Blog – Full Width

by

A proposito del film Nabka 72

Pubblichiamo una serie di interventi originati dalla segnalazione di Vittorio Pavoncello in merito al film Nabka 72 , trovato per caso sulla cineteca del movimento operaio e che si può vedere sul link https://www.aamod.it/2020/05/13/nakba-72/

Da Vittorio Pavoncello con il contributo di Gabriele Eschenazi e Luciano Belli Paci

Al Direttore Vincenzo Maria Vita

Ci sono molti modi di vedere il conflitto israelo-palestinese, questi modi possono essere neutrali, o di parte e per parte dobbiamo intendere una visione del problema più orientata verso Israele o più orientata verso i palestinesi. Tutto ciò è giusto oltre che legittimo. Diverso è il caso dove una visione di parte viene supportata da menzogne, non da fake news che sono altra cosa, ma da menzogne vere e proprie, ed è questo il caso del film NAKBA 72 di Monica Maurer regista e documentarista tedesca, membro del consiglio direttivo dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma.

Monica Maurer può rielaborare tutto ciò che vuole e sembra che questa sia una sua tecnica costante se dobbiamo far fede ad una intervista che ha rilasciato a Invicta Palestina dove narra dei suoi esordi da Film Maker: “Lavoravo nell’archivio, usando i vecchi film per creare dei fillers, montavo nuovi filmati utilizzando materiale d’epoca”. Questa tecnica di rielaborazione libera in termini estetici può essere un modo per creare, ma se si è un artista di regime le proprie opere diventano pura propaganda. Ed è quanto accade con il suo film NAKBA 72 “riempito” di propaganda antisemita e non di storia del conflitto israelo-palestinese e che ricorda molto da vicino il film nazista Der Ewige jude (L’ebreo eterno). 

Nel filmato si descrive inopinatamente l’immigrazione ebraica come un progetto di “pulizia etnica” facendo in questo caso davvero “pulizia della storia” così come è stata raccontata da diversi libri sull’argomento redatti da ricercatori anche critici, ma capaci di suffragare le proprie tesi con fatti reali e mantenendo equilibrio di giudizio. Si parla dell’accoglienza dei profughi ebrei espulsi dai paesi arabi e depredati di tutto come “importazione” quasi si trattasse di merci. 

La prima guerra del 1948 è raccontata in modo fantasioso omettendo che ben 5 Stati (Egitto, Siria, Libano, Transgiordania e Iraq) attaccarono l’appena proclamato Stato d’Israele proponendo, loro sì, una totale pulizia etnica (“buttiamo a mare gli ebrei” era la loro parola d’ordine) e realizzandola di fatto in tutti i territori sotto il loro controllo.  Quel progetto di sterminio non si realizzò solo perché furono sconfitti.  Lo stato di Palestina non poté nascere perché il territorio assegnato dall’ONU ai palestinesi e rimasto in mani arabe venne annesso, parte dalla Giordania e parte dall’Egitto.

Il video nell’ipotizzare un complotto ebraico/sionista ai danni dei palestinesi rimanda direttamente ai Protocolli dei savi di Sion.

Come militanti dell’associazione Sinistra per Israele, da sempre paladina della soluzione “Due popoli per due stati” ci meravigliamo di come questo filmato possa essere proposto nell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma lasciando intendere che l’Archivio sposi le tesi esposte nel video. Non possiamo pensare che sia questo l’intento dell’Archivio, che certamente ha ben presente quale sia il valore dell’esistenza di uno stato ebraico riconosciuto dalle Nazioni Unite. 

Il conflitto israelo-arabo-palestinese ha una storia lunga e complessa dove torti e ragioni si sovrappongono e confondono. Una soluzione fino ad oggi non è arrivata nonostante a volte sia sembrata anche piuttosto vicina. Estremisti da una parte e dall’altra hanno impedito che avvenisse una riconciliazione e la fine degli spargimenti di sangue. Non possiamo cessare di sperare e lottare affinché una soluzione alla fine si trovi. Ma questo non potrà avvenire seminando odio, risentimento e demonizzazioni nei mezzi di comunicazione. Nelle società israeliana e palestinese non mancano forze che operano per il dialogo e il rispetto reciproco. Noi le sosteniamo e così dovrebbe fare anche l’Archivio del Movimento Operaio di Roma evitando di proporre ai suoi visitatori video come NAKBA72.

Riportiamo qui l’importante contributo di Bruno Segre al nostro dibattito

Sono uscito d’ospedale cinque giorni fa, il 15 luglio, dopo sei settimane di degenza, per ritrovarmi subito immerso nel mondo della comunicazione pubblica e nel clima pesante del Kulturkampf che Donald Trump sta da anni spargendo ovunque.  
Nel particolare, ho preso visione del film Nakba 72 – Aamod e ho letto il testo scritto da Vittorio e poi rielaborato da Gabriele.  Di quest’ultimo condivido tutto, comprese le virgole e gli spazi vuoti. Faccio invece più fatica a consentire con Vittorio che, “capitato per caso” nel catalogo dell’archivio del movimento operaio e dell’audiovisivo, vi trova “con sorpresa” il manufatto antisemita realizzato nel 2018 da Monica Maurer. 
Sull’intera vicenda e sul seguito SpI che poi ne è nato, desidero proporre qualche considerazione.
 
