Una coalizione che in Europa sarebbe considerata neonazista è appena riuscita ad entrare nelle knesset, il parlamento israeliano. Non c’è altro modo per descrivere l’alleanza tra i partiti di estrema destra HaTzionut HaDatit (Sionismo religioso), Otzma yehudit (Potere ebraico) e Noam. Xenofobia, omofobia e nazionalismo, uniti a fondamentalismo religioso e violenza: come definirla altrimenti? Nessun paese dell’Europa occidentale avrebbe avuto il coraggio di formare un governo con un partito simile. In Europa questo fascismo sarebbe inaccetabile. In Israele sta per entrare a far parte del prossimo governo.
Ma non è questa la notizia peggiore della notte elettorale del 23 marzo. Il vero problema è che la destra, come al solito ha trionfato. Tutti parlano del risultato del Likud, il partito di Benjamin Netanyahu, ma la vera vincitrice è la destra israeliana. Ancora una volta ha stracciato tutti: più di settanta deputati della prossima legislatura saranno orgogliosi rappresentanti della sua la dura e spietata. Una maggioranza più salda di qualunque possibile coalizione.
Il fatto che qualcuno anche a destra disprezzi Netanyahu non lorende meno di destra. Prima e dopo l’attuale ministro, queste persone rappresentano un Israele violento, arrogante e isolato che ignora il resto del mondo. Anche nel campo contrapposto ci sono persone di destra che si fingono centriste, ma anche escludendole dal conteggio la maggior parte del parlamento è schierato da quella parte. Tra la confusione e i calcoli sui blocchi che potevano essere contro o a favore di Netanyahu si è perso di vista il fatto che Israele si è dimostrato ancora una volta un paese di destra. L’ingressodi Sionismo religioso e degli altri partiti della lista in parlamento e l’identità dei suoi memebri stanno causando un polverone nel campodegli sconfitti, ma è un atteggiamento falso e ipocrita. E’ un bene che l’opposizione si stia svegliando, ma come al solito lo fa troppo tardi. Certo, pensare a persone come Itamat Ben-Gvir,leader di Potere ebraico, eOrit Strock, del partito sionista Casa ebraica,all’interno della Knesset è terrificante. Ma è facile attribuire solo a loro quello che molti altri, considerati molto meno sgradevoli, in realtà pensano,dicono e fanno.
Ben-Gvir dice cose che molti israeliani pensano, anche se non hanno votato per lui. Il governo e l’esercito stanno già realizzando molti degli obiettivi del partito più nazionalista della ventiquattresima legislatura. Perciò l’ingresso in parlamento di Sionismo religioso non è necessariamente una cattiva notizia. Perché renderaà evidenti nella loro forma più crudale intenzioni nascoste, e forse risveglierà finlemnte l’opposizione. E’ facile essere inorriditi da un razzista come Ben-Gvir, condannato per istigazione alla violenza, ma lui ha più biosgno di spaventare nessuno. Quello che fa davvero paura è che Israele già da un bel pò di tempo sta mettendo in pratica le sue idee politiche. Perciò è un ipocrita chi inorridisce per la sua elezione ma non ha battuto ciglio quando l’esercito israeliano sparava in testa ai manifestanti disarmati, come è successo il 19 marzo.
Nessuno rimane sconvolto quando ogni settimana i soldati fanno irruzione nelle case dei palestinesi e trascinano via le prsone dal loro letto; quando ogni giorno i coloni usurpano altre terre e aggrediscono i contadini con catene, quad, droni e armi e nessuno li incrimina; né quando Israele tiene due milioni e mezzo di persone nella prigione di Gaza in condizioni orribili.
Ora i sostenitori di tutte queste atrocià saranno in parlamento. E’ un bene che l’aula possa scoltare quel che hanno da dire, e che ilmondo possa sentire. Non è da queste lezioni che hanno ottenuto legittimità: gli è stata data tempo fa da una maggioranza di israeliani che li approva tacitamente. Sarà alquanto spiacevole sentir discutere in paralamento di “trasferimenti” (cioè della cacciata dalle loro case) dei palestinesi, ma è questo che lo stato fa già nella valle del Giordano, a Silwan e nel sud delle colline di Hebron.
E’ un bene che la lettera ebraica tet, la prma della parola “trasferimenti” e simbolo del partito Sionismo religioso, prenda posto nella knesset accanto alla foto del padre del sionismo Theodor Herzl. E’ proprio questo che lo stato da lui immaginato ha fatto fin dal 1948, a volte lontano da sguardi indiscreti.
Gideon Levy
è un giornalista israeliano. Scrive sul quotidiano Haaretz, dove è uscito questo articolo
Sono svariati – non tutti degni di vanto – i motivi per cuida sempre gli amici mi chiamano bonariamente l’orso ebreo, e ben da prima che comparisse il mitico sergente Donny Donowitz di “Inglorious Basterds”. Una delle ragioni di questo simpatico soprannome è l’inveterata tenacia con cui durante un viaggio, lungo o breve che sia, in treno o in aereo, non rivolgo rigorosamente la parola ai casuali vicini di posto, né tanto meno cedo a eventuali loro tentativi di conversazione. Che tuttavia spesso ascolto senza isolarmi nelle cuffie e, anzi, spiando con immensa speranzosa curiosità storie che nella stragrandissima maggioranza delle volte non valgono alcunché. Ed ecco che, bizzarra ironia della sorte, Anna Linda Callow mi regala un libriccino destinato a farmi pentire di un’ormai lunga esistenza così, appunto, orsesca.
