sinistra che vogliono aggiungere uguaglianza a questa legge in modo che gli arabi, anch’essi cittadini d’Israele, non siano trattati in modo diverso degli ebrei. Per me, tutto questo è ancora più sorprendente perché noi stessi siamo stati una minoranza in altri paesi. A causa di ciò che abbiamo sofferto, dovremmo essere un modello sul trattamento delle minoranze. L’idea stessa di avere un nostro Stato è stata pensata come un modo per riparare a ciò che abbiamo sofferto. 

Oggi potremmo sostenere che Hamas è il vero vincitore di questa guerra, perché, come lei ha scritto, Hamas ha riempito un vuoto creato dal governo israeliano e dall’Autorità Palestinese, presentandosi ora come il vero difensore degli arabi, in Israele come in Palestina.

Sì, assolutamente: Hamas vincerà questa guerra, al di là di quante persone verranno uccise, perché ha dimostrato ai palestinesi in Cisgiordania e ai palestinesi in Israele che è Hamas a prendersi cura degli arabi e dei musulmani. Gli altri vincitori di questa guerra saranno gli israeliani, come Netanyahu e i suoi sostenitori, che si rifiutano di raggiungere un accordo e un compromesso con i palestinesi. Ogni vittoria di Hamas è anche una vittoria anche per loro. I palestinesi moderati, invece, saranno i più colpiti. Anche se hanno le loro colpe, penso che l’unica via d’uscita da questo conflitto sia il rafforzamento dei palestinesi moderati, che non credono nel terrorismo o nella violenza come mezzo per realizzare gli interessi dei palestinesi. Con la sua politica, Israele li sta rendendo sempre più deboli.

In che modo, in particolare, pensa che Netanyahu sia responsabile di aver rafforzato Hamas?

Rifiutandosi di trattare diplomaticamente la questione palestinese e manipolando la paura e i traumi degli ebrei. Mantenere Gaza e la Cisgiordania separate, permettere al denaro del Qatar di sostenere Hamas e, allo stesso tempo, rispondere solo militarmente ai loro attacchi senza alcuna strategia: tutto questo mantiene Hamas in vita non solo fisicamente ma concettualmente. Questo conflitto ne è stato il miglior esempio. Avevamo quasi raggiunto una coalizione di cambiamento che potesse rimuovere Netanyahu dal suo ruolo, ma questa violenza ha provocato molta pressione sui membri di questa coalizione. Nella politica israeliana, la violenza gioca sempre a favore di Netanyahu, che alimenta la paura e fa leva sui traumi che il popolo ebraico ha subito nella storia. È per questo che Netanyahu rende l’Iran molto più grande di quello che è; è per questo che rende il movimento BDS molto più grande di quello che è; è per questo che rende l’antisemitismo molto più grande di quello che è. Per Netanyahu, la paura è l’unico strumento per restare al potere: ma i fondatori di Israele volevano ispirarci con la speranza, un principio che Netanyahu continua a trascurare.

E l’amministrazione americana? Il conflitto israelo-palestinese non era esattamente in cima all’agenda di Biden. Lui ha espresso il suo sostegno a Netanyahu, ma i democratici sono sempre più divisi su questo tema. Cosa pensa che possano fare gli Stati Uniti?

Biden è un amico di Israele. Eppure, nei suoi anni da vicepresidente durante il mandato di Obama ha capito che il conflitto israelo-palestinese è una questione radioattiva nella politica americana. Biden non voleva entrare troppo presto in questa questione: preferiva occuparsi prima di cose che sapeva già come gestire. Sperava che in Israele e il Palestina le cose rimanessero relativamente quiete per un po’, dato il caos politico in cui si trovavano entrambi i paesi. Biden ha bisogno di tempo per invertire alcune delle cose più dannose fatte da Trump. Ma il conflitto israelo-palestinese non è qualcosa che si può trascurare, in un modo o nell’altro alla fine bussa alla porta. Adesso Biden sta usando i vecchi argomenti perché non ha ancora elaborato una sua strategia rispetto a questo problema: non ha neanche nominato un ambasciatore per Israele. Ma ora il conflitto è diventato un fattore ineludibile, e c’è pressione perché lui faccia qualcosa. Spero davvero che Biden affronterà questa questione in modo adeguato, nominando qualcuno che se ne occupi se non ha il tempo di farlo lui stesso.

L’anno scorso, l’ex presidente americano Trump ha promosso i cosiddetti accordi di Abramo tra Israele e quattro stati arabi, descrivendoli come “l’alba di un nuovo Medio Oriente”. In realtà, quegli accordi hanno portato a una perdita di interesse, da parte dei paesi arabi vicini a Israele, nel sostenere la Palestina. Questo ha favorito Netanyahu nel suo ignorare la questione palestinese. Secondo lei come hanno agito e come agiranno questi accordi sul conflitto?