–      Nel corso dei miei novant’anni non ricordo d’avere mai visionato un documento di propaganda “filopalestinese” altrettanto sgangherato, controproducente, poco credibile sino al limite dell’imbarazzante. Persino nella scelta del materiale iconografico la sedicente “documentarista” tedesca ne ha combinata una più del diavolo: secondo lei, quando nel  maggio 1948 Israele “scatenò la sua premeditata aggressione” contro l’Egitto, il Libano , la Transgiordania eccetera, gli aerei “degli ebrei”   − guardateli bene −  erano degli Stukas!  Ma nel confezionare il suo capolavoro, da chi si è mai fatta ispirare la Maurer? dal Mossad?  
–      Gli unici “utenti” ai quali un documento di questo tipo può dare soddisfazione sono coloro che criticano Israele perché già animati da inguaribile giudeofobia (non tutti i critici di Israele, dunque), e più  in generale gli antisemiti tout court. 
–      L’antisemitismo è una malattia dalle radici antichissime, che purtroppo  l’universo cristianizzato si  porta dentro sin dai tempi degli imperatori Costantino e Teodosio, e che in forma  palese e/o sotterranea continuerà, temo, a circolare ancora fra i nipoti dei nostri nipoti.  Per cancellare gli effetti di quasi duemila anni di demonizzazione non sono sufficienti una Shoah o un Concilio Vaticano II. Gli antisemiti sono ancora abbondantemente presenti fra di noi: antisemiti di destra, di centro e di sinistra. In vita mia ne ho incontrati molti e, personalmente, ho imparato a farmene una ragione.  
–      Mentre non credo, in buona sostanza, che la visione di Nakba 72 – Aamod   possa portare a un significativo aumento del numero degli antisemiti già normalmente circolanti, temo che neppure l’eccellente testo di Gabriele abbia la virtù di convincere qualche antisemita a lasciar cadere il pregiudizio e a cambiare idea.
–      Che cos’è e che cosa rappresenta questa cineteca del movimento operaio nel cui archivio giace Nakba 72 – Aamod?  È vero, noi di SpI siamo piccoli, abbiamo scarsa visibilità e poca voce, ma ho la netta sensazione che la citata cineteca sia ancora meno visibile di noi. Insomma, mi domando se valga la pena che spendiamo preziose energie per segnalare al nostro modestissimo pubblico l’esistenza di una simile inesistenza.
–      Infine, sul tema “Sinistra-Israele” propongo un’ultima considerazione, o meglio, sollevo un’ultima pesante domanda. Qualcuno di voi riesce ancora a vedere “qualcosa di sinistra” in ciò che si muove nel complesso garbuglio vicino-orientale?  L’intero Israele, come ben sappiamo, è in mano a un ampio ventaglio di destre, secolari e religiose,  ma altrettanto può dirsi dei palestinesi (Olp e Hamas) e dei diversi Stati arabi e musulmani con i quali i governanti di Israele stanno facendo affari e stanno progettando le future carte geopolitiche della regione. Qui, allora,  la questione di fondo non sarà più quella di “difendere Israele dagli antisemiti di sinistra”, come nei decenni scorsi, ma sarà quella di spingere la sinistra   −  in Israele, nel Vicino Oriente e nel più grande mondo − a ritrovare se stessa. Non sarà che, per caso, dovremo cambiare denominazione e chiamarci “Sinistra per la Sinistra”?

Bruno Segre

Riportiamo infine l’interessante contributo di Enrico Fink

Mi permetto di intervenire anche se sono da sempre quasi del tutto assente dalla vita attiva di questo gruppo; più un “lurker”, come si dice, che altro, ma un lurker che segue e legge sempre avidamente tutto quanto.

La polemica che vedo fiorire in questi giorni un po’ mi rincuora perché mostra ancora una volta quanto questi temi siano urgenti per molti di noi, ma anche ovviamente mi preoccupa. Ho avuto qualche settimana fa anche una brutta esperienza sul sito facebook “progressisti per israele” che colgo l’occasione per chiedere, è gestito da SPI? Non ci entro, ma anche lì ho notato un astio e un modo di relazionarsi che mi inquieta.

Trovo interessanti e costruttivi tutti gli interventi e le varie bozze proposte, ma manca ancora secondo me l’espressione chiara di ciò che ci distingue da i vari IC tanto presenti sul web. Ed è importante forse dirselo oggi, che ci ritroviamo spaccati e rancorosi, importante ricordarsi chi siamo, anche al di là dell’intervento nei confronti dell’archivio in questione.

Mi spiego. Non basta dire, come pur bene scrive Gabriele, che stare dalla parte dei palestinesi o di Israele sono entrambi posizioni giuste e legittime. Bisogna dire che se abbracciate correttamente e onestamente, le due cause sono una. Nella mia esperienza di discussione pubblica sui nostri temi, ho sempre trovato vincente far capire alla parte “avversa” che, in questo caso, avevano di fronte qualcuno di non nemico, ma potenzialmente alleato. Quello che ci caratterizza come “sinistra per Israele”, al di là delle amare considerazioni che qui abbiamo tutti letto, è che tutti quanti crediamo che – praticabilli i due popoli due stati o meno, per adesso – non ci sia comunque prospettiva positiva possibile per una parte se non anche per l’altra, contemporaneamente. Che, per quanto faccia sorridere oggi dirlo, non si possa veramente e onestamente essere filopalestinesi senza al contempo essere anche filoisraeliani, e viceversa. Nel vero senso di quelle parole. È chiaro che è un discorso utopistico, ma è ciò che ci motiva e ci rende non solo diversi, ma necessari. Se ci rivolgiamo a un ente di sinistra, io do per scontato che gli ideali che lo animano sono, potenzialmente, anche i nostri; ma stanno sbagliando metodo, visione politica, strategia. Questo gli dovremmo spiegare. Caro archivio del mondo operaio, siamo ANCHE NOI dalla parte dei palestinesi, oltre che degli israeliani. Ma voi, siete sicuri che perdurare in una critica violenta becera e “sgangherata”, per citare Bruno, sia una strada che porta da qualche parte? Non vedete che condannate voi stessi e chi vi segue all’abbraccio mortale con chi in realtà desidera l’annientamento dell’altro? Con la destra, alla fin fine? Da voi, che siete sensibili alla causa dei palestinesi, pretendiamo intelligenza politica, onestà intellettuale, perché la vostra causa lo merita. Ne abbiamo bisogno tutti. Falsità come quelle della Maurer sono un contributo negativo a qualunque prospettiva di pace. Venite dalla nostra parte, compagni, e abbracciate la complessità del tema Israele/Palestina. Se chi come voi appoggia il movimento palestinese non farà questo sforzo, sarete complici di chi mantiene da decenni la situazione così com’è, e specula sulla pelle dei palestinesi ai quali vi rivolgete. Noi già da tempo siamo fra quelli che, fra chi ama Israele, rifiutano soluzioni unilaterali e aggressive. Siamo piccoli, quasi inesistenti, ma ancora oggi non si vede una soluzione di pace che non passi per una visione come la nostra. Abbiamo bisogno di voi.

Questo secondo me il messaggio che dovremmo cercare di portare in situazioni come queste. Questo il senso del nostro agire. Non ci spacchiamo lungo linee di polemica e divisione personale.

