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L’altra Israele contro Netanyahu

DAVID GROSSMAN

REPUBBLICA 17 SETTEMBRE 2020

Nel Libro di Osea leggiamo: “Poiché costoro seminano vento, e mieteranno tempesta“. Per quasi dodici anni Benjamin Netanyahu ha seminato vento. Un vento malvagio, aberrante. Ora, nei giorni della pandemia, i risultati sono chiari: Israele è un Paese diviso e disorientato, sfiduciato nei confronti della sua leadership e di se stesso e facile preda del turbine del coronavirus.

Tiro a indovinare: se gli israeliani dovessero rispondere onestamente alla domanda “cosa vi augurate per il nuovo anno?”. A parte, ovviamente, la salute, immagino che molti di loro, inclusi i sostenitori di Netanyahu, risponderebbero semplicemente: una vita stabile, tranquilla, sicura, in cui non vi sia corruzione e si percepisca la presenza di un governo, della legge. Immagino inoltre che molti si augurerebbero anche un primo ministro (uomo o donna) che anziché essere un “mago” (come spesso viene definito Netanyahu), si occupi di questioni di stato e cerchi con tutte le sue forze di curarne le ferite.
Questo è ciò che augurerei io a tutti noi: una vita cristallina. La augurerei anche a Benjamin Netanyahu, da uomo a uomo. A volte mi chiedo se lui ricordi ancora la sensazione di una vita simile. Se ci sia ancora un posto nella sua esistenza in cui non finga, in cui sia cristallino, libero. Da anni ci ha abituati al fatto che quasi tutto ciò che tocca, in qualche modo, si intorbidisce, si aggroviglia in interessi celati, tortuosi, o ha un doppio fondo. L’ho guardato circa due settimane fa quando, riferendosi all’assassinio di Yaakub Abu Al-Kyan, ha gridato: “I cittadini di Israele pretendono di sapere la verità!” e ho pensato alle taglienti parole del profeta Isaia: “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!”

Indubbiamente Netanyahu è un oratore fantastico, un arringatore straordinario. Questa settimana ha pure conseguito un grande e importantissimo risultato politico che potrebbe influire sulle posizioni di altri Paesi della regione. E allora perché così tanti israeliani si sentono stranieri ed esiliati nel proprio Paese? Perché così tanti di noi avvertono un continuo senso di soffocamento, faticano a respirare? Forse perché oggi siamo sedati e ventilati. Siamo un’ottima materia prima atta a qualsiasi manipolazione, un materiale morbido e flessibile con cui modellare la dittatura “pseudo democratica” che Netanyahu sta instaurando. Per questo motivo il movimento di protesta contro di lui è un’incoraggiante – ed essenziale – ventata di aria fresca. A un tratto echeggiano parole chiare, assertive, che trafiggono il rimbombo capzioso di quell’-Io-Io-Io che ci sommerge da anni. La protesta fa rinascere in noi un senso di benessere e, dopo anni di bugie ed esagerazioni, risuonano finalmente parole di verità.

È vero, i manifestanti appartengono a gruppi diversi e talvolta slegati fra loro, hanno una leadership frazionata e ancora arrancano alla ricerca di una direzione. Ma proprio in questo sta la loro forza, in questa goffaggine, nelle energie di chi deve scrollarsi di dosso il senso di soffocamento, nel ringhio che, corroborato da argomentazioni razionali, efficaci e ben formulate, sale prepotentemente di tono. Netanyahu accusa i manifestanti (e la sinistra e i media e la procura e l’opposizione e chi no…), di essere ossessionati dallo slogan “Chiunque, ma non Bibi”. In realtà lui stesso si è trasformato in una specie di ossessionato, di “posseduto” che stringe in una morsa un intero Paese impotente e quasi apatico dinanzi al suo egoismo aggressivo, alla sua corruzione. Un Paese che per anni, risucchiato nel vortice di Bibi, si è occupato di lui, della sua famiglia, dei suoi capi d’imputazione. È come se, intorno a noi, ci fossero mille specchi e tutti riflettessero l’immagine di Netanyahu e, quando li guardiamo, vediamo lui, non noi. Ma poiché vorremmo tornare a rivedere il nostro riflesso, poiché siamo preoccupati per Israele e abbiamo la sensazione che il miracolo che lo ha creato e la solidarietà che lo ha mantenuto saldo stiano svanendo, manifestiamo ogni settimana davanti alla residenza ufficiale del premier a Gerusalemme, davanti alla sua casa a Cesarea e su 315 ponti e crocevia in tutto il Paese.

E continueremo a farlo. Continueremo a gridare, a urlare: Bibi vattene! Esci dalle nostre vite, vai per la tua strada e lasciaci ricostruire sulle macerie che ti lasci alle spalle. L’intera società israeliana ha bisogno di riprendersi da un lungo periodo in cui ha smarrito il buonsenso. Vorrei potessimo tornare ad apprendere alcuni principi fondamentali: l’essere diversi gli uni dagli altri senza odiarci, l’avere opinioni contrastanti senza manifestare malignità, l’essere capaci di spegnere l’ostilità e il sospetto che si accendono nei nostri occhi quando guardiamo chi (i nostri fratelli, sangue del nostro sangue) la pensa diversamente da noi.

Sarà un processo lungo e complicato perché il guasto è già filtrato nelle pieghe più recondite di Israele. Ma una cosa è chiara: non potremo iniziare questo processo di guarigione fintanto che Netanyahu rimarrà al potere. Lui non porrà rimedio a nulla. Anzi. Un’eventuale prosecuzione del suo governo pregiudicherebbe la possibilità di un risanamento e condannerebbe Israele a un ulteriore deterioramento. Anche l’ipotesi di un provvedimento di interdizione temporanea dalla carica di primo ministro evoca un tipo di interdizione più profondo intrinseco in Netanyahu: lui non è in grado di risanare laddove Israele ne ha più bisogno. Semplicemente non lo è. Chi gli è stato vicino testimonia che non presta mai ascolto. È distaccato dalla realtà e vive, a tutti gli effetti, in uno spazio in cui esistono soltanto lui e i suoi interessi. Esternamente può mostrare – od ostentare con fantastica abilità – potere, aggressività, sicurezza di sé e una sorta di compassionevole e paterna preoccupazione per i suoi sudditi. Senza dubbio gli piace considerarsi un “padre della nazione”. Ma è un padre manipolatore, cinico, sfruttatore e utilitarista.