Perché “Buon anno!”, quattro racconti brevi di Sholem Aleichem, tradotti e curati per Garzanti dalla suddetta Anna con l’apporto di Franco Bezza e Haim Burstin, ti fa invece accomodare sulla carrozza d’un vecchio treno a vapore che collega alcuni shtetl dell’yiddishland (se ne avete la possibilità, immergetevi nelle parole e nei suoni tenendo sulle ginocchia le meravigliose immagini di “Un mondo scomparso” di Roman Vishniac) e ti rende partecipe delle storie incredibili e folli narrate al suo pubblico ferroviario dal commesso viaggiatore alter ego di Aleichem.
Scrittore di cui – credo – non sia necessario riassumere né la grandezza né la torrenziale vastissima produzione (un titolo per tutti “Tewje il lattaio”).Universi chagalliani e rabbini, personaggi di ogni genere e varietà, riti religiosi, tradizioni familiari, trame tanto fantastiche quanto semplici, reali, sovente ironiche. In questi quattro cammei poi, redatti tra il 1900 e il 1915, protagonisti possono essere perfino una vecchia pendolae una lezione di violino. L’immensa dolcissima nostalgia per un universo irripetibile. Vorrei poi aggiungere che in un breve passaggio de “La pendola” c’è – secondo me –una delle più semplici, profonde raffigurazioni di quel segreto tutto ebraico di concezione del tempo/non tempo che tanto unisce e rinsalda ancor oggi – da sempre – gli ashkenaziti e i sefarditi, i laici e i religiosi, gli osservanti e i poco o nulla credenti… «(su quell’orologio. NdR) quasi mezza città regolava i propri doveri religiosi: la commemorazione della distruzione del Tempio, la sveglia per le preghiere mattutine, il rito del pane del venerdì, la benedizione delle candele, l’accensione del fuoco all’uscita del sabato, la salatura della carne e tante altre cose di questo genere che riguardano la vita ebraica». Insomma quella sorta di appartenenza a un mondo che non c’è più, ma a un popolo che vive.
L’evento si è svolto via Zoom e ha visto la partecipazione di
circa 40 persone collegate da tutta Italia e da Israele.
La serata di approfondimento della politica israeliana era moderata da Gabriele Eschenazi che nella sua introduzione ha dedicato un affettuoso ricordo dei coniugi Rina e Nedo Fiano, scomparsi da poche settimane, che hanno dato tanto all’ebraismo italiano con la loro testimonianza.
Ha quindi introdotto i due relatori: Aldo Baquis, giornalista, e Roberto Della Rocca, esponente del partito Meretz, entrambi collegati da Israele, ed ha posto loro il tema della serata: quali scenari, quali protagonisti, cosa succede a Sinistra in Israele in vista delle prossime elezioni del 23 marzo prossimo.
Aldo Baquis, nel riportare l’atmosfera politica che si
respira in Israele in vista delle elezioni, ha sottolineato come il corona
virus resti il maggior assillo degli israeliani, nonostante la grande campagna
di vaccinazione. Destano preoccupazione le notizie tendenziose sugli effetti
dei vaccini diffuse sulle reti sociali che le Autorità sanitarie cercano di
contrastare. La partita è ancora in bilico malgrado 3,5 milioni di persone già
vaccinate con la prima dose e 2,2 milioni con la seconda dose. Se Netanyahu
sperava di utilizzare la carta della vaccinazione di massa e l’uscita dalla
crisi primi al mondo come argomenti elettorali, sembra un obiettivo non ancora raggiunto
a causa del livello di nuovi contagi ancora elevato, anche per effetto delle
nuove varianti, e la situazione degli ospedali pieni di pazienti anche gravi.
Il governo è impegnato in una battaglia severa ed in particolare il Ministero
della Sanità ha chiesto che l’uscita dal lockdown e la riapertura delle scuole
siano molto prudenti e graduali.
In questo contesto di apprensione e di vigilanza nei
confronti degli sviluppi della pandemia si innesta un’altra questione in
qualche modo legata alle elezioni ed è il comportamento della minoranza araba e
degli ebrei ortodossi. In entrambe queste comunità, che hanno dimensioni
abbastanza rilevanti, il tasso di vaccinazione non è elevato, si notano
infrazioni ed un senso di sospetto verso le autorità. Di conseguenza ci sono
tassi di contagio molto elevati in entrambe le comunità e si rilevano
comportamenti di indisciplina. Questo è un elemento importante per chi andrà a
votare, che ha notato nelle ultime settimane come il governo sia stato
latitante nelle zone ortodosse non applicando le stesse misure restrittive che
gli israeliani laici hanno dovuto osservare, come le scuole chiuse, mentre le
scuole religiose e le sinagoghe restavano aperte. I partiti ortodossi sono
alleati importanti di Netanyahu e quindi si è creato un clima antipatico verso
la minoranza ortodossa che si sente al di fuori della solidarietà nazionale.
Un altro argomento è il futuro delle relazioni con gli Stati
Uniti. Crea qualche apprensione il fatto che Biden non abbia ancora parlato con
Netanyahu. L’ex ministro del Likud Gilad Erdan, senza alcuna esperienza
diplomatica, è stato nominato nuovo ambasciatore sia a Washington sia all’Onu,
fatto inusuale per la diplomazia. C’è il timore che Biden sia più morbido nei
confronti dell’Iran, che si teme possa entro due anni disporre della bomba
atomica, e Netanyahu spinge su Biden per mantenere le sanzioni ed evitare che
recuperi gli accordi di Obama. I programmi nucleari iraniani restano fonte di
grande preoccupazione e le Forze Armate hanno avuto ordine di preparare piani
di contingenza. E’ possibile che il Capo del Mossad Yossi Cohen venga inviato a
Washington a breve per illustrare la situazione alla nuova amministrazione USA.
Inoltre ci sono tensioni al confine con il Libano perché si
sta svolgendo una grande manovra militare israeliana.