L’intenzione iniziale di Trump e Netanyahu non era di firmare gli accordi di Abramo, ma di promuovere l’annessione di parti significative della Cisgiordania a Israele. Quando hanno saputo che gli arabi non avrebbero mai accettato questo piano, Trump e Netanyahu hanno deciso di ripiegare sul piano B, giocando sugli interessi economici degli arabi e proponendo così gli accordi di Abramo. Penso, comunque, che il processo di normalizzazione potrà aiutare i palestinesi nel lungo periodo. Ma questo è possibile solo se Biden riesce a includere i palestinesi in questo processo, permettendo loro di beneficiare dei suoi vantaggi. In questo caso, la normalizzazione potrebbe trasformarsi in un potente strumento per porre fine a questo conflitto. Anni fa, Shimon Peres parlava di un “nuovo Medio Oriente” perché credeva che un approccio regionale potesse portare benefici anche ai palestinesi. Ma questo accadrà se i palestinesi saranno inclusi, e non solo scavalcati, nel processo di normalizzazione.

Pensa che Biden revocherà questi accordi, allora? E che farà lo stesso con spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme da parte di Trump?

Non credo che Biden revocherà gli accordi di Abramo, né il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. È abbastanza chiaro che la capitale di Israele è Gerusalemme: il grande errore è stato ignorare l’aspirazione palestinese a una propria capitale. Quello che Trump avrebbe dovuto fare era, sì, spostare l’ambasciata a Gerusalemme, ma dichiarare che voleva anche un’ambasciata a Gerusalemme Est, nella capitale palestinese. Questo potrebbe farlo Biden.

Alcuni ritengono che le azioni di Hamas siano orchestrate dall’Iran. Altri sostengono che Hamas stia agendo autonomamente, con dinamiche interne più che internazionali. Lei cosa ne pensa?

A molte persone piace spiegare le cose come parte di una grande cospirazione. Le cose sono molto più semplici di così. Prima di tutto, Hamas e l’Iran sono molto diversi. L’Iran, per esempio, è un paese sciita guidato da sciiti che vogliono esportare la rivoluzione sciita iraniana in altri paesi, mentre non ci sono sciiti tra i palestinesi. Naturalmente esistono alcuni interessi comuni: sia l’Iran che Hamas vogliono combattere Israele, entrambi sono antiamericani e antioccidentali. Possono anche verificarsi degli eventi sporadici, come il recente drone iraniano al confine con la Giordania, ma credo che gli ultimi eventi siano stati molto più locali e sicuramente non architettati dall’Iran, che ora è occupato con le elezioni e non è interessato alla questione palestinese.

Uno degli aspetti più sorprendenti di questo conflitto è stata l’esplosione di violenza tra ebrei israeliani e arabi israeliani, anche in zone dove la coesistenza era stata pacifica per molto tempo. Quali conseguenze avranno questi scontri in futuro?

Penso che questo debba essere un campanello d’allarme per Israele rispetto a come trattare le sue minoranze arabe. Israele dovrà trattare la sua popolazione araba in modo più serio ed equo, per non lasciare che gli estremisti si impadroniscano della situazione. Ma questo dipende molto dalla futura leadership israeliana. Se Netanyahu e i suoi amici fascisti guideranno il paese, non ci sarà alcun miglioramento, e le cose potranno solo peggiorare.


Parliamo allora di leadership. Secondo lei cosa comporterà questo conflitto nela leadership israeliana?

È molto difficile prevedere il futuro: ci sono molte nuove dinamiche in atto, e le cose sono molto meno lineari di prima. Lo scenario più probabile è che Israele organizzerà le elezioni per la quinta volta e che la frangia estremista e razzista della politica israeliana guadagnerà molto potere, anche grazie al contributo di partiti di destra che prima erano più collaborativi con la sinistra. Tuttavia, spero anche che la sinistra esca più forte da questa crisi: nel centro-sinistra, per esempio, Yahir Lapid ha guadagnato molta saggezza e ha imparato a fare politica. Spero davvero che riesca a formare una coalizione contro Netanyahu e i partiti ultraortodossi.

E la leadership palestinese?

Il cambiamento arriverà, prima o poi. Spero che le forze moderate riescano a formare una leadership congiunta: finchè saranno divise, questo giocherà a favore di Hamas. Inoltre molto dipende da noi, da Israele, dagli Stati Uniti, dall’Europa, dalla comunità internazionale. Se aiuteremo nelle negoziazioni, se aiuteremo a raggiungere un qualche orizzonte di pace, questo rafforzerà i moderati. Se continuiamo a trascurare questo conflitto, non cambierà nulla. Il conflitto israelo-palestinese è come andare in bicicletta: se non si va avanti, si cade. È fondamentale che la comunità internazionale sostenga gli elementi più moderati della politica palestinese e sia d’aiuto: non dico trovando una soluzione a tutto, ma almeno aiutando nelle negoziazioni.

Come recuperare la prospettiva della soluzione dei due stati? Chi saranno i soggetti del cambiamento? Cosa deve fare Israele? In un recente articolo, lei ha scritto che “il governo israeliano deve dar forma a una politica completa per la questione palestinese, incentrata sulla diplomazia strategica con la leadership palestinese dedicata a trovare una soluzione al conflitto e che ci liberi da schemi futili e ripetitivi”. Ci può dire, più nel dettaglio, in cosa consiste questa politica?