Enrico Fink

by

From Peace to Separation

Shaul Arieli Expert on the Israeli-Palestinian conflict

“We are not seeking a happy marriage with the Palestinians, but a fair divorce – And this is what the TwoStates solution is about”
Amos Oz on J-Street Convention in 2012
Amos Oz speaks on the opening night of J Street 2012: Making History [Conference]


The Israeli Peace Camp was never homogeneous; rather, it was an ecosystem of countless organizations and initiatives that focused on different issues and forms of action, bound by their shared ambition to promote a peace agreement between Israelis and Palestinians including the establishment of a Palestinian state alongside Israel. With the Peace Camp’s retreat from politics back to the realm of civil society, the controversies and divisions between the various actors resurfaced, making it difficult for them to speak in a united voice and collaborate effectively. In his essay “Give Separation A Chance,” Dr. Shaul Arieli describes how the dissolution of the peace paradigm of the 1990s led to the disintegration of the peace camp into groups that pull in different, and at times, contradictory directions. According to Arieli, there is, however, one thread uniting most of the different actors, namely a shift in their objective from promoting peace to advocating for physical separation from the Palestinians in the West Bank. Arieli writes:
“Mutual distrust, the stalled negotiations, Europe’s weakness in the face of a growing right wing, civil wars in the Arab world and Trump’s leadership have combined to drive an ideological shift in the Israeli “peace camp”: from seeking a peace agreement, to bilateral or unilateral separation from the Palestinians in the West Bank”
Thus, despite the ostensible continuity in the declared objectives of the civil society organizations that have worked to advocate for the two-states solution over the past decades, a profound shift has occurred. While in the 1990s the promotion of the two-state solution was framed as part of a utopian, or at least positive vision that included transforming a negative situation of ongoing violent conflict into a positive situation of peace, today, the main messages are mainly negative in nature and draw on the necessity of preventing a dystopian scenario, e.g. potential escalation of the conflict, the undermining of Israeli democracy, losing the Jewish majority in the country as a result of annexing territories, or international pressure (in the pre-Trump era). Psychologically, the difference between the two framings is huge, if to follow Amos Oz’s metaphor, comparable to the difference between reaching into ones pockets when getting married versus spending money on a divorce lawyer. It is understandably less complex to rally support for the former than for the latter.
While in the 1990s the promotion of the two-state solution was framed as part of a Utopian vision, today, the key messages are negative and draw on the necessity of preventing a dystopian scenario
In his essay “Do Good Fences Make Good Neighbors?” Meron Rapoport argues that the promotion of the alarmist discourse in which the Palestinians are often depicted as a “monolithic threat” that needs to be put
behind a fence, has only served to further undermine the Israeli left and to consolidate the right-wing narrative. Rapoport writes:
“A fundamental tenet of the separation philosophy is that Israel cannot trust the Palestinians and must rely on itself. Therefore, the argument goes, Israel must strive to separate from the Palestinians as soon as possible, before they become a majority. […] Peddling this urgency has reinforced the belief among JewishIsraelis that, as the Palestinians cannot be trusted, there is no partner for an agreement. If indeed there is no partner for an agreement, maintaining the status quo appears to be the best alternative“
The negative discourse that portrays the Palestinians as a threat that must be disposed of not only harmed the cause of the two-state advocates, according to Rapoport, but also fueled the right-wing demonization campaign against the Palestinian population within Israel. The Zionist left’s doomsday scenario, according to Rapoport, in which equal rights might be granted to Palestinians who are branded as the ultimate “other” plays to the hands of the right and their intimidation-based discourse, while also dividing the Israeli centerleft camp around the question of the very legitimacy of cooperating with the Arab Joint List (and effectively impeding the option of forming a center-left government).
Controversial ‘Divorce the Palestinians’ Israeli Media Campaign Explained
The subsiding of the public debate around the conflict over the past decade has made room for the issue of Jewish-Arab relations within Israel to emerge as the new dividing line between left and right. This issue figured prominently in the series of election campaigns held during the past year. The rise of the Joint Arab List as a prominent political actor has transformed the Israeli Palestinians into a significant player in the parliamentary arena whereby it is practically impossible to establish an alternative government to that of Netanyahu without it. The right-wing slogan: “Bibi or Tibi” (referring to Arab-Muslim MK Ahmad Tibi) aimed precisely at the “Achilles’ heel” of the center parties, which were inundated with challenges from the press questioning the authenticity and viability of their pledge to pose an alternative to Netanyahu without collaborating with the Joint Arab List.
The leadership of the Israeli-Palestinian public is currently at a crossroads between investing in Jewish-Arab partnership, or the independent promotion of sectoral interests
The reluctance to support a partnership between the Arab parties and the Zionist center-left parties is, however, not only the legacy of the latter. As Ravit Hecht points out in her essay, many Palestinian Israelis who now choose to define themselves through their Palestinian identity, prefer right-wing rule in Israel over the Zionist left, which they believe wronged their ancestors more severely than the Israeli right.
In his essay “(Im)possible Alliance,” the poet Marzouk Alhalabi reviews the key developments in the relationship between the Zionist left and the Palestinian public in Israel and concludes that the latter, which was subjected to intensive de-legitimization in the two decades since the events of October 2000 will not be waiting for the Zionist left parties’ stamp of approval, especially given their waning influence in Israeli politics. According to Alhalabi, the leadership of the Israeli-Palestinian public is currently at a crossroads between investing in Jewish-Arab partnership, or the independent promotion of sectoral interests, after the fashion of other parties in the Israeli parliament, while renouncing their automatic affiliation with the Zionist left.