La situazione sociale resta tesa con migliaia di disoccupati
a causa della crisi economica dovuta alla pandemia ma il governo uscente non ha
varato la legge finanziaria innescando la rottura dell’alleanza di governo con
il partito Bianco Blu di Ganz. Il Likud nega ma è molto atipico che un ministro
delle finanze non faccia passare la legge finanziaria. Come conseguenza molti
validi funzionari hanno lasciato il ministero.
Parlando delle novità nelle liste dei partiti, sarebbe stato
lecito pensare che dall’esplosione di energia generata dalle continue
manifestazioni in tutto il paese dei dimostranti di sinistra per richiedere le
dimissioni di Netanyahu sarebbe scaturito un forte sbocco per le elezioni di
marzo ma così non è stato. Il tentativo di dar vita ad una forza unita di
quattro liste (Labour, Meretz, con la nuova Lista di Ofer Shelah (ex Yesh Atid)
annunciata a fine dicembre, e quella del sindaco di Tel Aviv Ron Huldai) non è
maturato, con la conseguente rinuncia sia di Shelah che di Huldai.
Restano quindi in lizza il Labour e Meretz, oltre alla Lista
Araba considerata parte della sinistra.
Il partito laburista emerge da una fase molto difficile
perché alle scorse elezioni il leader Amir Perez aveva assicurato che non
sarebbe entrato in un governo guidato da Netanyahu. Invece ha poi deciso di
entrare con un ruolo marginale insieme ad un altro deputato diventato ministro.
Questo pesante voltafaccia ha fatto perdere prestigio al partito laburista e le
nuove primarie di gennaio sono state vinte da Merav Michaeli, un’opinionista
molto presente nei media, TV, internet, social , che rappresenta una
piattaforma progressista e femminista. In realtà la sua linea politica non è
molto dissimile da quella del Meretz e un recente sondaggio dà il Labour in
ascesa a 7 seggi, però a scapito del Meretz , che rischierebbe di restare fuori
dalla Knesset.
A destra c’è un’inflazione di liste di ultradestra, con la
novità di Nuovo Sionismo Religioso (Hazionut Hadatit) nata su pressione di
Netanyahu e guidata dal leader dei coloni Bezalel Shmotrich e da Itamar Ben
Gvir, esponente della scuola di pensiero del rabbino Kahane.
Il Kach del rabbino Kahane – che nel 1990 fu ucciso a New
York in un attentato terroristico – era un movimento eversivo, dai toni esasperati e razzisti. Nel 1994, in seguito alla strage
alla Tomba dei Patriarchi di Hebron compiuto da uno suo affiliato, Baruch
Goldtsein, il Kach fu disciolto in quanto organizzazione terroristica.
Nel 1995 Ben Gvir – allora un militante
molto giovane legato ad ambienti ex-Kach e accesamente ostile agli accordi di
Oslo – partecipò a manifestazioni aggressive di protesta contro il governo
Rabin, arrivando a minacciare il ministro della difesa Benyamin Ben Eliezer. In
seguito, da avvocato, Ben Gvir ha difeso numerosi ultrà ebrei protagonisti in
Cisgiordania di attacchi a danno dei palestinesi. Da allora sostiene di aver mantenuto un rispetto fondamentale
verso la ideologia del rabbino Kahane e anche verso lo stesso Goldstein, ma di
aver elaborato una propria ideologia in forma più pragmatica.
Ha poi completato l’analisi della situazione politica Roberto
Della Rocca che ritiene che ci sia massima incertezza sull’esito delle elezioni
ma è pessimista perché Netanyahu farà sicuramente di tutto per restare al
potere per arrivare al processo come Primo Ministro, e cercherà di convincere ad
entrare in coalizione Bennet, leader del partito nazionalista Yemina a destra
del Likud che i sondaggi danno a 11-12 seggi. In realtà il confronto politico è
una specie di referendum tra i partiti pro o contro Netanyahu, non c’è più
destra o sinistra. La novità è il partito Tikvà Hadashà (Nuova Speranza) creato
due mesi fa per raccogliere i voti di chi è scontento del Likud, trasformato da
Netanyahu in un suo partito personale, da Gideon Saar, ex ministro dell’Educazione
ed avversario interno di Netanyahu.
Questa lista è stimata in 13 seggi, contro i 28 del Likud e i
18 di Yesh Atid, la lista di Yair Lapid, dato secondo anche nei sondaggi con il
28% come più adatto a fare il Primo Ministro, dietro a Netanyahu al 38% e
davanti a Saar sceso all’11%.
La soglia per accedere alla Knesset è 3,25% dei voti validi e
garantisce 4 seggi. Se Meretz non dovesse passare, per effetto del recupero dei
Laburisti, sarebbe la prima volta dalla sua fondazione quasi trent’anni fa.
Anche la Lista Unica Araba, tradizionalmente considerata
parte del centro sinistra perché contro i governi di destra ma in realtà
costituita da quattro partiti con molte differenze, si è spaccata con l’uscita
del partito islamico del sud, di ultradestra nazionalista e contro la modernità.
Si prevede ora che questa lista unica passi da 15 a 9 seggi mentre Netanyahu
corteggia gli arabi religiosi del partito Raam.
Un governo anti Netanyahu potrebbe comprendere anche Meretz
su punti specifici concordati ma è difficile pensare che Meretz possa stare in
una coalizione con Liberman, che rappresenta con Israel Beitenu la destra laica
degli ex-sovietici, e Saar, che si colloca più a destra di Netanyahu sia per la
politica degli insediamenti sia per l’insegnamento della religione nella
scuola. Meretz si trova all’opposizione da 22 anni, l’ultimo governo era stato
quello di Barak. Con i Laburisti, a cui manca un leader forte e onesto, ridotti
a 6-7 seggi, è chiaro che Israele sta andando sempre più a destra, anche per l’effetto
demografico dei religiosi e dei sefarditi che hanno una natalità più alta,
anche degli arabi.