No, nonostante tutti i suoi sforzi è impossibile percepire in Netanyahu qualità taumaturgiche, terapeutiche. A dire il vero non è nemmeno possibile percepire in lui un sentimento di autentica compassione per i bistrattati israeliani che lui stesso, con il suo operato e i suoi fallimenti, ha fatto precipitare nella situazione in cui si trovano. Perciò, ormai da tempo, non è più questione di “Sì Bibi” o “No Bibi”. È una lotta contro il disfacimento, a favore di una riparazione. Contro la malattia, a favore di un risanamento. Contro la disperazione, a favore della speranza. E in questa lotta ognuno deciderà quale posizione prendere. Buon anno nuovo.

Traduzione di Alessandra Shomroni

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“Incitement”, il film sull’assassino di Rabin

Chi era Yigal Amir? Il suo ritratto in una storia che indaga l’animo umano. E che in ebraico è intitolata Yamim Noraim, in riferimento ai giorni dell’introspezione che separano Rosh Hashanà e Kippur

Si dice che in Israele non si può mai stare da soli e in un certo senso questo è molto vero. Ai tassisti bastano poche informazioni generiche sul passeggero per elargire consigli di vita, uno sconosciuto sul treno ti spiegherà perché non capisci niente di politica dopo aver adocchiato il giornale che stai leggendo, il cassiere del supermercato commenterà i prodotti che compri e ti chiederà se sei proprio convinto perché lui ne avrebbe scelti altri. Naturalmente, questi sono esempi caratteristici di una società particolare, ma è vero a tutte le latitudini che non siamo mai soli. Le nostre azioni, le nostre decisioni, i nostri pensieri, difficilmente sono il frutto di un processo compiuto nell’isolamento, sono di solito il risultato di interazioni, suggerimenti, impulsi che in modo attivo o passivo accogliamo e facciamo nostri. Fino a dove si può spingere questa dinamica?

Sembra essere questo il nodo di Incitement, l’ultimo film di Yaron Zilberman che il 22 settembre si è aggiudicato il premio Ophir (il cosiddetto “Oscar israeliano” assegnato dall’Accademia Israeliana del Cinema e della TV) ed è perciò stato selezionato per rappresentare Israele nella sezione Miglior Film Straniero alla prossima notte degli Oscar. Presentato per la prima volta in agosto al Festival Internazionale del Cinema di Toronto, il film racconta il processo che culminò nell’assassinio del premier Yizhak Rabin (4 novembre 1995)

dalla prospettiva di chi lo commise, lo studente venticinquenne Yigal Amir.

La prima cosa interessante del film è il doppio titolo. Perché se in inglese è Incitement, in ebraico è Yamim Noraim, proprio come il periodo di dieci giorni tra Rosh Hashanà e Yom Kippur. Un periodo che chiama all’introspezione, all’indagine dell’anima, proprio come quella – spiega il regista in questa intervista – che Israele non ha mai fatto completamente riguardo quegli accadimenti. Zilberman chiarisce le ragioni del doppio titolo. Yamim Noraim in inglese non avrebbe funzionato: non sarebbe stato possibile conservare questo riferimento così forte alla tradizione ebraica, tanto più che nessuna traduzione rende giustizia all’espressione. Quella letterale, “Giorni Terribili” smarrisce il senso di solennità del periodo che di per sé non ha una connotazione unicamente negativa. E così si è pensato a Incitement: una scelta, precisa il regista, appropriata e contemporanea, perché interroga anche e soprattutto le nostre società.

Il film – arricchito da materiale filmico originale sugli accordi di Oslo – è ambientato nell’anno che precede l’assassinio e segue il processo di radicalizzazione di Amir. È la sua storia, ma anche la storia di molti altri. Degli ambienti, delle amicizie, degli esempi di vita all’interno dei quali i suoi propositi sono maturati. Dei poster che ritraevano Rabin con la svastica e del pensiero che ucciderlo fosse un compito religioso, una via per onorare la Torah. Una storia sulle divisioni della società, sul ruolo degli influencer su una personalità fragile e alla ricerca di un’opportunità di riscatto: famiglia yemenita, nella vita nulla di regalato, una fidanzata, Nava, che lo lascia dopo pochi mesi per uno dei suoi amici (e lo invita pure al matrimonio) a causa del suo non essere ashkenazita.

L’epifania di Amir (interpretato da Yehuda Nahari Halevi) ha luogo, racconta il regista, nella scena in cui assiste al funerale di Baruch Goldstein, l’estremista che il 25 febbraio 1994 aprì il fuoco sui musulmani raccolti in preghiera Alla Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone 29 e ferendone 150. Nel momento in cui il feretro viene sollevato, Amir pensa che anche lui, forse, potrebbe essere un eroe, anche per lui può esserci la possibilità di contare, di liberarsi del peso dell’insignificanza. Un’operazione non priva di rischi, quella compiuta da Zilberman. Raccontare la storia dal punto di vista dell’assassino inevitabilmente apre se non una porta, almeno uno spiraglio all’empatia. E forse proprio qui sta la questione: nessuna chiamata all’indulgenza o alla giustificazione, ma una “indagine dell’anima” collettiva, seria e profonda come il periodo degli Yamim Noraim richiede: come si diventa Yigal Amir?

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Il programma e l’approccio di Joe Biden verso Israele

Claudio Vercelli -Joimag 23 Agosto 2020

Il candidato Dem richiama il suo costante sostegno ad Israele, l’opposizione al movimento di boicottaggio e il sostegno agli aiuti militari. Una approfondita analisi e un confronto con l’approccio di Donald Trump nei confronti di Gerusalemme

Per certuni, sarebbe un coltello da infilare in un pano di burro, tanto è facile l’obiettivo; per altri, molti altri – invece – rimane qualcosa a cui aggrapparsi, a rischio di negare la medesima evidenza. Si dirà che sono opinioni e, come tali, discutibili a prescindere. Ma ci sono opinioni che si sorreggono sulle mere credenze (le “speranze”, tali poiché prescindono dalla realtà, rivelando infine la loro natura illusoria); così come ci sono opinioni, che tali rimangono, tuttavia ancorate ad un qualche dato di fatto.

Veniamo al dunque. Nei giorni trascorsi, per meglio intenderci durante un comizio in Wisconsin, Donald Trump, dinanzi alla platea degli astanti, ha candidamente affermato che lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è il risultato non solo di un intendimento suo proprio ma soprattutto della risposta alle pressioni derivanti da una parte del suo elettorato, quello di origine e radice cristiano evangelica. Non ebraica, beninteso. E neanche «sionista», per ciò che tale aggettivazione possa a tutt’oggi significare. Per inciso, il Jerusalem Embassy Act (JEA) – una legge approvata dal Congresso statunitense nell’ottobre del 1995, a grande maggioranza (93 voti su 100 a favore al Senato; 317 su 435 alla Camera), divenuta poi atto con valore esecutivo nel mese di novembre dello stesso anno, con la quale si riconosce Gerusalemme come città indivisa e capitale d’Israele – andrebbe quindi riletto, nella sua applicazione, alla luce di una tale concessione. Non ad Israele bensì ad un segmento di elettori statunitensi. Quello che più fa chiasso e rumore. Ancora una volta: non gli ebrei, ma i militanti dei gruppi di «rinascita» evangelicale, i «rebirth» che sono parte dell’ossatura ideologica di un’America non tanto conservatrice quanto suprematista.