by

The Crisis of the Zionist Left

Oz Aruch

Head of the German-Israeli Dialog Program at the Heinrich Böll Stiftung

Over a period of one and a half years, extending over all of 2019 and half of 2020, the Israeli political system underwent unprecedented turmoil. It took a grand total of three consecutive election campaigns and one global health crisis to bring about the formation of a national government. Electoral trench warfare was waged between the Likud party, led by longstanding Prime Minister Netanyahu, and the “Blue and White” list, headed by former general and political novice Benny Ganz, both of whom had failed to rally the parliamentary majority needed to form a government on their own. Eventually, the Covid-19 epidemic and the ensuing economic crisis offered the necessary boost and cover for the formation of a broad government joining Netanyahu’s right-wing bloc (comprising Likud and the Ultra-Orthodox parties) with the Blue-andWhite and Labor parties.
Acceding to collaboration with Netanyahu despite having vowed against it for three consecutive election campaigns, Blue-and-White and Labor justified the concession by depicting the new government as an “emergency unity government,” the merging of two rival political camps in the country, willing to put aside their ideological differences to tackle the spiraling health, economic and political crises ailing the country.
In his statement of intent as he led the Labor Party into the newly formed unity government despite having publicly shaved his iconic moustache (so that the viewers can “read his lips”) in a dramatic oath never to again join a Netanyahu-led government, Amir Peretz proclaimed:
“We are joining a unity government as equal members; the Labor Party is returning to the national leadership. In a national, health and economic emergency, we have decided again to be on the side that acts to fulfil our social-democratic worldview, to stand again at the center of the political stage, and to restore the Labor Party to an important, significant and influential position of influence on Israeli government policy.”
The Labor Party chair’s reference to the “equal membership” in the new government, might create the impression that it was formed by the two rival ideological camps in Israel, i.e. between the right-wing and left-wing camps, and that the Labor Party, which for decades following the establishment of the state led the Israeli left-wing camp, played a significant role in the process, as was the case in all previous unity governments in Israel. However, this depiction could not be further from the truth. The 18-month long election campaign, as well as the various coalition talks and the establishment of the alleged “unity and emergency” government were not part of a process that took place between the Israeli right-wing and leftwing camps, but between Netanyahu’s right-wing bloc on the one hand, and a mix of parties that consider themselves center-right, and whose leaders made sure to declare at every opportunity that they did not belong to the left-wing and/or represent leftist ideas.
For the first time since the establishment of the State of Israel, the declared parties of the Zionist left, namely Labor and Meretz have been swinging at the electoral threshold, viewing the political goings-on from the sidelines, devoid of political support and influence. These two parties, which in the 1992 elections won 44 seats (Labor) and 12 seats (Meretz), together representing 47% of Israeli voters, during the last round of elections scraped by with a mere six seats, representing roughly 5% of the vote. By leading his small party, represented by just three seats, into the right-center “unity” government (in turn also precipitating a split from the Meretz Party), Labor Party Chairman Amir Peretz might have very well signed the death warrant for the main political platform of the Zionist left.
For the first time since the establishment of the State of Israel, the declared parties of the Zionist left have been swinging at the electoral threshold, viewing the political goings-on from the sidelines
The virtual absence of the Zionist leftist parties from one of the most dramatic and polarized political campaigns in the history of the country was not a function of some refreshing ideological breeze offered by Blue-and-White, or a more accurate representation of a conceptual alternative to the decade-long right-wing rule under Netanyahu. Rather, Blue-and-White, which rose to prominence thanks to left-wing voters and alleged to offer the only alternative to Netanyahu and Likud, announced day and night that it was not leftwing and refrained from conveying any messages that could be construed as “leftist” or even as an ideological break from the right-wing agenda of the past years effectively leading to the erasure of the Zionist left’s traditional positions from the public discourse.
Instead of offering a clear alternative to the right-wing, Blue-and-White seemed rather to communicate to their potential voters that they had no significant ideological disagreements with the governing Likud, only that contrary to the latter, their representatives were not tainted with corruption. Thus, on a range of key political issues that have tended to delineate the divide between the right-wing and left-wing camps in the country in recent decades, especially on issues of foreign and security policy and the future of the IsraeliPalestinian conflict, it was difficult to identify any significant differences between the agendas of Likud and Blue-and-White. Furthermore, the political platform that purported to represent an alternative to the Israeli right also featured prominent right-wingers who had defected to Blue-and-White from Likud (for various reasons, ideological differences or disillusionment of the right-wing agenda not among them) who supported the expansion of Jewish settlements in the West Bank.
Blue-and-White seemed to communicate that they had no significant ideological disagreements with the governing Likud, only that contrary to the latter, their representatives were not tainted with corruption
Finally, the fact that Blue-and-White and Labor, that for three consecutive election campaigns claimed to present a political alternative to the right, agreed to include a clause in the coalition agreement that sanctioned the annexation of parts of the West Bank to Israel as of July 2020, exemplifies the fundamental change in the composition of the Israeli parliament. For the first time in decades, the Knesset is no longer divided between a left-wing camp that supports the advancement of the peace process and the right, which objects to it. The decision of the Labor Party, once at the helm of the Zionist left and the peace camp, to join this government, even signing a waiver relinquishing the right to object to any legislation relating to the annexation of parts of the West Bank, is tantamount to an admission of guilt and a concession of defeat.
How did the Israeli Zionist left parties, and most notably the Labor Party, which established the state and ruled it unchallenged until 1977, reach the brink of extinction? And how can one account for the fact that the nearly complete departure of the Zionist-left parties from the political stage took place, of all times, at one of the most critical junctures in Israeli history, when the status quo regarding some of the most fundamental tenets defining Israeli public life, including the rule of law, Israel’s character as a Jewish and democratic state, and the future of the Israeli-Palestinian conflict, was being called into question?

by

Ogni cosa è più illuminata

Esther Safran Foer ha continuato il viaggio del libro del figlio Jonathan. Alla ricerca di un altro pezzo di memoria per non dimenticare l’orrore nazista: “Il nostro non è un ricordare un fatto accaduto tempo fa, ma riviverlo come un inizio rivolto al domani”

Susanna Nirenstein, La Repubblica , 29 Maggio 2020

«Zachor», Ricorda! Le ingiunzioni della Bibbia ebraica sono incondizionate: il verbo zakhar, ribadiva il grande Yosef Haym Yerushalmi, ricorre 169 volte nella Torah, un baluardo contro l’inesorabile erosione della memoria per un popolo disperso e sottoposto a miriadi di persecuzioni e massacri.



La famiglia Safran Foer è un monumento alla lotta contro l’oblio: se Jonathan ha scritto Ogni cosa è illuminata, tradotto in 36 lingue dopo essere andato a ricercare le tracce dello shtetl di Trochenbrod nell’Ucraina occidentale dove la famiglia di suo padre fu sterminata dai nazisti, adesso anche la madre Esther, figlia di genitori miracolosamente sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, ha dato alle stampe un libro, Voglio sappiate che ci siamo ancora (Guanda).

È un memoir sulla sua vita iniziata nel 1946 nell’ex ghetto di Lodz, proseguita per più di due anni in un campo profughi in Germania (dove arrivò nel doppiofondo di un camion per sfuggire alle guardie russe di frontiera), approdata infine in America. Ed è un libro sulle infinite ricerche fatte per ricostruire il passato di sua madre e suo padre e sull’assassinio dei loro congiunti.

Esther Safran Foer colleziona fotografie, lettere, documenti, ricerche, mappe, genealogie, dati dello Yad vaShem (il museo della Shoah di Gerusalemme), dell’Holocaust Memorial di Washington, pareri di investigatori, di agenti dell’Fbi, vasetti di terra raccolta in posti significativi, così come suo figlio Jonathan attaccava alla parete di camera sacchettini di plastica contenenti tessere di oggetti, fatti, ricordi relativi ai suoi famigliari.

Cresciuta tra i silenzi di sua madre e il suicidio – quando aveva otto anni – di suo padre, ha dovuto ricomporre un sensibilissimo puzzle. Nel 2016 ha rotto ogni indugio, ed è andata insieme al figlio Frank in Ucraina, a individuare la famiglia che aveva salvato suo padre, a scovare finalmente i nomi della prima moglie del babbo, Tzipora, e della loro figlia, Asya ambedue falcidiate dalle Einsatzgruppen. La contattiamo per skype.