Ad una domanda sulla strategia di medio periodo di Meretz,
identificato come partito della bolla progressista di Tel Aviv, Roberto Della
Rocca ha risposto ricordando che Meretz è il partito che ha il record di leggi
e proposte di legge per difendere le classi sociali più deboli, come la legge
per permettere l’acquisto delle case popolari da parte degli inquilini, ma non
riesce a fare presa nelle cittadine di sviluppo e nelle zone al di fuori di Tel
Aviv per un linguaggio non adatto.
Meretz si presenta alle elezioni con la conferma due
candidati arabi, di cui una donna, per avvicinarsi alla popolazione araba
israeliana che, secondo Aldo Baquis, dovrebbe essere maggiormente coinvolta. A
parte gli episodi di indisciplina, in questi mesi gli israeliani hanno scoperto
che i medici e gli infermieri arabi sono una forza importate per tenere insieme
le istituzioni. Ogni servizio in televisione su strutture ospedaliere ha
mostrato il volto umano di medici ed infermieri arabi. Sono processi che
richiedono tempo ma che servono a rompere gli stereotipi. Lo stesso Netanyahu,
che nel 2015 incitava il suo elettorato ad andare a votare perché gli arabi
venivano trasportati ai seggi da organizzazioni di sinistra, ora fa campagna
elettorale nelle località arabe, anche per spronarli a vaccinarsi, con un atteggiamento
sui social molto diverso grazie all’apertura di una pagina Facebook in arabo. E’
importante che la società israeliana assorba al suo interno la popolazione
araba per molti versi emancipata e civile. Due esempi dimostrano il cambiamento
in atto: la televisione pubblica ha un corrispondente arabo di Gerusalemme,
elevato a giornalista di pieno rispetto, che tratta tutti i temi di attualità
con assoluta imparzialità. Anche Haaretz sta assumendo diversi cronisti arabi.
Abu Mazen il mese scorso ha proclamato le elezioni della
Autorità Nazionale Palestinese, che si erano svolte l’ultima volta nel 2006. Il
22 maggio si voterà per il Parlamento di Ramallah, il 21 luglio le elezioni
presidenziali ed a fine agosto il Consiglio Nazionale Palestinese in esilio.
Pochi giorni fa al Cairo si sono conclusi sotto l’egida di Al Sisi i colloqui
tra le 14 fazioni palestinesi, di cui Hamas e Al Fatah sono le più importanti,
con il raggiungimento di un accordo che dovrebbe assicurare il corretto
svolgimento della campagna elettorale e delle elezioni. Anche se i problemi di
fondo tra le fazioni non sono superati, va notato un cauto ottimismo tra i
palestinesi per effetto della elezione di Biden, che potrebbe portare alla
riapertura del consolato USA a Gerusalemme Est e della rappresentanza a
Washington della ANP.
Roberto Della Rocca ha confermato che il focus che
differenzia Meretz dagli altri partiti sta nella difesa delle minoranze
immigrati e arabi. Si dimenticano le leggi sociali, la difesa della donna e
degli omosessuali. Ma il problema di fondo per la sinistra resta la soluzione
del conflitto palestinese, che condiziona la soluzione di tutti gli altri
problemi come la situazione economica, culturale, la democrazia, i rapporti
internazionali. Per diventare un paese normale Israele deve avere una soluzione
concordata con i Palestinesi e accettata dalla comunità internazionale.
La posizione dei Laburisti di Merav Michaeli sul conflitto
palestinese è più blanda, a conferma che questo è un tema sempre meno presente
nel dibattito politico israeliano.
Horowitz, leader del Meretz, spinge sul problema palestinese ma
bisogna saper parlare agli elettori anche su altri temi più vicini a loro. Nei territori occupati di Giudea e Samaria ci
sono 500.000 coloni ma la popolazione araba ha la natalità più alta del mondo. Sommando
gli arabi cittadini di Israele agli arabi che vivono a Gaza e in Cisgiordania,
si arriva a un totale di 6,5 milioni. Poiché in Israele vivono 6,3
milioni di ebrei, è evidente che in una prospettiva di “Grande Israele” il
mantenimento di uno stato ebraico sarebbe incompatibile con uno stato
democratico. L’unica soluzione sarebbe rientrare nei confini del 1967.
La democrazia è molto debole per effetto degli attacchi da
parte di Netanyahu alla magistratura, alla stampa libera, alla polizia, con una
situazione molto preoccupante.
Giorgio Gomel ha commentato che da due anni la democrazia in
Israele è limitata dal plebiscito personale su Netanyahu, che dovrebbe essere
giudicato dal tribunale e non dagli elettori.
Per la sinistra l’unica possibilità sarebbe un’alleanza con
la lista araba, per consentire al 20% della popolazione di essere rappresentato.
Ma Meretz è un partito sionista, è difficile pensare ad una lista unica con i
partiti arabi.
Secondo Daniele Nahum il fronte anti Netanyahu è molto
disomogeneo. Negli ultimi vent’anni lo scontro politico è stato tra Destra e
Centro Destra, con la Sinistra assente che non riesce a capire la situazione
sociale.
L’incontro si è concluso con la promessa di un nuovo incontro
dopo il 23 marzo per l’analisi del voto.
STORIA, MEMORIA, VERITÀ: RIFLESSIONI SULL’ULTIMO LIBRO DI MARCELLO FLORES
David Bidussa 27 gennaio 2021 Gli Stati Generali
Cattiva memoria di Marcello Flores dà l’opportunità per tornare a riflettere non solo sul rapporto tra memoria e storia, ma soprattutto sui molti modi attraverso i quali oggi si produce discorso sulla storia.
A lungo abbiamo pensato che storia e memoria fossero agli antipodi e dunque che si trattasse di scegliere o di indicare intorno a quale dei due poli lavorare.