Per essere chiari, ricapitolando, poiché la premessa è nota ai più, va rammentato che Gerusalemme è la capitale d’Israele ma, per una significativa parte della comunità internazionale, non è riconosciuta come tale. Quanto meno, non prima di un’adeguata negoziazione del «final status» del conflitto tra israeliani e palestinesi. Che è tutta a venire. La questione, quindi, rimane aperta, altrimenti essendo ritenuta «scelta unilaterale». Di fatto, le presidenze Clinton, Bush ed Obama, di volta in volta hanno richiamato ed applicato l’opzione del rinvio dell’adempimento alla norma in ragione degli interessi di «sicurezza nazionale». Solo con Donald Trump, nell’estate del 2017, si è iniziato a procedere nei fatti, arrivando al riconoscimento definitivo, il 6 dicembre di quell’anno, di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e, quindi, come legittima sede della maggiore rappresentanza diplomatica di Washington. Peraltro, anche a questa ultima manifestazione di volontà, sono seguiti passi non del tutto certi e incontrovertibili. Sta di fatto che, all’interno di questa cornice, è risaputo e riconosciuto il vivido sostegno dei cristiani evangelici rispetto ad una tale soluzione. In tutta plausibilità, maggiore di quella degli stessi ebrei americani. Poiché i primi ritengono che la cristianità possa pienamente realizzarsi solo se gli ebrei torneranno alla loro terra di origine.

Cosa c’entra tutto ciò con le elezioni presidenziali a venire? La convention democratica di Milwakee (qualcuno ricorda forse «Happy Days?») ha tributato a JosephRobinette Biden Jr, detto «Joe», la nomination per sfidare, alle elezioni di novembre, Donald John Trump. Non è stata un’incoronazione, beninteso, bensì un’investitura meditata. Biden, benché conosca a fondo i meccanismi del potere federale americano, partecipandovi da circa cinquant’anni, non è il candidato ideale per i democratici. Si tratta, per diversi aspetti, di una figura di retrofila, anche se non di retroguardia. Semplicemente, ad oggi è il meno peggio. Il problema non è neanche il suo modesto profilo (il quale, non è detto che, alla fine, non giochi a suo favore), la sua mancanza di appeal, il suo essere da sempre nelle “seconde linee” del suo partito, ma la drammatica mancanza di idee innovative tra i democratici.

Non è un suo esclusivo problema, trattandosi semmai di una condizione che è letteralmente trasversale all’intero sistema politico. In America come nel resto del pianeta. Vale quindi anche per i repubblicani ed – immediato riflesso – per i cosiddetti «indipendenti» così, come tanto più, per le ali radicali. Le quali, rifacendosi alla nozione di «identità» come indice esclusivo dell’agire politico, tanto involontariamente quanto paradossalmente, rendono omaggio (e quindi rafforzano) i sovranismi e i populismi di varia risma. Poiché questi ultimi si alimentano del declino delle società intese come cornici di una cittadinanza diffusa, sostituendo ad esse – invece – le appartenenze di gruppo. Non quelle repubblicane, costituzionali e così via bensì le dimensioni particolariste. In politica, non si vince facendo la sommatoria delle identità, come se esse da sé costituissero, infine, una maggioranza, ma cercando di dare di volta in volta corpo e forma a quest’ultima. Che va ricreata daccapo, poiché il fuoco della grande trasformazione che stiamo vivendo è proprio la disarticolazione della Middle Class. Oltreoceano come nel «vecchio Continente».

Dopo di che, conviene tornare alle elezioni americane. Biden ha ricevuto il sostegno convinto della Obama Family, che ha sostituito, negli equilibri dei democratici, quella più aristocratica e autoreferenziale dei Clinton. Non è un caso. In quanto Biden da sempre è visto come il “vice”. Non solo da quando tale carica occupò per davvero nei fatti, in ben due mandati, tra la fine del  2009 e il 20 gennaio 2017. Ma a tutt’oggi. In quanto Obama ha una chiara intenzione, ossia di tornare alla presidenza per la successiva tornata, nel 2024. Per suo diretto tramite o per quello della moglie Michelle. Da tempo, infatti, si adopera sia per allargare la sua base di consenso tra democratici in crisi di identità (tra i repubblicani, forse, le cose sono ancora peggio messe), sia per rettificare unba parte degli errori commessi durante il suo mandato: la fallimentare politica di concessioni nei confronti dell’Iran e di una parte del mondo islamico, che si disinteressa, oramai, di Washington, confidando semmai su Mosca e quant’altri; la deludente applicazione della grande riforma sanitaria, che è pesata soprattutto su un ceto medio in recessione, premiando di meno gli ipotetici destinatari e molto di più il vorace circuito assicurativo; l’attenzione per le issues legate alle identità civili (“ciò che io ritengo di essere”) ma non alla complessa trama dell’integrazione sociale (“ciò che io ritengo di potere effettivamente possedere”, ovvero le risorse materiali), hanno consegnato al suo bizzarro ed eclettico avversario Trump un vantaggio competitivo. Obama, che da tempo – dopo il pit stop di quattro anni – si è candidato a rappresentare nei tempi a venire la metà della grande mela elettorale statunitense, quella per l’appunto democratica, ci sta pensando e si allena ai bordi. Auspicabilmente, per non commettere gli errori del passato. Per il momento, tuttavia, tocca a quello che è stato a lungo il suo vice. Nel ticket Biden-Harris, adesso alla ribalta, se non avverrà una catastrofe elettorale, tuttavia molto di più dipenderà dalla seconda. Biden, infatti, non è un Mosè che divide le acque, giocando contro di sé, tra le altre cose, l’età. Ma non solo. Kamala Harris, invece, morde i freni, avendo assestato un uppercut alla potente Elisabeth Warren e silenziosamente pensando a liquidare quel pezzo di aristocrazia democratica che ruota intorno alla generazione degli ottuagenari, a partire dalla speaker della Camera Nancy Pelosy. Il tempo dirà se tali prospettive abbiano un qualche legittimo fondamento o siano solo illusioni di una tarda estate. Non per questo Biden, va ripetuto, è un “pupazzo” oppure un candidato privo di autonomia. Più semplicemente, se non esprimerà un profilo autonomo (qualora dovesse essere eletto, quando avrà terminato il suo mandato – lo ripetiamo – sarà ultraottantenne), verrà letteralmente risucchiato da un mondo che sta cambiando.