Prima di tutto dobbiamo renderci conto che non esistono soluzioni militari a questo conflitto: anche l’esercito più forte del Medio Oriente – il nostro, che sta diventando sempre più forte – non risolverà nulla. I governi israeliani usano troppo spesso le Forze di Difesa Israeliane, ma questa non è la via d’uscita da questo conflitto. Hamas non scomparirà, anche se continuiamo a bombardarli. L’unico modo per sconfiggere Hamas è cominciare a negoziare con i palestinesi moderati – e non solo per il gusto di negoziare e per ottenere una certa legittimità internazionale, ma con delle negoziazioni che cerchino veramente di raggiungere la soluzione dei due stati. La soluzione esiste: abbiamo bisogno di una leadership moderata da entrambe le parti per attuarla. Shimon Peres diceva che, nel conflitto israelo-palestinese, abbiamo la luce e ci serve il tunnel. L’accordo è abbastanza chiaro, ed è scritto negli accordi dell’iniziativa di Ginevra del 2003:

  • tornare ai confini precedenti al 1967
  • avere una capitale palestinese a Gerusalemme Est con accordi speciali nella zona dei luoghi sacri, tramite cui tutte le religioni possano essere rispettate e si possa stabilire una forma di sovranità comune
  • affrontare la crisi dei rifugiati palestinesi
  • avere accordi di sicurezza regionale che coinvolgano altri paesi che vogliono stabilità.

La soluzione è lì, scritta sulla carta. Abbiamo solo bisogno della volontà politica di raggiungerla. E nell’era di Netanyahu, non abbiamo questa volontà politica. La maggioranza della gente sostiene la soluzione dei due stati. Una volta che ci sarà la leadership per andarci, avremo il sostegno del pubblico.

Qual è il ruolo di J-Street in questa fase?

J-Street è stata creata perché molti ebrei liberali e progressisti in America si sentivano poco rappresentati dalle maggiori e più note organizzazioni ebraiche. Da un lato J-Street è nata per accogliere persone pro-Israele e pro-pace. Dall’altro il nostro obiettivo è avere un impatto politico. Siamo un’organizzazione di advocacy e lobbying che cerca di influenzare la politica americana in Medio Oriente con valori di pace e diplomazia. Stiamo cercando di convincere l’amministrazione Biden ad essere più attiva e, nella sezione israeliana, stiamo lavorando per rafforzare la diplomazia israeliana orientata alla pace. J-Street si trova a metà tra la comunità ebraica e il partito democratico. Noi non pensiamo che Israele abbia sempre torto, così come non pensiamo che Israele abbia sempre ragione. Pensiamo che Israele debba imparare dai suoi errori e che l’America debba sostenere la pace e non la violenza. Crediamo che questa sia anche l’intenzione di Biden, ma gli manca lo spazio politico per agire in questo senso. Noi creeremo quello spazio politico.

Vuole mandare un messaggio a chi ci legge?

Il mio messaggio a tutte le persone che leggono questa intervista è: abbandonate lo scaricabarile e cercate un dialogo costruttivo. Abbiamo bisogno di un approccio comune alla soluzione dei problemi, in cui sia gli israeliani che i palestinesi possano unirsi per andare avanti. Per J-Street, questo significa fare pressione sulla politica americana. Per i paesi europei, questo significa rafforzare l’Unione Europea perché possa sostenere e fare pressione su Israele al tempo stesso. Se si fa solamente pressione, Israele si rifugerà – come sempre, purtroppo – nella retorica dell’antisemitismo. Con un incondizionato sostegno, invece Israele vi sarà per scontati. Fare entrambe le cose è la cosa giusta.

21 maggio 2021

by

Il piccolo partigiano ebreo. Storia di Franco Cesana, nome di battaglia Balilla

Era un ragazzino ebreo in fuga dalle persecuzioni razziali. Scelse la lotta armata, imbracciò uno Sten e fu ucciso dai tedeschi sei giorni prima di compiere 13 anni

Brunella Giovara – Repubblica 24 Aprile2021

Polinago (Modena)
Il ragazzo era su questa scala, e aveva uno Sten a tracolla. Aveva anche un grande segreto, e non l’ha mai detto a nessuno. Ma ogni cosa si polverizzò in un attimo e in un bagliore, era la sera del 14 settembre del 1944, una raffica tedesca lo prese in pieno, nel buio, nelle urla degli uomini sorpresi dall’imboscata, disse poi il suo comandante di aver gridato «tutti a terra!», e «appoggiai la mano sulla spalla destra del ragazzo affinché eseguisse più rapidamente il mio ordine. Ma egli si svincolò di scatto, e col suo corpo mi si buttò addosso».

Si chiamava Franco Cesana, nome di battaglia: Balilla. Nato a Mantova il 20 settembre 1931, sei giorni dopo avrebbe quindi compiuto i tredici anni. Il partigiano più piccolo d’Italia, o uno dei più giovani, medaglia di bronzo al valore militare, «adolescente pieno di slancio e di spirito patriottico…», eccetera.