Mrs Foer, lei riempie la casa di scaglie di ricordi sensibili. La memoria è una sua parte fondante, perché?
«Ho ereditato tutto il passato di due sopravvissuti, dovevo passarlo ai miei tre figli e sei nipoti, perché sappiano da dove veniamo».

Perché nell’ebraismo la memoria è così importante?
«Il nostro modo di ricordare, quando ogni anno leggiamo l’Hagaddah di Pasqua sulla fine della schiavitù in Egitto, non è imparare un fatto accaduto tanto tempo fa ma riviverlo come se a uscire dalle mani del faraone fossimo noi stessi, per la nostra libertà. La nostra memoria è un inizio rivolto al domani».

Sua madre non raccontava molto. Si è data una spiegazione di quei silenzi?
«Un po’ parlava. Per esempio raccontava sempre del giorno in cui, con i tedeschi alle porte, aveva lasciato il villaggio, senza nemmeno salutare sua mamma. Rammentava come sua sorella l’aveva inseguita portandole un paio di scarpe, e di come lei ne avesse quasi subito persa una. Io non volevo porre tante domande, sapevo che il mio ruolo era di portare gioia. Raccoglievo i suoi frammenti: schegge di memoria. Persone incontrate in Israele, Brasile, Usa mi raccontarono come lei e l’amica con cui fuggì in Russia, Uzbekistan, Kazakistan avessero vissuto dormendo nei cascinali, nascondendo le patate nelle mutande, risparmiando anche pochi chicchi di riso per il giorno dopo. Lei invece cercava di non volgersi troppo indietro, verso i suoi sensi di colpa. Poi mio figlio Frank per l’esame finale del college le fece un’intervista, lì cominciammo a ricomporre il quadro. Ma c’è voluta una vita intera per saperne di più».

Quando aveva quarant’anni sua madre le disse che suo padre nello shtetl aveva avuto una prima moglie e una figlia uccise dai nazisti. Cosa cambiò in lei?
«Fu uno shock. C’era stata un’altra famiglia. C’era stato un altro bambino, mia sorella. Ho fatto mille ricerche, non riuscivo a trovare nulla. È stato un miracolo che poi in Ucraina, a Kolki, abbia incontrato dei testimoni ancora vivi che rammentavano molto».

Come si sono salvati i suoi genitori?
«La mamma, con l’avvicinarsi dei tedeschi ebbe l’istinto di scappare. Era giugno, ma prese un cappotto e un paio di forbici, se le cacciò in borsa e seguì con altre cinque amiche l’esercito russo che si ritirava. Si dovettero separare ma sopravvissero tutte. Mio padre invece è morto suicida quando avevo otto anni, non ho potuto chiedergli nulla. Sapevo che viveva nel ghetto e che i tedeschi lo usavano come operaio: il giorno dell’Aktion che eliminò tutti gli abitanti, lui era stato mandato fuori a riparare qualcosa. Quando tornò voleva togliersi la vita. Qualcuno lo convinse a nascondersi. Ho una foto della famiglia che l’ha salvato, è la stessa fotografia che prima Jonathan, poi io, abbiamo portato con noi in Ucraina per saperne di più».

Pensa che il viaggio di suo figlio Jonathan a Trochenbrod le abbia aperto una strada, o di averlo spinto lei in Ucraina con la sua fame di notizie. Chi ha influenzato chi?
«C’erano cose che non ero pronta a fare e sulle quali indirizzavo i miei figli. Frank a intervistare la nonna, Jonathan ad andare a Trochenbrod. Ne nacque il romanzo, il film. Capii che il viaggio che desideravo era possibile».

Come ha commentato Jonathan il suo libro?
«Non gliel’ho fatto vedere finché non era quasi finito. Poi mi ha ringraziato per come ho perpetuato i nomi della nostra famiglia, per come stavo passando tutto quello che era successo alla generazione futura».

Quando si è trovata davanti alle due fosse comuni dove erano stati uccisi i suoi parenti in Ucraina, lei e suo figlio Frank avete lasciato sotto terra e infilata tra i sassi una fotografia della sua famiglia al completo, figli, nuore, nipoti. Perché?
«Volevo dirgli “sappiate che ci siamo ancora”, restiamo qui con voi, e voi con noi, non vi dimenticheremo».


Il libro
Voglio sappiate che ci siamo ancora di Esther Safran Foer (Guanda, pagg. 288, euro 17,10)

by

ISRAELE: UN NUOVO GOVERNO PER TUTTE LE EMERGENZE

La crisi politica più lunga della storia d’Israele si è risolta con l’insediamento di un nuovo governo di emergenza nazionale. Ma oltre al coronavirus, quali sono gli altri obiettivi del nuovo esecutivo?

ISPI 18 Maggio 2020

Comincia con un ritardo di tre giorni sul previsto, la staffetta di governo tra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz. Il nuovo governo israeliano di emergenza nazionale – il primo dopo oltre un anno di stallo e tre elezioni andate a vuoto – sarà guidato per i primi 18 mesi dall’ex premier e per i secondi 18 dall’ex capo di stato maggiore, oggi leader di quel che resta dell’alleanza Blu e Bianco. Si tratta dell’esecutivo più numeroso della storia del paese36 ministri e 16 vice che hanno giurato ieri davanti alla Knesset dopo un ritardo causato dalla sollevazione di alcuni membri ‘anziani’ del Likud, il partito di centro-destra di Netanyahu, che non avevano ricevuto incarichi di governo. In base all’intesa, Netanyahu assumerà la guida del paese per un anno e mezzo, mentre l’ex rivale Gantz, che ora assume la poltrona di ministro della Difesa e di vicepremier, gli succederà nel novembre 2021.