Detto questo, qual è l’atteggiamento – e con esso il programma – dei democratici riguardo ad Israele? Lo riprendiamo nei suoi passaggi di fondo. Il primo punto è cheil presidente Trump ha reso Israele meno sicuro e ha indebolito le relazioni USA-Israele». Ad egli, infatti, oltre ad una retorica denunciata come non solo inconcludente ma anche deleteria, si contesta la volontà di non volere arrivare ad una reale soluzione del conflitto con i palestinesi sulla base del principio «due Stati per due popoli». Mentre i democratici, con Obama, si sono impegnati per un sostegno economico e militare di sostanza (valutato in 38 miliardi di dollari, a partire dai programmi missilistici di difesa, a partire dal 2016, per dieci anni complessivi di investimenti), Trump si sarebbe limitato a gesti di forma, retoricamente enfatici, più di immagine che non di sostanza. In altre parole, tale condotta avrebbe risposto maggiormante a calcoli di circostanza che non di reale intenzione. Risultando infine controproducente. A tale riguardo, l’amministrazione Trump, ritirando il contingente americano dalla Siria alla fine del 2019, non solo avrebbe abbandonato i curdi al loro destino ma, lasciando un vuoto di potere a favore dell’Iran, ne avrebbe favorito le manovre al confine settentrionale di Israele.</pre>

Il piano di pace Kushner, lanciato dall’attuale Amministrazione con grande enfasi nei mesi scorsi, sarebbe da sempre una sorta di lettera morta, incoraggiando piuttosto l’annessione unilaterale di una parte dei territori della Cisgiordania (con un grave nocumento per le future trattative, altrimenti sostenute dalle precedenti presidenze, a prescindere dal colore politico). A fronte di ciò, Biden richiama, tra gli altri, il suo costante sostegno ad Israele (Paese nel quale si recò, per la prima volta, nel 1973); il suo ruolo chiave, quand’era vicepresidente, nel garantire ad Israele la necessaria sicurezza; la sua opposizione al movimento di boicottaggio, disinvestimento e a favore delle sanzioni (BDS) nonché il sostegno agli aiuti militari al Paese (a partire dal programma Iron Dome e dai programmi antimissilistici); il rifiuto nel dare corso ad atti unilaterali, destinati altrimenti a pregiudicare le trattative di pace; il sostegno alla ripresa degli aiuti statunitensi all’Autorità nazionale palestinese, tuttavia in linea rigorosa con il Taylor Force Act (che vincola gli aiuti americani alle autorità palestinesi in base al loro esplicito rifiuto del terrorismo e del ricorso alla violenza contro i civili israeliani); l’azione anti-iraniana, aprendo al piano d’azione globale congiunto (JCPOA, il Joint Comprehensive Plan of Action) contro la nuclearizzazione di Teheran. A ciò si aggiunge l’accusa, sempre rivolta a Trump, di avere vellicato, quanto meno implicitamente, l’antisemitismo presente negli ambienti suprematisti, che non hanno mai disdegnato di manifestare un qualche sostegno all’Amministrazione uscente.

Il programma di Bidenal netto dei prevedibili auspici su una proficua collaborazione bilaterale tra Washington e Gerusalemme («Israele manterrà sempre il suo vantaggio militare qualitativo»; «sostenere il fondamentale partenariato economico e tecnologico tra gli Stati Uniti e Israele, espandere ulteriormente la collaborazione scientifica e aumentare le opportunità commerciali ed alimentare la cooperazione sull’innovazione in tutta la regione»), auspica la ripresa di contatti e, in prospettiva, di negoziazioni, tra quest’ultima e Ramallah. Una tale prospettiva, scarsamente accreditata dal governo Netanyahu-Gantz, è la premessa per esercitare un lungo affondo contro il «taglio distruttivo dei rapporti diplomatici con l’Autorità nazionale plestinese» attribuito a Trump. Poiché, aggiunge il programma democratico, gli Stati Uniti non possono derogare dal loro ruolo di mediazione.

Ciò che l’attuale presidente andrebbe facendo, quindi, non è nell’interesse di Gerusalemme ma per esclusivo calcolo di parte. La propria. Al riguardo, viene ribadito che: «le azioni di Trump hanno ostacolato le prospettive di una soluzione a due Stati. Il piano di pace era morto in origine, nonostante fosse stato pubblicizzato dalla Casa Bianca come “l’accordo del secolo”, ovvero una soluzione alle sfide di Israele. L’Amministrazione ha proposto un piano che è stato concepito senza alcun contributo da parte dei palestinesi ed è stato respinto all’unanimità dalla Lega araba. Il piano di Trump ha reso [quindi] più sfuggente una soluzione negoziata a due Stati del conflitto israelo-palestinese, codificando misure estreme come l’annessione e il trasferimento della cittadinanza araba. Se Israele annettesse unilateralmente ampie aree della Cisgiordania, come previsto nel piano di Trump, metterebbe definitivamente in discussione il suo futuro come Stato sia democratico che ebraico». A tale riguardo, «la proposta di Trump ha scatenato grandi proteste in Giordania, mettendo a repentaglio la stabilità di un alleato regionale già fragile ma cruciale. L’annuncio di Netanyahu che avrebbe annesso la Cisgiordania e la Valle del Giordano ha anche messo a rischio un accordo di pace di lunga data tra Israele e Giordania, vitale per la sicurezza di Israele». In buona sostanza, «il fallimento dell’amministrazione Trump nell’opporsi all’annessione mette in discussione il suo impegno per la sopravvivenza di Israele come stato ebraico e democratico». Un altro punto è quello per cui «le politiche di Trump stanno rendendo il Medio Oriente più pericoloso per Israele». La vocazione “isolazionista” sta lasciando varchi aperti all’Iran, ad Hezbollah, ai gruppi sovversivi e terroristici presenti in Siria. Bisognerà quindi considerare ogni passo in base alla geopolitica russa, turca e iraniana. In quest’ultimo caso, «il ritiro di Trump dall’accordo con l’Iran, mentre quest’ultimo era ancora in regola, ha danneggiato la credibilità degli Stati Uniti, ci ha alienati dai nostri alleati, ha aumentato la probabilità che l’Iran stesso potesse acquisire armi nucleari e ci ha lasciato con meno strumenti per contrastare Teheran. La cosiddetta pressione che l’Amministrazione ha esercitato sull’Iran non ha quindi cambiato in meglio il comportamento delle sue classi dirigenti».