E volendo tornare nel punto esatto in cui tutto questo è successo, si deve salire al gruppo di case di sasso a Picciniera, che è una borgata di Gombola, che è frazione di Polinago, in provincia di Modena. Appennino, sole e freddo, nei boschi il bianco dei ciliegi selvatici appena fioriti. Da un cortile esce Sandra Veratti, con una vecchia chiave in mano. «Mia mamma era presente al fatto. Si chiamava Maria Rosa Bonvicini, era del ’35».

Quella bambina restò scioccata, mentre guardava i partigiani raccogliere il cadavere di Franco, che stesero in questo oratorio della Beata Vergine del rosario. A fatica, Sandra apre il portone. È una pieve minuscola, con la croce arrugginita sul tetto, l’altare è corroso dall’umido, è tutto come nel 1944. Sei banchi, bastavano giusto per gli abitanti del borgo, costruito tra il 1400 e il 1500 dai conti Cesi, che lo usavano come base per le loro cacce. «Non si può entrare, è pericolante», ma lo stesso si vedono i quadri con le sante e le madonne, la volta è dipinta di azzurro. Il posto giusto per tenerci un morto, nel fresco delle pietre. Il ragazzo Cesana, però, era ebreo.

E questo era il segreto che aveva promesso alla madre di non dire mai. Nell’unica lettera rimasta, le scriveva «ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare». E «ti raccomando, appena ricevuta la mia, bruciala», le nuove regole della clandestinità che stava appena imparando. La madre conservò la lettera, la mise in una bottiglia che poi sotterrò nell’orto.

Anni dopo, Ada Basevi raccontò che di quel suo figlio le erano rimaste due cose: «Una penna, e una lampadina», forse intendendo una piccola torcia per vedere al buio, utile alla nuova vita di partigiano, e quindi fuggiasco. Ma fuggiasco era già un suo destino, e bisogna qui ricordare le migliaia di bambini che la guerra scaraventò su e giù per l’Italia, spesso soli. I genitori li allontanavano per salvarli dalla fame e dai bombardamenti delle città, affidandoli a parenti lontani, in campagna e in montagna, purché lontano. Le famiglie sfollavano e si disperdevano, i pochi telefoni non funzionavano. Vite piccole, sconosciute, randagie. Poi, c’erano bambini e ragazzi con l’aggravante razziale, che cercavano di scampare alle deportazioni, e quindi in fuga perpetua, finché non venivano presi e mandati ad Auschwitz.

I Cesana erano di Mantova, poi trasferiti a Bologna, il padre si chiamava Felice, e i tre figli Vittorio, Lelio e il minore Franco. Nell’unica foto, il bambino ha un piccolo sorriso, un cappottino di tweed, i capelli ricci. Di sicuro all’epoca dello scatto era già stato espulso da scuola, perché era ebreo. Forse era già orfano del papà, per cui la madre lo mandò all’orfanotrofio israelitico di Torino, che accoglieva ragazzi in difficoltà. Ci restò fino al 1941, quando la struttura venne chiusa. Dopo, venne mandato a Roma, come ricorda la cugina Ziva Grazia Modiano Fischer, 87 anni, già presidente nazionale dell’Associazione donne ebree d’Italia, scampata alla deportazione perché rifugiata a Tora, in provincia di Caserta, dove nessuno vendette gli ebrei. «Franco stava all’Istituto Pitigliani, di fronte alla sinagoga, poi chiuso nel ’42. I bambini vennero restituiti alle famiglie», chi l’aveva. La bambina Grazia andava a prendere il cugino Franco la domenica, «lo portavo a casa, così faceva finalmente una bella mangiata. Com’era? Un bambino vivace. Una volta venne punito perché aveva giocato a cuscinate con i compagni».

I Cesana tornano a Bologna, ma la caccia all’ebreo funziona già bene, 5mila lire per ogni cattura. Come tanti, sono ebrei erranti che si fermano qua e là, in una frazione di Serramazzoni, nella stalla di Casa Nuvola, poi a Casa Saldino, nel posto più sperduto della frazione Pescarola, a Prignano sulla Secchia. Qui, ci sono i partigiani. Questo è l’arcangelico regno dei partigiani, Fenoglio chiamava così le Langhe, era così anche la libera repubblica di Montefiorino, che in linea d’aria non è lontano da qui, così come lo è Marzabotto.

Un piccolo libro ha ricostruito la vita breve di Balilla (Dalle leggi razziali al sacrificio di Franco Cesana), fatto prima della pandemia dagli studenti di terza media dell’Istituto Francesco Berti di Prignano, aiutati dai prof Ballesi e Ferrari, dall’Anpi e dalla Comunità ebraica. Nato dalla domanda «ma lo sapete che da queste parti è stato ucciso un ragazzino come voi?», i coetanei di oggi hanno ricostruito le divisioni partigiane, le zone dei comunisti, dei Giustizia e libertà, dei democristiani, chi erano i capi, i rastrellamenti. Uno dei comandanti era “Marcello” Catellani, monarchico, ex ufficiale dell’esercito. Nella guerra contro la Francia era stato ferito a un braccio, che poi gli avevano amputato. In cambio, aveva ricevuto la visita di Mussolini, e poco dopo cambiava idee, riferimenti, saliva in montagna e formava una banda.