Marcello Flores ci dice in prima battuta che esiste una dimensione vischiosa di ciò che conserviamo nella memoria, ma anche che di fronte esiste un cammino impervio di provare a ricostruire fatti, eventi, scelte, opzioni perché al centro della memoria stanno prevalentemente individui, voci. Ovvero figure e che periodicamente tornano a confrontarsi con il passato che raccontano, con quello visto e/o vissuto e ogni volta la sfida è riconoscersi o meno con la versione precedente dei fatti narrati.
In questa
dimensione la partita, sottolinea Flores, non è tra memoria e oblio, ma tra
cancellazione, conservazione e memoria. La memoria è in breve il risultato di
1) ciò chesi ricorda;
ma anche
di
2) ciò che si vuole ricordare;
e
soprattutto di
3) come si vuol ricordare.
Ogni
volta così la narrazione del passato corrisponde non solo alle sfide del tempo
presente, ma è in
relazione col presente. Un presente che deve fare i conti con le
eredità del passato e che spesso affronta quel percorso “controvoglia”.
Un
profilo e un disagio che riguardano le memorie dei comunismi e di chi oggi si
vuol fare erede di quelle storie; dei fascismi e di chi oggi pensa di aver
“pagato pegno” a sufficienza e dunque si ripresenta sul mercato politico
offrendo le stesse ricette di a un tempo pensando che il disagio economico e
sociale, il malessere esistenziale sia una buona opportunità e una piattaforma
per ripresentare ricette che già una volta hanno avuto corso nella storia
Ma
soprattutto quel tema delle cattive memorie riguardano alcune questioni
dirompenti che stanno nel nostro presente.
Quella
che ci riguarda direttamente è l’identità dell’UE e il confronto tra le realtà
politiche e culturali dell’Europa occidentale e le realtà politiche
dell’ex-impero sovietico. Conflitto che è stato esaltato e in forma plateale
della discussione sulla legge 2019, e che oggi rimette in discussione la
centralità del 27 gennaio come data della memoria europea.
Un presente
segnato dalla rapida parabola delusiva del sogno europeo.
Percorso
segnato da molte svolte: prima l’euro, poi il rifiuto dell’approvazione della
costituzione nel 2005, poi un allargamento a Est senza un fondamento culturale
e politico ma in gran parte segnato dall’ansia di stabilire un confine. Dentro
il ritorno dei particolarismi, l’innalzamento delle intolleranze, l’espandersi
di un clima di violenze dove progressivamente sono in aumento le zone proibite,
i luoghi a rischio della convivenza.
Ma anche
conflitto che denuncia oggi una stanchezza di quella data e la necessità di
ripensarla pensando anche a una procedura culturale diversa. Se a lungo la
scenografia dei “giorni della memoria” (non solo il 27 gennaio) è stata mettere
al centro del discorso le vittime, forse occorre iniziare a considerare che
quella modalità di ricordo non deve fondarsi sull’etica del risarcimento, bensì
su quella della autoriflessione.
Ovvero:
in ogni giornata della memoria ciò che deve stare al centro è il “non detto”
del discorso collettivo.
“Non
detto” che implica mettere al centro non chi è stato escluso, ma l’imbarazzo.
Ne
discende che al centro di quel tipo di data deve stare la dinamica di “dire la
verità”.
Dire la
verità non significa solo dare voce agli esclusi, ma smontare le
opinioni e le convinzioni su cui a lungo si è definito il compromesso culturale
che ha legittimato gli equilibri di un lungo secondo dopoguerra dove ogni volta
il problema era individuare un colpevole.
Dire la verità in questo senso implica decisamente come giustamente sottolinea Marcello Flores dare spazio al discorso della storia e al ruolo dell’indagine storica, ma significa anche riconoscere e vedere i limiti dell’azione culturale degli storici. Ovvero distinguere tra i percorsi della ricerca storica e dei risultati proposti dagli storici, ma poi non tralasciare la costruzione della vulgata cui pure gli stessi storici talvolta contribuiscono.
Processo
in cui l’effetto è la banalizzazione della storia cui non sono estranei gli
storici allorché si mettono sul piano della divulgazione, della narrazione
semplificata, laddove incrociano le loro ipotesi di ricerca con la
semplificazione del racconto.
Nella
dimensione del ruolo pubblico dello storico non ci sono solo gli effetti di
banalizzazione, e non c’è solo la competenza, ma c’è anche la consapevolezza
che il racconto di storia e la ricostruzione della scena della storia non è
solo il risultato di mettere insieme i fatti o di raccogliere i documenti, come
a lungo molti storici hanno ritenuto.
Se quel lavoro è necessario, non è più da solo sufficiente.
Ricostruire la scena della storia, soprattutto in età contemporanea, nel tempo in cui i protagonisti della scena sono ancora vivi, e gli elementi testimoniali sono ancora sul campo, significa sapere che anche altre competenze sono necessarie, spesso non possedute da una sola competenza.
Riguardano
(per esempio): una sensibilità semiotica, una sensibilità letteraria, una
competenza disciplinare per l’analisi sociologica, per quella antropologica,
per le culture scientifiche. Una competenza legata alle forme della
comunicazione che non si limita ai dati di fatto, ma come questi vengono
confezionati, raccontati, costruiti e “venduti” come pacchetto di spiegazione
“convincente”.
Insomma, la scena della storia necessita per affrontare la questione di raccontare il vero, di un concorso di competenze, di una ricerca che è un laboratorio, sia di temi che di figure, che lo storico tradizionale del ‘900 non è in grado di soddisfare da solo. Il che significa anche avere una percezione chiara della crisi del racconto storico, come prodotto della ricerca storica, così come ci è stato consegnato nel Novecento.
David Bidussa è un scrittore, giornalista, storico saggista italiano.
Si è definito storico sociale delle idee, riferendosi a «una disciplina che comprende un mix di competenze culturali tra le quali: storia (contemporanea), storia sociale, semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia dei partiti e movimenti politici».