Staffetta contro il coronavirus?
Dopo oltre 500 giorni di impasse e tre tornate elettorali, i 120 deputati della Knesset hanno approvato un governo per i prossimi 3 anni, guidato ‘a staffetta’ da Netanyahu e Gantz. Il parlamento ha approvato l’esecutivo con 73 voti a favore e 49 contrari dopo oltre due mesi di consultazioni. Ad allungare i tempi è stata la volontà di Netanyahu, primo ministro più longevo della storia d’Israele, nel rifiutarsi di fare un passo indietro malgrado sia imputato per corruzione. Gantz ha sempre detto di non voler governare con lui, ma quando ha accettato di farlo – anche a causa dell’emergenza coronavirus – ha perso la metà dei deputati del suo partito. L’ex numero due di Blu e Bianco, Yair Lapid, è ora all’opposizione e ha più volte attaccato il nuovo governo affermando che gli israeliani “meritano di meglio”. L’attuale esecutivo sarà chiamato a far fronte alla crisi economica determinata dall’epidemia di coronavirus, che in Israele ha contagiato almeno 16.500 persone e ne ha uccise 268.
…o contro la magistratura?
Il processo contro Netanyahu, imputato per corruzione, si apre il prossimo 24 maggio. La Corte Suprema israeliana ha stabilito che ciò non gli impedisce legalmente di governare. Sebbene esista una legge che impedisce ai ministri israeliani di rimanere in carica se imputati, tale dispositivo non esiste nel caso del primo ministro. Netanyahu è inquisito per frode e corruzione in tre diversi procedimenti a suo carico. La prima udienza era prevista per il 17 marzo, ma è stata rinviata alla prossima settimana a causa dell’emergenza coronavirus. Il rischio di una condanna in tribunale non è cancellato, ma fortemente indebolito: in base all’accordo di governo infatti, il Likud – e nella fattispecie Netanyahu – può nominare tutti o buona parte dei rappresentanti della Commissione delle nomine giudiziarie. Questo fungerebbe da garanzia politica anche per il futuro, visto che nel maggio 2021 il mandato di Rivlin scadrà e non è impensabile ipotizzare che l’interesse di Netanyahu verta proprio sulla carica presidenziale. Benché rivesta un ruolo cerimoniale e simbolico, il presidente della Repubblica gode dell’immunità dai processi.
Pronti all’annessione?
Oltre a rispondere agli effetti della pandemia e allontanare dal premier dal lungo braccio della giustizia, il nuovo governo ha anche un terzo obiettivo immediato: l’annessione delle colonie e, successivamente, di migliaia di chilometri quadrati nella Valle del Giordano, il confine orientale della Cisgiordania, che dovrebbe un giorno costituire la base territoriale per un futuro stato palestinese. L’accordo di coalizione di Netanyahu con Gantz fissa al 1° luglio la data per iniziare il processo di annessione unilaterale delle colonie. Non è del tutto chiaro quante colonie il governo è intenzionato ad annettere. La Cisgiordania è sotto il controllo israeliano dalla guerra dei sei giorni del 1967, e sul suo territorio vivono oggi oltre 400.000 coloni israeliani in 128 insediamenti. Quello che è certo è che questi territori, illegali in base al diritto internazionale e il cui status giuridico è regolato dalle Convenzioni e dal diritto internazionali diventerebbero parte integrante di Israele e soggetti alle sue leggi.
Dagli Usa semaforo verde o giallo?
Il piano, uno dei cavalli di battaglia di Netanyahu, in linea con il ‘Piano di pace del Secolo’ presentato a fine gennaio da Donald Trump, contemplerebbe nel medio periodo – un’annessione unilaterale della Valle del Giordano da parte di Israele. Se l’Unione Europea ha già messo le mani avanti, indicando che un’azione simile “non è in linea con il diritto internazionale”, e che ci sarebbero delle “conseguenze sul piano diplomatico”, Egitto e Giordania hanno formalmente protestato contro un’azione che, di fatto, sancirebbe la fine della soluzione dei due Stati. In un’intervista a Der Spiegel, re Abdullah II di Giordania ha avvertito che se Israele procederà con il suo piano, entrerà in un conflitto politico e diplomatico con il regno e causerà “un terremoto politico” che potrebbe causare una nuova esplosione di violenza in tutta la regione. Ma inaspettatamente, un ritardo nei progetti di annessione di Tel Aviv potrebbe arrivare proprio da Washington: pochi giorni fa il segretario di Stato americano Mike Pompeo si è recato in visita in Israele e al termine dei colloqui con i vertici istituzionali ha usato parole caute per riferirsi alla questione. La cosa non è passata inosservata, e il New York Times ipotizza che il semaforo verde dell’amministrazione Trump potrebbe essere diventato giallo. Sulla questione pesano le incognite della scadenza elettorale di novembre negli Stati Uniti e il sostegno del presidente ad un’annessione de facto, a cui lo sfidante Joe Biden si è detto contrario, potrebbe non essere scontata. Già una volta, Washington aveva messo il freno a Netanyahu, quando a febbraio voleva procedere all’annessione della Valle del Giordano. Succederà di nuovo?
IL COMMENTO  
di Giuseppe Dentice, ISPI Associate Research Fellow
“Il nuovo governo israeliano nasce tra poche luci e diverse ombre. La principale certezza è data dalla formazione di un esecutivo di emergenza nei primi sei mesi (ufficialmente mirati a combattere la questione Covid-19) e nei successivi 30 atti a portare stabilità ad un paese che per oltre 500 giorni non ha avuto un governo. Quindi, comunque vada, Israele avrà un governo. Tuttavia questo capitolo apre una sequela lunghissima di incognite legate alle iniziative dei singoli leader e alla loro capacità di agire effettivamente per il bene del paese. In sostanza sono in tanti, anche all’interno del Likud, a pensare che un esecutivo come questo, nato più da un compromesso che non da volontà politiche condivise, possa presto cadere dietro alla scelta di Netanyahu – che di fatto gestisce tutto l’iter, uscendo più rafforzato che mai rispetto a Gantz – di disattendere gli accordi e rimanere al potere anche oltre il 2021. Solo i dossier legati ai problemi processuali del premier uscente e alla possibile annessione della Cisgiordania tout-court (le colonie ebraiche e, soprattutto, l’area riguardante la Valle del Giordano, la quale potrebbe essere annessa non prima del voto americano di novembre) potrebbero effettivamente produrre un quadro completamente stravolto che, almeno ad oggi, non si intravede, facendo piuttosto presagire una sensazione di saldezza di Netanyahu come di rado avuta nel recente passato”.
by

La pandemia dell’antisemitismo, le mutazioni dell’antisionismo

Gabriele Eschenazi Gariwo 12 maggio 2020

Cartelli con svastiche, accuse agli ebrei di essere i portatori del corona virus. L’estrema destra americana è scesa in piazza a fine aprile negli stati americani governati dai democratici per manifestare contro le restrizioni adottate per fermare la pandemia. E ancora una volta hanno trovato negli ebrei il loro principale bersaglio. È successo in Minnesota e in Illinois con attacchi frontali alla governatrice Gretchen Whitmar e al governatore J.B. Pritzker di origini ebraiche. Ma situazioni analoghe si sonno verificate anche in Wisconsin, Pennsylvania e Virginia.