Lì arrivò il fratello di Franco, Lelio, e dopo un po’ anche Franco: «Fra gli uomini di Marcello vi è un ragazzetto di circa 12 anni. Si era aggregato alle formazioni azzurre dicendo di non avere famiglia», scrisse poi il partigiano “Roberto”. E il comandante: «Data la sua intelligenza e vivacità poteva essere un ottimo portaordini in momenti delicati. A malincuore, ma tanto era stato il suo entusiasmo, avevo aderito che portasse con sé uno Sten» (le testimonianze sono nel libro La storia mai scritta del Comandante Marcello di Terenzio Succi e Franco Adravanti, editore Youcanprint).

«Franco aveva preso una decisione importante: diventare partigiano», dice Barbara Orlandi, che ha partecipato alla ricerca con i suoi compagni di classe. Era così giovane, «ma aveva fatto una scelta. Era anche uno bravo a scuola», che peraltro gli era proibita. E anche quel soprannome: Balilla. Il balilla non lo aveva mai fatto, proibito anche questo in quanto «appartenente alla religione ebraica».

Quindi, immaginatevi il ragazzo che, un giorno di quel settembre, esce di casa per andare a prendere il latte in una cascina vicina, e invece scappa in montagna. Arrivò alla Picciniera «stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’, l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei contenta?», scriveva alla mamma. «Fui assunto, e siccome ho studiato, fui dislocato al comando. Non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima, solo un po’ precario il dormire».

Gli consegnarono lo Sten, possiamo immaginare l’orgoglio. Era felice? Probabilmente sì. Arrivò quel «crepitio di armi automatiche contro il retro della casa», il gesto istintivo di proteggere il suo comandante, che aveva un braccio solo. Faticarono a seppellirlo. Con tanti preti partigiani nella zona, quello di Pescarola rifiutò di metterlo nel cimitero del paese. Poi lo obbligarono, e solo così Franco andò sotto terra.

by

Carlo Cammeo, le sue scelte un atto d’amore per la vita

Il 13 aprile del 1921 veniva ucciso a Pisa l’insegnante Carlo Cammeo. Ebreo, militante socialista, fervente antifascista. 
Il centesimo anniversario dal suo assassinio è stata l’occasione di una solenne cerimonia svoltasi alla presenza, tra gli altri, del sindaco Michele Conti
.

Carlo Cammeo è stato assassinato 100 anni fa nel giardino della scuola dove insegnava, e nonostante sia trascorso un intero secolo il messaggio del suo sacrificio è oggi più che mai attuale e carico di significato.
La sua vita fu improntata ai valori dello studio e sacrificata a quello della libertà, così come testimonia il suo epitaffio: “Per sicaria mano fascista cadeva assassinato il 13 aprile 1921, Carlo Cammeo glorificando con il sangue la santità della scuola e la sua fede nell’idea socialista”.
A sintesi di questo tutt’oggi si possono vedere sulla sua tomba i simboli dei principi che ressero la sua esistenza: un libro aperto, che rappresenta l’amore per lo studio e per la sua professione di maestro, e una falce e martello, a testimonianza della sua fede politica.
Forse, unica testimonianza in Italia di questi simboli, incisi su una pietra tombale.
Pochi sanno che negli anni Trenta la Comunità fu obbligata a cancellare tali simboli perché ritenuti sovversivi, ma nel 1945 la famiglia li fece scolpire nuovamente.
Questo atto porta con sé il messaggio profondo di amore per la vita, per lo studio e per la libertà che oggi viene celebrato insieme alla figura di questo nostro illustre concittadino e correligionario.
Questo assassinio, agli occhi del partito fascista che stava nascendo, rappresentava la giusta “punizione” per chi si era espresso contro la violenza delle camicie nere che, in quella primavera, imperversava in Toscana e in tutta Italia.
Quel fascismo che 17 anni dopo metterà al bando tutti gli ebrei italiani attraverso le infami leggi razziste firmate da re Vittorio Emanuele III proprio a Pisa, nella tenuta di San Rossore.

Maurizio Gabbrielli, presidente Comunità ebraica di Pisa

“Un’ora di dolore per il proletariato pisano”

Il 13 aprile 1921 viene assassinato Carlo Cammeo (1897-1921), segretario provinciale del Partito Socialista e maestro elementare di soli 24 anni, colpevole di aver scritto articoli antifascisti. Quella mattina Mary Rosselli-Nissim e Giulia Lupetti si recano alla scuola dove sta insegnando Cammeo e, con una scusa, lo invitano a uscire dalla classe: nel cortile viene raggiunto da due colpi di pistola, sparati dal fascista Elio Meucci, studente di farmacia. Le due donne non sono figure “anonime”: la Lupetti (per i suoi meriti sarà nominata segretaria del fascio femminile) è figlia del comandante del presidio militare; Mary Rosselli-Nissim è una signora in là con gli anni, erede di una famiglia di sentimenti patriottici, il padre Pellegrino Rossi, di sentimenti mazziniani, e la madre, Janet Nathan, avevano ospitato nella propria casa Giuseppe Mazzini negli ultimi anni della sua vita. I fascisti responsabili della morte di Cammeo, grazie alla complicità delle autorità e all’interessamento del sottosegretario alla giustizia Arnaldo Dello Sbarba, saranno prosciolti dall’accusa di omicidio. In quel periodo, la guerra civile scatenata dai fascisti fu risposta politica e militare alle lotte del “Biennio rosso” (1919-1920). La Toscana nei primi mesi del 1921 fu attraversata da uno scontro violentissimo tra le squadre di fascisti, organizzate dalla direzione fiorentina del movimento, e le forze della sinistra, anarchici, comunisti, socialisti e sindacalisti.