Ha scritto saggi sull’ ebraismo, sul sionismo, sul movimento socialista francese e sulla Repubblica di Vichy. Va ricordato “L’ultimo testimone” Einaudi.
Marcello Flores Storico, autore di apprezzate pubblicazioni, si è occupato principalmente della storia del comunismo, del XX secolo, del genocidio degli Armeni durante la Prima Guerra Mondiale, dei diritti umani e delle vittime di guerre.
Ha fatto parte del comitato scientifico-editoriale per la monumentale “Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo”; ha partecipato a diversi programmi televisivi divulgativi sul tema (ad esempio, Il tempo e la storia, Eco della Storia). Fa parte del comitato scientifico per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani sull’Armenia.
Gli
anglismi e gli americanismi che intitolano i capitoli di questo libro non sono
da attribuire all’antico vizio italico dell’esterofilia. Alcontrario, proprio con il provocatorio richiamare il selvaggio
trapianto nella nostra lingua di terminie
costrutti anglofoni, Bruno Osimo ne sottolinea con ironia gli aspetti ridicoli,
banali, talvolta volgari, e caso mai fa valere con forza il rifiuto di farsi
subordinare, trasformare, denaturare, emarginare.
Per
Osimo, fonte inesauribile di ispirazione di tale rifiuto, e di molto altro ancora,
è Primo Levi: una guida preziosa alla quale egli si consegna, affascinato dal
suo pensiero acuto e lungimirante, dalla sua scrittura cristallina, dalla sua complessa
e tragica vicenda umana.
Nel
2012 Osimo aveva dato alle stampe il Dizionario
affettivo della linguaebraica,
una prima valida prova narrativa le cui pagine, pur non componendo una vera e
propria autobiografia, raccontavano il suo impegno a fare chiarezza
nell’intrico delle ascendenze e dei comportamenti famigliari. In quell’opera
Osimo, figlio di genitori scampati da giovani (lei a sedici anni, lui a
ventitré) alla deportazione verso un Lager, narrava d’essersi trovato iscritto,
per iniziativa della yiddishe mame, alla
scuola ebraica anche se “papà non voleva che io ci venissi”, e quindi di
sentirsi costretto sin da bambino a fare i conti con la sua qualità di “ebreo
clandestino”.
Da
questa condizione s’era potuto finalmente liberare molto più tardi, andando a
visitare a Gerusalemme lo Yad Vashem, il museo-monumento dedicato alle vittime
della Shoah. “Quando ho visitato lo Yad Vashem, avevo quasi cinquant’anni.
Tanti fili della mia vita mi portavano in quella direzione, ma non lo sapevo, o
non lo volevo riconoscere. […] adesso
che sono qui dove c’è questa stazione, questo posto dove ci si ferma, dove si
fa memoria, […] capisco che quello che
mi è stato detto non è nulla a confronto di quello che mi è stato trasmesso
senza dirmelo. […] È questo l’unico posto in cui mi sento a mio agio pensandomi
ebreo non circonciso e mi sento ebreo completamente, […] È questo l’unico posto in cui paradossalmente
mi sento protetto, non nel fisico ma nell’identità, qui sono legittimo, non
sono più clandestino, né come ebreo né come cittadino del mondo.”
Dalla
composizione di quel favoloso Dizionario
è trascorso circa un decennio. E Osimo, entrato ormai in his sixties, ha fatto compiere alla sua inesausta ricerca di
chiarezza identitaria un ulteriore tratto di strada, passando dalla lezione
dello Yad Vashem − quel memoriale austero che parla della
morte, dello sterminio, della cremazione
− all’ascolto vigile di Primo
Levi: un personaggio capace di vedere ogni cosa con oggettività e distanza, dotato
delle qualità morali, culturali, scientifiche, di una resistenza fisica e di una
capacità di adattamento tale da
permettergli, nel cuore di un’esperienza estrema, di soddisfare una sua pur precaria volontà di
sopravvivere; ma in particolare, un testimone in possesso di un’eccezionale
capacità di osservare, studiare, giudicare, antivedere, ben palesata dal
macrotesto che ha lasciato in eredità ai posteri. «Non sono in grado di
giudicare il mio libro − scrive Levi − […] Mi auguro che venga letto comunque:
non solo per ambizione, ma anche nella sottile speranza di essere riuscito a
far sì che il lettore si accorga che le cose lo riguardano.» “Dire che l’opera
di Primo è importante (solo) per la Shoah
− commenta Osimo − è
grossolanamente riduttivo: è immensa, ed è fondamentale per la nostra vita
quotidiana attuale.” E poi, a mo’ di precisazione: “La sua grandezza sta
nell’aver ricucito tutto quello che ha visto e vissuto, e ricollegato con la
nostra vita quotidiana, ravvisando tracce di Lager nel suo quotidiano e tracce
di quotidiano nel Lager. Che è poi quello che cerco di fare io in questo libro
con il nostro quotidiano.”
Quanto
in profondità Bruno si sia spinto nell’introiettare il pensiero e l’esperienza
esistenziale di Primo, lo rivelano le pagine sofferte di questo libro. Perché
il lettore incominci a farsene un’idea, do qui qualche esempio.
Sotto
la parola chiave SUV (sigla che indica
Sport Utility Vehicle), Osimo menziona
un episodio di guerra che Primo, in La tregua,
descrive così: «[I nazionalsocialisti che, fuggendo dal Lager, non volevano
lasciare dietro di sé nulla che potesse favorire i prigionieri] non si erano attardati
a recuperarli [gli alimentari in scatola], ma avevano cercato di distruggerli
passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati.» Nel commentare questo
passo, Osimo rileva che la violenza – moneta corrente, quale causa di morte e
di traumi senza fine, nell’ottica della guerra − può assumere in tempo di pace
forme diverse, per esempio negli incidenti stradali, ormai sempre più frequenti.