Organizzazioni ebraiche come la JCPA (Jewish Council for Public Affairs) o l’Anti-Defamation League hanno subito fatto sentire la loro protesta, ma la prima reazione di Trump con uno dei suoi soliti tweet non è stata incoraggiante: “Questa è bravissima gente, ma sono arrabbiati. Li vedremo, gli parleremo, faremo un patto”. Poi a correggere il tiro ci ha pensato Elan Carr, inviato speciale del Dipartimento di Stato per la lotta all’antisemitismo: “Il mio ufficio sta rilevando nel mondo, soprattutto nei social media, uno tsunami di antisemitismo legato alla pandemia e alla crisi economica” ha detto.

Contro il virus delle teorie cospirative non è mai stato trovato un vero e proprio vaccino. E anche oggi al tempo del Covid-19 questo virus ha cominciato a diffondersi rimettendo nel mirino gli ebrei come da tradizione e non solo negli Usa. Ne parla il Centro Wiesenthal con un saggio specifico curato da Harold Brackman. Agli ebrei e Israele vengono attribuiti sia la colpa di aver creato il Covid-19, sia quella di volerlo sfruttare per propri fini o economici o politici. Le fonti delle accuse sono gli ambienti dell’estrema destra e del fanatismo islamico. Diversi sono gli episodi enumerati dal Centro Wiesenthal. Tra questi: l’Iran che accusa Usa e Israele di voler lanciare una guerra mondiale batteriologica, la tv irachena Al-Ayam che attribuisce ai Rothschild la responsabilità del virus così come lo sarebbero stati delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il gruppo di ricerca Louis Farrakhan che ipotizza che Israele abbia inventato il virus per poi fare i soldi con il vaccino. Non mancano, come riporta la CNN, le inevitabili accuse a Soros lanciate da Michael Caputo, attuale portavoce del Dipartimento della Salute americano, che prima della sua nomina aveva affermato che l’agenda politica di Soros richiede una pandemia. Anche il professor Yehuda Bauer sulle colonne del quotidiano Haaretz ha lanciato l’allarme per un antisemitismo che si nutre sempre degli stessi stereotipi e fa l’esempio di Assad al-Azzouni, un noto scrittore giordano, secondo il quale il Corona virus può essere solo il prodotto dell’odio che gli ebrei spargono nel mondo e una ricompensa a Trump per aiutarlo a farsi rieleggere. Le calunnie antisemite non fanno alcuna differenza tra comunità ebraiche della diaspora e Stato d’Israele. In questo contesto antisemitismo, antisionismo e anti-israelianismo si sovrappongono e affondano le loro radici in un odio millenario mai sopito. Tuttavia nella vasta casistica del fenomeno dell’antisemitismo c’è chi fa dei netti distinguo tra l’odio verso l’ebreo e quello verso il sionista. La definizione di quest’ultimo termine si presta a diverse interpretazioni soprattutto se disgiunte dal suo autentico significato storico.

Per chiarire i termini della questione non rimane che analizzarla su due piani differenti: quello storico e quello legato invece all’attualità dello Stato d’Israele, vittima di una crisi politico-ideologica senza precedenti nella sua pur breve e intensa storia.

Sappiamo quanto sia ancora forte oggi in Europa la memoria della Shoah e quanto questa susciti sentimenti positivi e negativi nello stesso tempo e quanto spessa essa si leghi a Israele. Così se una svastica accompagna su un muro il termine Juden e invece in un altro il termine Israele non possiamo fare a meno di pensare che si tratti di manifestazioni di antisemitismo in entrambi i casi e che le radici di questi episodi siano di fatto le stesse: un odio profondo verso gli ebrei come individui e come comunità collettiva.

Per sfuggire a questo odio non sono bastate nella storia assimilazione, isolamento, emigrazione, integrazione. Poi alla fine del ‘900 in seno agli ebrei europei si è fatta strada l’idea di dare una definizione nazionale dell’ebraismo, che superasse la tradizione e la religione, collanti secolari dell’identità ebraica. Quest’idea ispirata anche dal Risorgimento Italiano prese il nome di sionismo e si concretizzò in un movimento politico sancito dal primo congresso sionista convocato a Basilea dal 29 al 31 agosto del 1897. Il progetto di uno Stato ebraico era la possibilità di offrire agli ebrei, religiosi e atei, un contesto nel quale poter essere padroni del proprio destino. Alla domanda sul significato del sionismo il filosofo Yeshayau Leibowitz soleva sempre rispondere: “Gli ebrei hanno costituito lo stato d’Israele perché stufi di essere governati da altri”. Questa legittima aspirazione nazionale, riconosciuta sul piano internazionale prima dalla Dichiarazione Balfour del 1917 e poi trent’anni dopo da una risoluzione dell’ONU, è diventata bersaglio di una nuova forma di antisemitismo: l’antisionismo, cioè la negazione al popolo ebraico del diritto di autodeterminarsi. E si è trattato di uno sviluppo simultaneo. Il “complotto sionista” è diventato sinonimo di “complotto giudaico”: uno Stato ebraico pensato non per autodeterminarsi, ma per governare il mondo come avevano raccontato nel 1903 I Protocolli dei Savi di Sion e successivamente anche Hitler nel Mein Kampf, che attribuì agli ebrei anche la colpa del bolscevismo.

Successivamente i regimi comunisti dell’Est europeo nel dopoguerra perseguitarono i propri cittadini ebrei accusandoli di sionismo per emarginarli non solo quando manifestavano la volontà di emigrare in Israele. Definire un ebreo sionista bastava per poterlo perseguitare pensando di neutralizzare così l’accusa di antisemitismo.

Ai denigratori del sionismo si aggiunse pure l’ONU, che pure aveva fatto nascere lo Stato d’Israele. Avvenne il 10 novembre 1975 con la risoluzione ONU che definì il sionismo «una forma di razzismo e di discriminazione razziale»: un tentativo per delegittimare lo stato d’Israele. Questa risoluzione fu poi ritirata nel 1991 prima della conferenza di Madrid sul Medio Oriente.

Antisionista per principio è stato a lungo anche il mondo cattolico, tanto che solo nel dicembre 1993 il Vaticano riconobbe lo Stato d’Israele.