by

Baltico

Di Stefano Jesurum , pubblicato in Moked il ‍‍15/04/2021

Legati al mondo scomparso che gli scrittori yiddish e i fotografi alla Roman Vishniac hanno fatto rivivere e tanto amare, probabilmente non credo si sia sufficientemente razionalizzato, contestualizzato, introiettato un universo certamente meno – poco o per nulla – mistico, religioso, ortodosso, ma non per ciò meno potentemente intriso di ebreitudine. Certo, molti sanno, per dire, che la “scuola di Odessa” ha regalato al mondo alcuni tra i più grandi violinisti di sempre – Heifetz, Milstein, Zimbalist, Elman, Oistrakh e Kogan – oppure, chessò, che Claudio Magris ha riempito pagine indimenticabili descrivendo la simbiotica culla jüdische-mitteleuropea di tanta letteratura. Però è leggendo un libro non recentissimo dell’olandese Jan Brokken che mi si sono aperte finestre finora rimaste chiuse per ignoranza (“Anime baltiche”, traduzione Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, 472 pagine, Iperborea). In realtà l’autore ci guida in uno stupefacente tour attraverso Lettonia, Estonia, Lituania, per le strade e le piazze di Riga, di Vilnius, di Kaliningrad, di Tallinn, nella vita di nuclei familiari, storie nella Storia, tormentate vicissitudini di stati passati dall’indipendenza al dominio russo e poi tedesco per ritornare sotto l’Unione Sovietica, fino alla agognata indipendenza. Ambienti, culture, “sentire”. Anime, appunto, rimaste tali anche nelle fughe oltre confine.
Così Brokken ricostruisce esistenze straordinarie di donne e uomini celebri e di persone comuni attraverso il viaggio in una terra invasa e contesa, dove la violenza del passato è stata combattuta con l’arte, la poesia e la musica. Gidon Kremer e il suo violino, Roman Kacev di Vilnius, per noi Romain Gary, lo scultore Jacques Lipchitz, Hannah Arendt di Kaliningrad, il pittore Mark Rothko (Rothkowitz prima dell’emigrazione), Chaïm Soutine, parecchi altri i cui nomi non sono divenuti famosi. Brevi periodi di fasti, fughe, nascondigli, quartieri rasi al suolo, famiglie cancellate. In gran parte ebrei. Con i loro bambini, la loro privacy, i traumi infantili, le vicende sentimentali, i successi e le sconfitte. Con un legame nascosto ma evidentemente indissolubile con chi era già qui scappato ai pogrom. Si diceva, i mondi scomparsi…

Stefano Jesurum

Jan BROKKEN

Scrittore e viaggiatore olandese, noto per la capacità di raccontare le vite di personaggi fuori dal comune e i grandi protagonisti del mondo letterario e musicale, ha pubblicato numerosi libri che la stampa ha avvicinato a Graham Greene e Bruce Chatwin, come Jungle Rudy, il suo primo successo internazionale. Iperborea ha inoltre pubblicato Nella casa del pianista, sulla vita di Youri Egorov, Il giardino dei cosacchi, sul periodo siberiano di Dostoevskij, il bestseller Anime baltiche, viaggio in un cruciale ma dimenticato pezzo d’Europa, Bagliori a San Pietroburgo, dedicato alla grande città della musica e della poesia russa, e I Giusti, reportage sull’operazione di salvataggio del 1940 che coinvolse più di ottomila ebrei.

by

«Ora un governo d’emergenza senza Netanyahu per far ripartire Israele»

Parla a Reset la neo-leader dei laburisti israeliani Merav Michaeli , intervista di Umberto De Giovannangeli

30 marzo 2021

«Israele non può rimanere ostaggio di una sola persona che concepisce la carica di Primo Ministro come una investitura regale che lo pone al di sopra di tutto e di tutti, perfino della Legge. Lo abbiamo detto in campagna elettorale e lo ribadisco oggi: Benjamin Netanyahu è un pericolo per il nostro sistema democratico. E lo è non in quanto uomo di destra ma per la sua concezione autocratica della democrazia e per la praticata volontà di smantellare le fondamenta di uno stato di diritto». Ad affermarlo, in questa intervista esclusiva concessa a Reset è la leader del Partito laburista israeliano, Merav Michaeli.