Fa poi notare che per un’automobile normale scontrarsi con un SUV è più
pericoloso che scontrarsi con un’automobile normale. Dunque: “Il principio che
sta alla base della scelta di girare in SUV [anziché in un’automobile normale]
è quello di cercare la propria protezione a scapito di quella altrui. […] Il pensiero,
consapevole o inconscio − conclude Osimo −, dei portatori sani di SUV nei
confronti del prossimo e dei prossimi, è lo stesso espresso da Primo nel passo
citato: «distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati.»
«Siamo
stati capaci, noi reduci − si domanda Primo in I sommersi e i salvati − di
comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente
intendiamo per ‘comprendere’ coincide con ‘semplificare’: senza una profonda
semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e
indefinito […] Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema.» Chiosando
queste riflessioni di Levi (in un capitolo intitolato Narrative), Osimo chiarisce che semplificare quando la materia è
già, di suo, semplice, è più facile di quando non è semplice affatto. Per poi
aggiungere, a parziale spiegazione del clima di indifferenza, apatia, assenza
di interesse con cui Primo viene accolto al suo ritorno in famiglia a Torino, che
“la vita in Lager è stata programmaticamente costruita in modo da non essere
traducibile. I nazionalsocialisti sapevano che, se qualcuno fosse
sopravvissuto, nessuno avrebbe creduto ai suoi eventuali racconti. […] I
nazionalsocialisti hanno innovato radicalmente le modalità non solo di
distruzione fisica, ma anche di detenzione e di condizionamento. Hanno
costretto i prigionieri a vivere in modi propriamente indescrivibili, così da
impedire loro di raccontare. Per farlo, Primo ha creato non solo un testo, ma
un intero linguaggio.”
In
un capitolo intitolato No Vax, dopo
avere citato un passo da Se questo è un
uomo che descrive un quadro epidemiologico rovinoso («Non avevamo che una
minima scorta d’acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il
poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione.»), Osimo ci ricorda
che, pur non essendo medico, Levi era tuttavia capace di svolgere, nella
cornice desolante del Lager, funzioni di rilievo nel prevenire la diffusione
delle malattie. La sua cultura gli permetteva infatti “di attenersi ad alcuni
princìpi di base, quelli che in teoria vengono insegnati in tutte le scuole nei
corsi di igiene.” È vero che oggi le malattie infettive sono diminuite un po’
dovunque. Ma “l’unica epidemia che sta dilagando”, constata Osimo con amarezza,
“e che sembra non conoscere antidoti è quella delle informazioni [pseudoscientifiche]
in internet”. Chiunque può comunicare ciò che vuole, laddove larga parte del
pubblico recettore non ha le basi educative necessarie per filtrare le notizie
attendibili e distinguerle dalle panzane. “Apparentemente, internet […] ha
dimostrato che la democrazia non funziona, e che nel principio che uno vale uno
è racchiuso il pericolo enorme di diffusione di disinformazione.” Siamo ormai scesi, oggi, tanto in basso che
sembriamo destinati a ripercorrere senza rimedio gli “errori passati, fino a
giungere a nuove infezioni, nuove epidemie, nuove pesti causate da menti labili
di persone ignoranti con un enorme potere comunicativo di massa.”
Quanto
fossero affamati i Häftlinge ce lo
dice Levi in Se questo è un uomo, rammentando
che nel campo «si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la
miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine».
Nella nostra storia nazionale, la Seconda guerra mondiale fu l’ultimo periodo
in cui molti di coloro che la attraversarono ricordano non soltanto di avere
sofferto la fame, ma anche di avere assistito a un immane spargimento di sangue
umano. Finita la guerra, per alcuni anni − annota Osimo in un capitolo agrodolce
intitolato Barbecue − fu avvertito
diffusamente il bisogno di compensare il patimento subìto spargendo, per
contrasto, sangue non umano, “un lusso prima insperabile”. “Per arrivare alla messa in scena del barbecue
[…] bisogna avere esorcizzato completamente la fame atavica, di modo da non
avere di nuovo voglia di un setting più avventuroso per il proprio rituale di
nutrimento. Il maschio inscena, come mezzo milione di anni prima, il ruolo del
cacciatore procacciatore di selvaggina, e la femmina − che da copione dovrebbe occuparsi del fuoco
− lascia il fuoco al maschio (che
altrimenti non avrebbe nulla da fare, dato che non caccia) e si dedica ai
servizi di comfort: […] tovaglie, tovaglioli, bicchieri, bevande, posate,
recipienti per condimenti et similia.
[…] nessuno concepirebbe di abbeverarsi al fiume o di pulirsi la bocca con una
foglia o di mangiare insipido o di rinunciare al caffè. Nemmeno le patate crude
arrostite sulla lamiera rovente fanno di solito parte del nostro menu.”
«Quanto
di noi stessi era stato eroso, spento?» si domanda Levi nel finale di La tregua. «Ritornavamo [a casa] più
ricchi o più poveri, più forti o più vuoti?»
A tali quesiti Osimo risponde in modo indiretto componendo un capitolo
intitolato Anti-aging. In esso ci
ricorda che tra i dogmi non scritti della nostra cultura figura l’esigenza di
fare tante esperienze “perché le esperienze fanno crescere. Un altro [di questi
dogmi] è che bisogna apparire giovani. L’ideale, insomma, sarebbe essere dei
giovani vissuti. […] Nel 1945 Primo ha ventisei anni, quindi è giovane. Ed è
vissuto” grazie al fatto che i trecentoquaranta giorni trascorsi a Monowitz e i
duecentosessanta trascorsi nel viaggio di ritorno sono stati estremamente
ricchi di esperienze. A quei due dogmi occorre però accostare oggigiorno anche
l’equiparazione universalmente accettata tra vecchiaia e negatività, un’equiparazione
che mobilita strategie “anti-aging” con effetti collaterali importanti. Grazie
infatti ai farmaci che, vergognandocene, assumiamo di continuo, la nostra
aspettativa di vita sta aumentando, ma ne deriva anche che “il mondo è sempre
più pieno di vecchi, con pròtesi di vario tipo.” “Posso capire − così conclude
Bruno − che Primo alla lunga si fosse
stufato di vivere in mezzo a una popolazione guidata da queste preoccupazioni.