A fronte di ciò, «Trump ha alimentato l’ascesa dell’antisemitismo e del nazionalismo bianco». Seguono una serie di affermazioni per cui<b> «</b>l’81% degli ebrei americani è maggiormente preoccupato per l’antisemitismo da quando Donald Trump è diventato presidente. Secondo un altro sondaggio, il 68% degli elettori ebrei si sentirebbe meno sicuro di due anni fa e il 71% degli ebrei disapproverebbe il modo in cui il presidente ha gestito la questione dell’antisemitismo». A rinforzo di ciò, «Trump ha ripetutamente fatto osservazioni antisemite nei confronti degli ebrei americani, tra cui l’accusarli di essere “sleali” nei confronti di Israele votando per i democratici, dicendo [inoltre] che “non amano abbastanza Israele” e suggerendo che i suoi sostenitori ebrei votino per lui solo per proteggere la loro ricchezza. La campagna presidenziale di Trump ha adottato stereotipi antisemiti […]. Nell’ottobre del 2018, Trump ha promosso una teoria del complotto antisemita su Twitter. Trump ha accusato gli ebrei di doppia lealtà al White House Hanukkah Party del 2018 e nell’aprile 2019 a Las Vegas. Trump ha affermato, nell’agosto 2019, che gli ebrei americani che votano democratico […] sono ignoranti o “sleali”. Quando gli è stato chiesto di chiarire, ha detto che intendeva “sleali verso Israele”. Nel dicembre 2019 Trump ha nuovamente invocato paradigmi antisemiti sulla doppia lealtà e l’avarizia, ebraica che i gruppi ebraici hanno [poi] denunciato. Trump ha emesso un ordine esecutivo sull’antisemitismo quattro giorni dopo aver formulato osservazioni antisemite che molti gruppi ebraici hanno denunciato in quanto tali». In ultimo, «i nazionalisti bianchi e i neonazisti sostengono e sono incoraggiati da Trump, [mentre] lui peggiora le cose rifiutandosi di condannarli chiaramente». La dura sequela di condanne prosegue, seguendo quattro binari principali: la politica democratica contro l’Iran; la necessità di trovare, in campo palestinese, un interlocutore credibile, anche nell’interesse di Gerusalemme; la condanna dell’antisemitismo e del razzismo («Trump non unisce, semmai divide»); la rivendicazione, nella tradizione democratica, di una netta e prevalente posizione a favore degli ebrei.</pre>

Non è plausibile che l’esito del confronto tra Biden e Trump si giochi solo su questi piani. L’elettore americano, infatti, è preoccupato soprattutto dagli effetti economici della pandemia. Si intende poco, se non nulla, delle questioni internazionali. Il Medio Oriente, per molte famiglie, è soprattutto il luogo in cui uno dei loro figli è andato a fare una corvée militare. Così come la considerazione nei confronti degli ebrei segue spesso andamenti molto differenziati a seconda delle contee e degli Stati presi in considerazione. L’antisemitismo, non a caso, è maggiormente diffuso in ambito rurale, a tratti appartenendo quasi ad una sorta di “deep tradition”. Il punto è che per Trump una parte non secondaria dei consensi arriva proprio da quell’America profonda, ancora perlopiù Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), ma non solo, che fatica sempre di più a stare dietro al vortice dei cambiamenti in atto. Su come una tale carta verrà giocata dai democratici, fortemente ancorati anche al voto metropolitano, ce lo dirà a breve, tra le altre cose, la tornata elettorale che si sta approssimando.

Claudio Vercelli

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Israele-Emirati Arabi Uniti: a chi giova l’accordo

di Claudio Vercelli Joimag 16 agosto 2020

Tutti ruoli delle parti in gioco in un’approfondita analisi di Claudio Vercelli

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.

Non si sono fatti la guerra direttamente ma da sempre condividevano un’ostile separazione. Sputi a distanza, per intendersi. Israele ed Emirati Arabi Uniti, con la mediazione di Washington, stanno invece ora per firmare un accordo di pace che porterà, a breve, all’auspicata normalizzazione dei rapporti diplomatici e politici. Per chi conosce le dinamiche del Medio Oriente non è per nulla una sorpresa poiché già da alcuni anni era in corso un lento ma inesorabile processo di avvicinamento tra i paesi sunniti del Golfo e Gerusalemme.

Rimane il fatto che nel momento in cui verrà definitivamente siglato un trattato che si lascerà alle spalle quello che è stato (così anche quello che non è stato, benché avrebbe potuto essere, nel qual caso a beneficio di tutti), senza scomodare enfatiche espressioni come «svolta epocale», tuttavia si potrà dire che si è voltata una importante pagina in un libro che altrimenti continua ad essere scritto con un inchiostro incolore su pagine oramai incollate tra di loro.             I

Termini enfatici, dettati anche dal calcolo politico interno alle proprie amministrazioni, non difettano. «L’inizio di una nuova era», ha dichiarato il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, in tutta probabilità, si prepara ad un orizzonte di inedite conflittualità politiche interne ad Israele e, forse anche, ad un nuovo passaggio elettorale, a partire dal tardo autunno. Un primo passo verso nuovi accordi con altri paesi arabi, ha evidenziato il Presidente Usa Donald Trump, definendo l’intesa come un «enorme successo». Suo, si intende. È buona cosa lasciare sedimentare gli entusiasmi per poi, a cose maturate, capire fino a quale punto ci si possa spingere nel dire qualcosa piuttosto che altro. Afferma il brogliaccio diplomatico dell’amministrazione Trump, e viene ripetuto dalle prime dichiarazioni congiunte, che «le delegazioni di Israele e degli Emirati Arabi Uniti si incontreranno nelle prossime settimane per firmare accordi bilaterali riguardanti gli investimenti, il turismo, i voli diretti, la sicurezza, le telecomunicazioni, la tecnologia, l’energia, l’assistenza sanitaria, la cultura, l’ambiente, la creazione di ambasciate e altre aree di reciproco vantaggio».

Verosimilmente, se nulla di catastrofico nel mentre interverrà, le cose dovrebbero andare in una direzione destinata ad essere irreversibile.  In cambio della formalizzazione dei rapporti diplomatici, economici e commerciali,  Israele si è impegnata a sospendere il piano di annessione di parte della Cisgiordania, annunciato – tra molti distinguo e critiche anche in casa propria – qualche settimana fa dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu. Quest’ultima notizia, invero, è accreditata soprattutto da parte araba, poiché sul versante israeliano non si può dire la medesima cosa. Ciò che probabilmente ne deriverà è invece un’anestetizzazione del processo di omologazione e incorporazione di una parte della Cisgiordania allo Stato d’Israele. Difficile comunque pensare che una volpe come Netanyahu non ci avesse già pensato, al netto delle propagande incrociate. Il premier, nonché leader del Likud, non crede alla necessità storica di incrementare le dimensioni geografiche del suo Paese come precondizione per garantirne un futuro prospero.