Nelle elezioni del 23 marzo scorso, le quarte in due anni, il partito che fu di David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin e Shimon Peres era a rischio estinzione. Grazie ad una campagna elettorale aggressiva e ad una empatia riconosciutale anche dagli avversari, Michaeli è riuscita a riportare il Labor alla Knesset con 7 seggi. E un buon risultato è stato ottenuto anche dall’altra forza della sinistra israeliana, Meretz (6 seggi). «Considero il risultato che abbiamo ottenuto – rimarca la leader laburista – come una base di partenza per un nuovo inizio della sinistra. Dobbiamo andare avanti sulla strada del rinnovamento sapendo che ci vorrà del tempo perché questa semina dia buoni frutti. Al tempo stesso, però, dobbiamo fare i conti con il presente e con la necessità di dare al Paese un governo stabile, in grado di affrontare la grave crisi pandemica non solo portando a termine la campagna di vaccinazione ma affrontando le drammatiche ricadute sociali che questa crisi ha prodotto. Il nome del premier viene dopo. Basta con i personalismi, è una pratica che abbiamo già pagato a caro prezzo».

Coalizioni a geometria politica variabile. Trattative frenetiche per raggiungere i 61 voti necessari per ottenere una maggioranza di governo alla Knesset. Numeri alla mano né il blocco pro-Netanyahu né quello anti-Bibi hanno quei numeri. E c’è già chi paventa il rischio di nuove elezioni, le quinte in poco più di due anni, un record planetario. Israele è condannato ad elezioni permanenti?

I numeri sono molto in politica. Molto ma non tutto. Se ragioniamo in termini classici, quelli di una divisione destra/sinistra, dovremmo, noi di sinistra, metterci il cuore in pace e dire agli altri: fate voi, vediamo di cosa siete capaci. Ma questo non è fare politica, al più è una mera testimonianza di chi non intende sporcarsi le mani.

Il che significa stringere anche un patto col “diavolo” pur di liberarsi da Benjamin Netanyahu. Anche se quel “diavolo” risponde al nome di Naftali Bennett, il leader di Yamina?

In questa storia, per usare la sua metafora, non vi sono né angeli né demoni. Ma c’è un pericolo superiore a tutti gli altri, questo sì. E questo pericolo si chiama Benjamin Netanyahu. Israele non può rimanere ostaggio di una persona che ha identificato i destini di un Paese con i suoi personali. Un politico che pur di ottenere l’immunità di fronte alla Legge ha promesso mari e monti pur di restare al potere e che non ha esitato neanche un secondo a far cadere il governo di cui era Primo Ministro quando non gli è stata garantita una legge che lo mettesse al riparo dai processi in cui è imputato. Netanyahu ha costretto gli israeliani ad andare al voto in piena pandemia, senza che la Knesset avesse approvato la legge di bilancio necessaria per dare risposte immediate alle drammatiche conseguenze sociali ed economiche determinate dal Covid-19. So bene che in tempi normali un fronte progressista e di sinistra dovrebbe porsi in alternativa alle destre. Dobbiamo ricostruire le condizioni perché questa dialettica democratica possa svolgersi, ma oggi siamo in piena emergenza. Una emergenza democratica, non solo sanitaria. E a determinarla è stato il capo del Likud. Ma il voto ha detto che gli israeliani non l’hanno incoronato re. Netanyahu non è il monarca assoluto d’Israele, anche se lui pensa e agisce come se lo fosse. Voleva conquistare la maggioranza assoluta con i suoi partiti-vassalli, ma non gli è riuscito. Ora le sta provando di tutte. E se non gli riuscirà, è pronto a nuove elezioni. Il suo cinismo non conosce limiti.

La politica non è solo questione di numeri, ma i numeri determinano maggioranze e minoranze. Pur di porre fine all’era Netanyahu fin dove è disposta a spingersi?

Questi sono giorni di trattative e non è ancora tempo di tirare le somme. Di certo, non ci siederemo a discutere con gli eredi di Meir Kahane, il partito del sionismo religioso (6 seggi, ndr). La loro presenza nel Parlamento è una macchia per Israele. Certo, una democrazia deve rispettare il voto popolare, ma il fatto che della Knesset facciano parte personaggi dichiaratamente razzisti, omofobi, che considerano eroi assassini come Yigal Amir (il giovane zelota che uccise il premier laburista Yitzhak Rabin, ndr), questo, lo ribadisco, è un campanello d’allarme che non va sottovalutato. Quanto al resto, in campagna elettorale leader di destra come Bennett, Lieberman (Israel Beitenu, 6 seggi, ndr) e Sa’ar (Tikvà Hadashà, 6 seggi, ndr) si erano espressi, pur con diverse modulazioni, per un governo post-Netanyahu. Noi siamo rimasti dello stesso avviso anche a urne chiuse: coerenza vorrebbe che si ripartisse da questo punto.

I dirigenti del Meretz hanno fatto un endorsement pubblico a favore di Yair Lapid (leader del partito laico centrista Yesh Atid, secondo con i suoi 17 seggi dietro al Likud di Netanyahu con 30) come premier incaricato. Lei non si è pronunciata. Vuole tenersi le mani libere?