[…] In effetti Primo, senza alcun esibizionismo, senza alcuna polemica, senza
fare nessun rumore, ha scelto l’unico ‘percorso anti-aging’ (come recita la
pubblicità volgare) che funziona davvero.”
Una
considerazione decisamente provocatoria ma che, nella sua originalità, trovo del
tutto in linea con questo libro, nei termini in cui mi pare che Bruno Osimo l’abbia
concepito.
E’ morto Nedo Fiano, testimone indimenticabile della tragedia dell’Olocausto
Zita Dazzi – Repubblica 19 Dicembre 2020
L’immagine che gli era rimasta stampata negli occhi e che raccontava sempre era quella di sua madre sulla rampa d’arrivo dei treni per Auschwitz, l’ultima volta che si abbracciarono, prima che lei venisse avviata alla camera a gas. Nedo Fiano è morto questa sera a Milano, nella casa di riposo dove era ricoverato da molti anni, assieme alla moglie Rina Lattes. Suo figlio Lele, deputato Pd, pochi giorni fa aveva scritto su Facebook che l’ultima ora era vicina: “Aspetto notizie, sto sempre col telefono in mano, papà è molto debole, forse è stanco di resistere a 95 anni, forse ha concluso il suo ciclo”. Alle 20 di sabato, il giorno sacro per gli ebrei, quando ormai la vita di Nedo era volata via, Lele Fiano ha scritto un altro post: “Papà ci ha lasciati. Ci rimarranno per sempre le sue parole e il suo insegnamento, il suo ottimismo e la sua voglia di vivere. Non avrò mai io la forza che ebbe lui e che lo fece risalire dall’abisso, ma da lui ho imparato che per le battaglie di vita e contro ogni odio bisogna combattere sempre. Questo ci ha insegnato la memoria che lui ha contribuito a diffondere. Sia lieve a papà la terra che lo accoglie e sempre su di noi la sua mano ci protegga”.
Parole commoventi come tutte quelle che Lele Fiano ha dedicato ai suoi genitori, raccontando gli incontri che avvenivano nella casa di riposo.
Nedo era nato nel 1925 a Firenze e come tanti bambini ebrei alla promulgazione delle leggi razziali, nel ’33, dovette abbandonare la scuola, appena tredicenne, come Liliana Segre, di cui è stato grande amico. Venne poi arrestato con 11 membri della sua famiglia nel ’44 e tutti assieme furono deportati ad Auschwitz, con un terribile viaggio nei vagoni blindati, che Nedo ha raccontato per molti anni a generazioni di ragazzi ed adulti. Sul braccio aveva ancora stampigliato il numero di matricola A5405 e lui fu l’unico della famiglia a fare ritorno, dopo la liberazione l’11 aprile del ’45.
Nedo, che dopo la liberazione si era trasferito a Milano, nella sua vita ha lavorato per l’industria, ma ha dedicato la sua vita a testimoniare la storia dello sterminio degli ebrei durante il nazismo. Ha scritto anche un libro sulla sua storia, ” Il coraggio di Vivere”, e per molti anni ha collaborato con il Centro di documentazione ebraica di Milano raccontando l’Olocausto. E’ stato uno dei primi testimoni della Shoah a vivere la sua esperienza tragica come uno strumento pedagogico per le nuove generazioni.
In una sua testimonianza apparsa sul portale della comunità ebraica milanese Il Mosaico si legge: “Porto con me – da sempre – l’odore, il buio, l’orrore e la ferita di quel tempo lontano. Lotto ancora e recito la parte di un uomo comune, come tanti altri. Ma sento spesso un inferno dentro, anche se cerco di apparire sereno e felice. Amo la mia famiglia sopra ogni altra cosa. In vista ormai della settecentesima conferenza nelle scuole, mi sento ancora là, nel luogo del lutto. Ho una ricca e vivace vita interiore da cui attinguo il mio essere di ogni giorno. Penso, leggo e scrivo, ma sono sempre là, tra i fili spinati e lì resterò fino alla fine della mia vita. Ogni giorno apro gli occhi su un mondo difficile e spesso ostile, ma anche pieno di stimoli e tentazioni. Mi rimbocco le maniche, accetto la sfida e mi batto. Ho tre figli molto più bravi di me, che portano il seme di Birkenau che ho loro trasmesso”.
La senatrice a vita Liliana Segre, commenta la notizia della scomparsa di Fiano, piena di commozione: “C’era tra Nedo e la mia famiglia un legame speciale, più forte delle parentele di sangue. Non potremo mai dimenticarlo. Un grande abbraccio a Lele, Andrea, Enzo e a tutti i familiari”
Fra le molte espressioni di cordoglio che arrivano in queste ore, c’è quella del sindaco di Milano Beppe Sala: “La testimonianza di ciò che ha vissuto durante la deportazione resterà per sempre un grande insegnamento per tutti noi. Un abbraccio ad Emanuele e a tutta la famiglia Fianco”. Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano, fa le condoglianze alla famiglia e alla comunità ebraica milanese e all’Unione delle comunità ebraiche italiane: “E’ un giorno triste per Milano, Nedo Fiano è stato un testimone infaticabile delle nefandezze del nazifascismo, lo ricorderemo sempre con gratidudine, stima e riconoscenza”.
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