Mentre sa che esso sempre più spesso sarà giocato sul versante della capacità di giocare la parte dell’ago della bilancia nei conflitti in corso nel Medio Oriente e nel Mediterraneo: l’escalation tra Grecia e Turchia sul controllo dei giganteschi depositi di gas naturale e metano; il destino dei territori frammentati e feudalizzati della Siria, dell’Iraq e della Libia (aree di influenza, all’interno di società nelle quali la statualità novecentesca è tramontata per sempre); la feroce contrapposizione tra «asse sunnita» del Golfo e componenti sciite. Netanyahu, per parte sua, ha una carta fondamentale da giocarsi: non ha mai creduto, contrariamente ai suoi oppositori interni, che si debba esistere in quanto “amati” bensì poiché temuti. Anche per questo, in tutta plausibilità, potrebbe incassare da sé l’assegno in bianco che gli deriverà da un tale accordo: dopo l’Egitto (1979) di Begin e la Giordania (1994) di Rabin, adesso potrebbero arrivare i «principi», gli «sceriffi», le dinastie – in una parola i maggiorenti – sunniti. Per una controparte apparentemente non così importante, non almeno per lui, ossia quegli insediamenti ebraici invisi non solo a buona parte della politica internazionale ma anche da significativi segmenti dell’elettorato nazionale israeliano. Netanyahu non li odia e neanche li ama. Semplicemente, si chiede quanto possano servirgli. Per preservare se stesso. Non è cinico: è un politico formatosi alla scuola degli Stati Uniti.

Peraltro, l’interesse comune di Israele e degli Emirati è il doppio fronte sia anti-sciita che avverso al radicalismo sunnita, laddove quest’ultimo si manifesti. Entrambi vogliono contenere l’espansionismo degli odiosi ayatollah iraniani e, allo stesso tempo, fermare il virus islamista dei Fratelli musulmani diffuso da Qatar e Turchia in tutto il Medio Oriente, dal Golfo fino a Gaza con Hamas ed anche in Egitto. Senza contare Hezbollah, protagonista ma anche subalterno al declino libanese. Insomma, la scena si è troppo movimentata per non entrare in gioco. Il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Mohammed Bin Zayad ha non  a caso affermato che «nel corso di una conversazione telefonica con il presidente Trump e il premier Netanyahu è stato raggiunto un accordo per fermare ulteriori annessioni di territorio palestinese. Gli Emirati e Israele hanno convenuto di cooperare e di stabilire una road map per l’istituzione di relazioni bilaterali». Sembra una foglia di fico. In franchezza, risulta difficile pensare che per gli emiratini il destino dei palestinesi stia alla sommità delle loro preoccupazioni. Anche perché la progressiva normalizzazione delle relazioni con il mondo sunnita – ci vorranno comunque molti anni – potrebbe suonare come una campana a morto per Ramallah.

Semmai, per meglio intendere il quadro corrente, bisogna chiedersi quali siano i veri interessi della monarchie del Golfo. Giacché, proprio ciò ci dice che, oltre all’avversione rispetto al pericoloso interventismo di Teheran, entra in gioco la contesa con la Turchia e il Qatar per l’egemonia sul fronte sunnita. Forse il fuoco odierno delle tensioni si alimenta nella Libia divisa tra fazioni, dove la leva residua per gli americani (e gli Emirati) è il generale Haftar (di contro al premier Serraj, sostenuto anche dall’Italia). Ma è solo un frammento di scenario, beninteso. Non di meno, Netanyahu, che conosce benissimo l’area composita dei suoi sostenitori, non ha alcun interesse ad accreditare, secondare e vidimare le posizioni più radicali, quelle che vorrebbero cancellare, con un tratto di penna e un’azione di forza, la controparte palestinese. Non avrebbe nulla da guadagnarci, beninteso. Poiché «Re Bibi» domina la politica israeliana da almeno venticinque anni in quanto capace di dosare l’identitarismo e il sovranismo della destra più radicalizzata con le istanze di mediazione che qualsivoglia azione politica necessariamente implica. Sempre e comunque. A meno che non si cerchi la miccia di una nuova Sarajevo, come nel 1914. Cosa del tutto estranea a Washington al pari di Gerusalemme. Poiché ciò che Donald e Bibi condividono è la consapevolezza che la guerra si farà comunque, ma non come di prassi, usando l’esercito di terra e di aria, bensì l’economia digitale e tutto ciò che si trascina con essa. Si tratta di un differenziale profondo, nonché nettamente marcato, rispetto alla precedente presidenza interventista di George W. Bush (giudicata severamente da Trump, ricambiato in ciò dall’ostilità di buona parte degli ambienti dei cosiddetti «neocons», contrastati a loro volta dall’alt-right populista). Netanyahu, per parte sua, ha capito che la vecchia destra likudista e nazionalista non solo è sfiancata bensì anacronistica. Le reazioni secche di molti likudnikim, a partire dal presidente Reuven Rivlin, rivelano di un tale divorzio da tempo. Da almeno due anni in qua.

Non è questione, quindi, di tessere le lodi del primo ministro israeliano o di descriverlo come un manipolatore. Semmai, è necessario capire per quale ragione la sua leadership esprima una così lunga durata, ovvero su quali binari riesca comunque a rigenerarsi, spesso al pari di un’araba fenice. Il premier israeliano, che da sempre può gettare sul tavolo della discussione la carta di «mister sicurezza», oltre a rassicurare i suoi connazionali, si rivela capace di coalizzare contro il nemico di sempre (ossia, dal 1979, con la rovinosa caduta dello Scià, l’Iran teocratico, quello che parla della politica mondiale come di una sorta di continua Armageddon), un connubio tra risorse economiche del Golfo (meridionale nonché sunnita), interventismo (residuo) statunitense ed eccellenza tecno-securitaria nazionaledi Gerusalemme.