Niente di tutto questo. Indicare subito il premier di una coalizione tutta da costruire vuol dire partire con il piede sbagliato. È una storia già vista nelle precedenti elezioni. E non ha portato bene al fronte anti-Netanyahu e, soprattutto, a colui che era stato indicato come premier in pectore (Benny Gantz, leader di Kahol Lavan, che dai 35 seggi delle passate elezioni è tracollato a 8, ndr). Da parte nostra non c’è alcuna preclusione verso Lapid né consideriamo ininfluente il fatto che il suo partito sia il secondo più votato, e che Lapid ha rotto l’alleanza con Gantz quando quest’ultimo scelse di andare al governo con Netanyahu. I tavoli sono aperti, vediamo chi è d’accordo su un programma essenziale, fatto di pochi punti, su cui costruire una maggioranza di governo. E solo dopo indichiamo la persona più adatta a guidare l’esecutivo. A me pare un percorso corretto, lineare, privo di scorciatoie.

Su questioni non secondarie, come la colonizzazione della Cisgiordania, le posizioni di Bennett non sono certo più moderate di quelle di Netanyahu, anzi. Come la mettiamo?

La mettiamo che con Bennett è possibile discutere su come riportare Israele ad essere un Paese normale dove destra e sinistra si sfidano apertamente accettando però un perimetro comune: quello dello stato di diritto. Un perimetro fatto di regole condivise, del rispetto degli altri poteri, a cominciare da quello giudiziario. Un perimetro che Netanyahu ha violato, trasformando le quattro elezioni anticipate in un referendum su se stesso, denunciando inesistenti complotti contro di lui, invocando l’investitura popolare come un salvacondotto per non essere giudicato in un aula di tribunale. Quello a cui penso è un governo di emergenza democratica, nazionale, che duri il tempo necessario per uscire dall’emergenza sanitaria e per dare risposta alle decine di migliaia di famiglie, di lavoratrici e lavoratori, che la pandemia virale ha messo in ginocchio. Affrontiamo questa emergenza e poi ristabiliremo le distanze…

Lei è riuscita a non far scomparire il Labor dalla geografia parlamentare israeliana. Resta il fatto che sommando i seggi del suo partito, quelli del Meretz (6) e quelli della Joint List araba (6), le forze di sinistra raggiungono i 19 seggi. Se a questi sommiamo quelli di formazioni centriste come Kahol Lavan (8) e Yash Aitid (17) arriviamo a 44. Non calcoliamo nel fronte opposto i 4 seggi della Lista araba unita che si è scissa dalla Joint List. Il dato politico che ne esce è però inquietante: 72 dei 120 seggi sono di partiti di destra.

Vede, la cosa peggiore non è sentirsi minoranza ma è agire come se non lo fossi puntando sempre e comunque a stare al governo. Parlo per il mio partito, non intendo impartire lezioni a nessuno. La prima cosa che ho fatto dopo aver vinto le primarie è stata quella di chiedere ai due ministri laburisti che facevano parte del governo Netanyahu, di scegliere tra restare ministri e rimanere nel partito. Tenere i piedi in due staffe avrebbe intaccato ciò che restava della nostra credibilità. Hanno scelto di chiamarsi fuori dal partito, una scelta che ho rispettato e che ha fatto chiarezza. Il Labor è stato ininterrottamente, praticamente da solo, al governo di Israele dalla fondazione dello Stato nel 1948 al 1977, quando per la prima volta a vincere fu il Likud di Menachem Begin. Sappiamo l’importanza di guidare una nazione, lo abbiamo fatto in momenti cruciali per l’esistenza stessa d’Israele. Ma stare all’opposizione non è una condanna a morte. La condanna a morte è quando il sistema democratico è minato dall’interno.

Lei ha conquistato molti consensi tra le donne, promettendo una “rivoluzione rosa”. Manterrà questo impegno?

Assolutamente sì. Perché una democrazia si può dire davvero compiuta quando la parità di genere non è più una conquista ma una premessa. Nell’ultimo decennio le disuguaglianze sociali sono aumentate e le donne ne sono state le principali vittime. Pezzi di welfare sono stati smantellati da politiche iper liberiste che hanno allargato la faglia sociale, in settori cruciali come la sanità, l’istruzione, le opportunità per le giovani coppie, il sostegno alle madri single e agli anziani. La violenza domestica è aumentata e tante donne si sono ritrovate senza protezione. Una situazione intollerabile oltre che profondamente ingiusta.

Per ultimo, una confessione personale: c’è stato un momento in cui ha pensato di non farcela e di essere ricordata negli annali di storia come il primo leader del glorioso Labor estromesso dalla Knesset?

No, neanche nei peggiori incubi. Ma è stata dura, questo sì. Ed ora dobbiamo rimboccarci le maniche perché c’è tanto lavoro da fare. Ma la sinistra c’è, esiste, anche oltre i voti presi. E questo è un bene per Israele.

    Etiam magna arcu, ullamcorper ut pulvinar et, ornare sit amet ligula. Aliquam vitae bibendum lorem. Cras id dui lectus. Pellentesque nec felis tristique urna lacinia sollicitudin ac ac ex. Maecenas mattis faucibus condimentum. Curabitur imperdiet felis at est posuere bibendum. Sed quis nulla tellus.

    ADDRESS

    63739 street lorem ipsum City, Country

    PHONE

    +12 (0) 345 678 9

    EMAIL

    info@company.com