Nel tempo, e oggi sempre di più, l’esercitazione del diritto di autodeterminazione è diventato la garanzia della continuità dell’esistenza ebraica. Oggi, infatti, nel mondo quasi il 50% degli ebrei, che si riconoscono come tali, risiede in Israele. Il suo sviluppo economico e demografico è stato tale che oggi pare davvero un’assurdità che esista ancora chi ne metta in dubbio l’esistenza. Come afferma lo storico ebreo francese Georges Bensoussan (Una città 11/2004): “Il sionismo è una rivoluzione intellettuale e chi afferma che lo Stato d’Israele, oggigiorno, nell’Europa democratica e dei diritti dell’uomo, non ha più alcuna giustificazione, non ha capito nulla del sionismo. Non è la Shoah l’origine della nascita dello Stato d’Israele. Anche senza Shoah oggi esisterebbe lo stato israeliano. Anche in questo caso si parte da un’idea falsa degli ebrei, considerati tali solo dal punto di vista strettamente religioso. Si continua a non rendersi conto che gli ebrei, oltre a essere una religione, sono anche un popolo”.

Gli antisionisti vedono nella nascita d’Israele una sorta di “peccato originale”, la causa prima del conflitto arabo/palestinese/israeliano. Questa è stata a lungo la posizione anche di tutto il mondo arabo, che a lungo ha considerato Israele, uno stato coloniale fondato da europei estranei al Medio Oriente. L’odio verso Israele e il sionismo è stato traslato nelle moschee e ha assunto connotati religiosi sempre più estremi. I trattati di pace con Egitto e Giordania e gli accordi di Oslo non hanno contribuito, come ci si sarebbe potuto aspettare, a cambiare presso le popolazioni arabe la percezione negativa di Israele, del sionismo e degli ebrei in generale fatte salve alcune eccezioni come, per esempio, il Marocco e gli Emirati Arabi.

Che gli antisionisti non siano semplicemente coloro che criticano la politica dei governi israeliani ha cercato di spiegarlo sul quotidiano Haaretz Dan Miron, professore emerito di letteratura ebraica all’Università di Gerusalemme. Secondo Miron negli Usa chi dichiarandosi antisionista si oppone solo alla politica dei governi israeliani è definito con disprezzo “rosa”. “Alla base dell’antisionismo intellettuale al quale mi riferisco c’è, molto semplicemente, la richiesta di annullare l’esistenza dello Stato d’Israele”, dice il professore, che approva senza riserve la decisione del Parlamento Francese. “Macron e anche altri parlamenti europei hanno capito che l’antisionismo per principio non è semplicemente anti-israelianismo, ma è una delle forme dell’antisemitismo contemporaneo”.

La presa di posizione francese mira a togliere terreno sotto i piedi del movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) così come ha già fatto il parlamento tedesco e si è proposto di fare quello austriaco. I fautori del boicottaggio generalizzato d’Israele e dei suo cittadini non potranno più essere equiparati nei finanziamenti a organizzazioni no profit.

Se da una parte sembra inevitabile constatare che esista una sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo nell’opinione pubblica mondiale, dall’altra non si può ignorare come nello stesso mondo ebraico e israeliano il sionismo sia oggetto di negazione e strumentalizzazione. Ancora oggi i partiti religiosi ortodossi, Shas e Yaadut Hatorà, si considerano “non sionisti” così come ovviamente i partiti arabi uniti nella Reshimà Hameshutefet, orientata però ultimamente più verso la condivisione che non la contrapposizione. Di fatto oltre il 20% della Knesset (parlamento israeliano) è composto da non sionisti, da coloro cioè che non si riconoscono nel sionismo l’ideologia fondante dello Stato, che d’altra parte è fortemente strumentalizzata dal Likud e dalla galassia dei partiti di destra. Un esempio su tutti è la “Legge della Nazione”, che ribadisce l’esclusività ebraica nell’identità dello Stato d’Israele, peraltro già definita dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Il testo di quest’ultima sancisce da una parte che “Lo Stato d’Israele sarà aperto all’immigrazione di ebrei da tutti i Paesi della loro dispersione” e dall’altra che “Lo Stato promuoverà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti; si baserà sui precetti della libertà, della giustizia e della pace insegnata dal Profeti ebraici; rispetterà la piena uguaglianza sociale e politica di tutti i suoi cittadini, senza distinzione di razza, credo o sesso”. Uno Stato ebraico e democratico come ha sempre cercato di essere dalla sua fondazione. Ma oggi sembra che “ebraico e democratico” siano due definizioni sempre più difficili da tenere insieme tanto che invece di essere complementari stanno diventando sempre più alternative – e questo lo si deve soprattutto alla persistente occupazione dei territori conquistati dall’esercito israeliano nel 1967 e dove vivono tre milioni di palestinesi e 700mila ebrei israeliani. La soluzione due Stati per due popoli, oggi lontana, prevede uno Stato ebraico e uno Stato palestinese, ma se lo Stato diventasse definitivamente unico non potrebbe che essere democratico ed ebraico/palestinese. Il disegno del sionismo originario sarebbe stravolto e a condurre a questo risultato sarebbe proprio la destra nazionalista israeliana. Oggi dunque essere sionista o filosionista significa sempre più schierarsi contro la politica di Netanyahu e contro l’annessione dei territori, che potrebbe a breve diventare in parte realtà con l’appoggio di Donald Trump e del nuovo alleato Benny Ganz.

Schierarsi contro il populismo e il nazionalismo israeliano non significa essere antisionisti né tanto meno antisemiti, ma esattamente il contrario. E non è un caso che la destra nazionalista israeliana con Netanyahu in prima fila abbia interesse a definire antisemita chiunque critichi la loro ideologia e contemporaneamente chiuda gli occhi di fronte al risorgente antisemitismo di regimi populisti come quello di Viktor Orban in Ungheria o Jair Bolsonaro in Brasile.

Essere filoisraeliani e antisemiti nello stesso tempo è la loro paradossale strategia. E ad assecondarla c’è proprio Netanyahu anch’esso populista e nemico del sistema democratico.

Eppure se c’è una strategia perdente per il popolo ebraico è proprio quella di allontanarsi dall’idea che l’antisemitismo potrà essere limitato solo da chi rimane fedele ai valori democratici universali che difendono la libertà e l’identità di tutti allo stesso modo.

Analisi di Gabriele Eschenazi, giornalista

    Etiam magna arcu, ullamcorper ut pulvinar et, ornare sit amet ligula. Aliquam vitae bibendum lorem. Cras id dui lectus. Pellentesque nec felis tristique urna lacinia sollicitudin ac ac ex. Maecenas mattis faucibus condimentum. Curabitur imperdiet felis at est posuere bibendum. Sed quis nulla tellus.

    ADDRESS

    63739 street lorem ipsum City, Country

    PHONE

    +12 (0) 345 678 9

    EMAIL

    info@company.com