Inutile aggiungere che un Trump, altrimenti affaticato dalla pandemia e dalle difficoltà economiche in casa, si giochi questo risultato, peraltro silenziosamente perseguito da tempo, al netto dello stesso piano di Jared Kushner su un definitivo accordo tra Gerusalemme e Ramallah, per accreditarsi rispetto ad una parte dell’elettorato nelle elezioni presidenziali di novembre. Il codice che il presidente uscente userà, per convincere i suoi potenziali elettori, non sarà quello del nuovo interventismo americano (che aborre, al pari di quanti credono in lui) ma della sua “persuasività” così come dell’arrendevolezza altrui (qualcosa del tipo: «Politics as a business», la melodia che molti dei suoi elettori meglio intendono). Tradotto in parole povere: “noi, americani, garantiamo ai nostri interlocutori le migliori condizioni di accordo; sta poi a loro usarle a proprio beneficio”. Plausibile, quindi, che la firma di un qualche trattato formale tra Gerusalemme e Abu Dhabi possa verificarsi prima della data delle presidenziali americane. Trump ha stracciato la politica di appeasement di Obama (e in parte dell’Unione Europea) con l’Iran. Guarda con belluina determinazione ad Erdogan, Putin e alla Cina di XI Jinping. Anche per questo continua a piacere a certuni. Fuori di Washington, si intende.     

Quanto ai palestinesi, per l’ennesima volta emerge la scarsa rilevanza del loro futuro rispetto ai pur precari equilibri che sono venuti definendosi dal 2000 ad oggi. Il fatto che una parte della loro bulimica e inamovibile leadership abbia reagito denunciando un «tradimento dei nostri fratelli arabi», semmai conferma questo stato di cose. Lo stesso Egitto di al Sisi non nasconde la sua mitigata soddisfazione per la configurazione che si va definendo del quadro regionale. Il Cairo ha bisogno del sostegno di Gerusalemme. Non si tratta di un destino «cinico e baro» ma, più semplicemente, della differenza tra il fare politica e il pensare che basti dichiarare di volerla fare per ottenere un qualche risultato premiante. 

Claudio Vercelli

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Dove inizia la notte

Stefano Jesurum , Setirot, pubblicato in Attualità il ‍‍20/08/2020

Nello speciale dell’ultimo numero di Pagine Ebraiche Daniela Gross segnala la mostra “Hannah Arendt and the Twentieth Century” (curata dalla filosofa Monica Boll; fino al 18 ottobre al Deutsches Historisches Museum di Berlino). Punto focale è il poco conosciuto talento fotografico della grande intellettuale, e la conseguente raccolta di scatti che documentano sentimenti, quotidianità, volti più o meno noti, frammenti di vita che scorrono per decenni, attimi felici, ritratti rubati, album estemporanei. Icona del ‘900, lei e le sue riflessioni sul totalitarismo, sul razzismo, e la fuga negli anni della persecuzione nazista, la complicata vita sentimentale, le amicizie con i Grandi…
… e così sono andato a rileggere un libriccino che consiglio a chi ad Hannah Arendt abbia voglia di sentirsi un po’ più vicino. Eichmann. Dove inizia la notte, atto unico teatrale di Stefano Massini (Fandango Libri).

La rappresentazione di vittima e carnefice. Centoquattordici pagine dirompenti, fredde, viscerali, profondissime, razionali, emotive, piene e vuote di passione. Massini, un cantastorie che mi piace molto, con quegli occhi che sprigionano la durezza della bontà e la follia della ragionevolezza. Sul palcoscenico delle pagine ci sono solamente loro due, come li ricordiamo dai filmati del processo o dalle immagini di archivio. E le loro parole, incessanti, attanaglianti. «Il linguaggio, Herr Eichmann. Il linguaggio è lo specchio, sempre, di cosa sentiamo davvero. Ci pensi: la chiamavate “Soluzione Finale”. Non avevate il coraggio di dire “Massacro”. E il gas di Globočnik? Era un “Trattamento Speciale”». Ma poi, dice Hannah, «le grandi masse fanno così: scordano tutto, velocemente, in un attimo. E non per distrazione, no. Lo fanno perché condannare gli altri – condannarli davvero – è pericoloso: corriamo il rischio, prima o poi, di sbagliare tutti. E nessuno vuol essere fatto a pezzi». Ci vuole coraggio. Anzi, no, non il coraggio, la dignità. «Il coraggio in fondo è una cosa di un attimo», vero Herr Eichmann?, il coraggio «fa rumore, abbaglia. Ci senti sotto l’orchestra. Ecco, sì, il coraggio è cinema. Perfino un vigliacco può avere un attimo di coraggio, nella vita, e non cambia il fatto che era e resta un vigliacco. No. Più del coraggio è la dignità. Molto di più. Perché la dignità, se ce l’hai, ti resta incollata addosso, è parte di te».
«Ognuno ha la sua idea di dignità: per lei, Hannah, è ribellarsi. Per me era rispettare gli ordini. Stiamo su due fronti opposti». Già, due fronti opposti. Ieri, oggi, domani. Così il dialogo immaginario tra l’SS-Obersturmbannführer Eichmann, esperto di questioni ebraiche, responsabile operativo della soluzione finale, organizzatore del traffico ferroviario per il trasporto dei deportati ai campi di sterminio (sfuggito al processo di Norimberga, scappato in Argentina, individuato e rapito dal Mossad, processato in Israele, condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità) e la giornalista politologa filosofa Hannah Arendt (suo il resoconto del processo ad Eichmann per il New Yorker, poi diventato il saggio La banalità del male), ci interroga senza un attimo di tregua. Si è appena concluso il processo. Siamo nel 1961. E oggi con la Arendt noi cerchiamo, grazie a Massini, dove comincia e perché comincia il male. «Ci sarà un momento, preciso, in cui prende forma. O no? Deve esserci. Tutto ha un inizio. Quell’attimo impercettibile in cui si passa dal nulla al qualcosa. È questo che cerco io, da lei». Anche oggi, no? C’è qualcosa di talmente… stupido nel male. «Sì: stupido. E guardi che non parlo delle coincidenze. Dico che il male si nutre di paura. Ne ha bisogno. Voi eravate fieri che la gente tremasse, anche solo a vedere una divisa. Portavate i teschi coi coltelli incisi nei distintivi. La paura, certo, la paura. Eppure, a sentirvi parlare, è così chiaro che ad avere paura eravate per primi voi».
La paura. Non ci dice qualcosa? Herr Eichmann si indigna: «Non mi pagavano». «Oh sì. La pagavano con un verbo essere: “Sono un SS”. Dare a qualcuno un verbo essere è una buona forma di stipendio».

Stefano Jesurum

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Il vantaggio di essere una nazione

Il nodo dell’identità. Corriere della sera 2 agosto 2020

Lorenzo Cremonesi intervista Yael Tamir

“Appartengo alla generazione cresciuta con le canzoni di John Lennon. Avevo 17 anni nel ’71 quando ascoltai per la prima volta Imagine e come tanti giovani occidentali m’innamorai subito del sogno, anzi dell’utopia, di un mondo aperto e pacifico. Lennon e Yoko Ono forgiarono il nostro immaginario con la loro Nutopia, uno Stato senza confini. Bene, oggi non esito a sostenere che fu un’utopia sbagliata, una fantasia pericolosa. Un mondo senza frontiere non è affatto un mondo ideale: non può essere né democratico, né giusto. E comunque quell’utopia è stata cancellata in pochissimo tempo dopo l’esplodere della pandemia del Coronavirus. In un pugno di giorni sono stati chiusi i confini, è stato sospeso il trattato di Schengen. Per garantire la vita dei loro cittadini anche le democrazie hanno sbarrato le frontiere». Attivista della sinistra israeliana da quando era liceale, paladina dei diritti civili e della nascita di uno Stato palestinese, fondatrice nel 1978 con un pugno di compagni del movimento Pace Adesso contro l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, quindi deputata e ministra laburista sino al 2020, oggi docente universitaria, Yael Tamir non smentisce nulla del suo passato. «Rimango una convinta laburista, anche se non esisto a definirmi una liberale nazionalista. Credo che le élite della sinistra illuminata e cosmopolita abbiano commesso gravi errori e nei miei lavori accademici studio le radici e gli sviluppi del nazionalismo», spiega a «la Lettura», presentando il suo Le ragioni del nazionalismo (Bocconi).

Tra gli argomenti che cita per criticare l’illusione cosmopolita, ci ricorda che solo il 3,3 per cento della popolazione mondiale vive in un Paese diverso da quello di nascita. Ma come replica a chi ci ammonisce in Europa sui disastri provocati dal nazionalismo, responsabile di due terribili guerre mondiali? «Certo, temo gli estremismi e il nazionalismo xenofobo. Amo sempre ricordare gli insegnamenti di Isaiah Berlin, mio tutor al dottorato di Oxford tanti anni fa ormai, che spesso parlava della necessità di relativizzare le proprie convinzioni. Il modo in cui le si sostiene differenzia il civilizzato dal barbaro. Una volta sottolineati i pericoli del nazionalismo estremo, io miro a porre l’accento su quelli altrettanto gravi del distacco tra le classi dirigenti illuminate ma sradicate, individualiste, prive del senso di solidarietà sociale per i propri concittadini, e invece gli strati meno abbienti della popolazione, che si sentono traditi, abbandonati e tendono a votare per i partiti populisti. Theresa May, quando era premier britannica, parlava non a torto di “cittadini del mondo che in realtà sono cittadini di nessun luogo”. Individui che vanno a sciare a Cortina, al mare alle Maldive e per i weekend a Parigi. Sono coloro che mandano i figli nelle grandi scuole internazionali, dispongono delle ricchezze per farlo, e non sono toccati dai problemi delle periferie urbane, dove i genitori non vogliono avere i bambini dei migranti in classe con i loro figli. Tanto dove studiano i figli dei cosmopoliti abbienti i migranti non ci sono. Un moderato nazionalismo trasforma invece lo Stato in patria, dà forza e sostanza al Welfare State, crea la solidarietà comunitaria, ci fa sentire tutti parte di una stessa casa. II problema delle sinistre è che spesso non comprendono il bisogno dell’elettorato popolare di vivere in una società dai confini chiari e sicuri. Ancora, lo ha dimostrato il virus: solo nei nostri confini possiamo aiutarci gli uni con gli altri nell’emergenza, sappiamo a chi dare e a chi prendere. La verità è che non esiste un welfare globale».

Concorda con chi vorrebbe bloccare i migranti? «Non ho detto questo. Dico che occorre una chiara politica sulle migrazioni. Lo Stato deve controllare i flussi. La scelta della composizione demografica di un Paese non può essere lasciata alle organizzazioni non governative. La popolazione in genere teme le migrazioni non controllate. I meno abbienti hanno paura degli stranieri, li vedono come concorrenti in casa loro. Il dramma dei progressisti in Italia è stato che, accecati dall’ideologia globalista, non hanno capito i bisogni e le paure più elementari degli elettori».

I suoi argomenti non fanno il gioco delle destre israeliane e dei coloni, che vorrebbero espellere i palestinesi? In queste settimane il premier Benjamin Netanyahu cerca di mettere a punto l’annessione di larga parte della Cisgiordania. Che ne pensa? «Contesto Netanyahu e chi lo sostiene. Non ho mai cambiato idea dai tempi di Pace Adesso: sono per la soluzione dei due Stati, uno accanto all’altro. E ciò non contrasta con le tesi dei miei libri. Noi israeliani abbiamo bisogno di uno Stato sicuro e socialmente solidale e di altrettanto necessitano i palestinesi. La pace sta nella divisione della terra, assolutamente non nell’annessione. La considero un disastro per entrambi i popoli».

Ma non crede sia troppo tardi? Di fatto l’espanslone delle colonie ebraiche negli ultimi decenni ha reso impossibile la spartizione. «Certo, ogni giorno che passa rende le cose sempre più difficili. Ma la situazione è reversibile, penosa, eppure la terra può ancora venire divisa. Non ci sono altre vie che abbiano senso e non comportino tragedie. L’alternativa sarebbe comunque peggio: uno stato continuo di tensione, guerriglia e addirittura guerra a bassa intensità, con picchi di violenza molto gravi. Sarebbe come la ex Jugoslavia negli anni Novanta».

Nel libro cita la famosa frase di Massimo D’Azeglio, per cui, fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani. Una dinamica del nostro Risorgimento a cui guardava anche il movimento sionista delle origini e poi alla nascita di Israele nel 1948. Che cosa altro individua di positivo nel nazionalismo moderato? «I due Risorgimenti hanno avuto dinamiche simili e i sionisti guardavano con ammirazione all’esempio italiano. Nel nazionalismo si trovano l’amore per la storia e per la natura del luogo in cui si vive, il senso di appartenenza individuale che coincide con quello collettivo. Ogni volta che vengo in Italia resto stupefatta da come voi valorizzate il vostro passato: si vede nelle statue, nelle piazze, nei palazzi, nelle targhe delle vie, di fronte alle fontane, nelle basiliche. Il vostro rispetto reciproco è stato encomiabile durante la fase di massima crisi del virus. Oltretutto, il nazionalismo aiuta a dare un senso alla propria esistenza in un mondo secolarizzato. Prevale l’idea che, dopo la nostra morte, la patria, la collettività a cui siamo appartenuti, continuerà a vivere. La nostra esistenza non sarà stata vana».

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