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David Grossman: “Non scrivo più da maschio” La lezione di un grande autore: “Soltanto l’empatia può salvarci”

Wlodek Goldkorn 25 Ottobre 2019 Repubblica

È come se fossi incinto: una sensazione di felicità che si ha quando ci si accorge che una nuova vita alberga in te e che questa vita sta per venire al mondo”. David Grossman inizia così, con una confessione al femminile, questa conversazione: per dire di essere pronto a scrivere un nuovo libro. E forse non è un caso. Intanto, perché nei romanzi dello scrittore israeliano le donne hanno un ruolo chiave. Sono madri che rifiutano la notizia della morte del figlio militare (A un cerbiatto somiglia il mio amore), cercano addirittura di cambiare il passato (Che tu sia per per me il coltello), riescono a riportare l’amore nel cuore di un uomo che del rancore ha fatto la ragione della sua vita (Applausi a scena vuota). A tutto questo torneremo nel corso di questa intervista, concessa in occasione dell’uscita in Italia (con Mondadori) di La vita gioca con me. Un libro, tradotto da Alessandra Shomroni, che racconta tre generazioni di donne: una nonna, una figlia, una nipote. Ma poi, parlare con la voce femminile riflette l’immaginario e i sogni degli israeliani oggi. Grossman, nato a Gerusalemme nel 1954, sei anni dopo la fondazione dello Stato degli ebrei quindi, è come una specie di barometro che indica il tempo e la qualità dell’aria che si respira. Guardandolo dritto negli occhi (che con molta rapidità alternano espressioni di gioia con altre di una profonda tristezza, ma prevale la gioia), ma anche leggendo i suoi romanzi e libri per bambini, si percepiscono i desideri nascosti, le paure non dette, l’inconscio collettivo di Israele. Oggi fra Tel Aviv e Gerusalemme c’è un’atmosfera di grande incertezza: dopo due elezioni politiche in pochi mesi non si riesce a costituire un governo, mentre l’intera regione attorno sta diventando un luogo più pericoloso che mai, tra guerre vere e minacciate.


Così si assiste a una specie di ritorno o forse al bisogno di recuperare gli inizi della saga di un Paese. Una saga dove si mescolano il racconto della volontà dei pionieri, forti e sicuri di sé, con la narrazione dei sopravvissuti alla Shoah, timorosi perfino di sognare perché la notte portava indicibili incubi. In questa riscoperta delle fonti, mitiche e mitologiche, le donne hanno un ruolo centrale. Sono forti, talvolta soldatesse, ragazze che parlano e ridono a voce alta, non sempre hanno i bisogni dei maschi, e quando occorre, sparano. Si sente perfino la nostalgia di Golda Meir, a capo del governo nei primi Settanta, per anni considerata un pessimo politico e oggi rivalutata, se non nella storiografia, nei sentimenti della gente. In questo ritorno alle origini c’è anche l’immagine delle donne distrutte nel corpo e anima nella catastrofe europea e che una volta approdate qui, hanno tentato una guarigione. Ecco, le tre donne dell’ultimo romanzo di David Grossman sono forti, seppure siano reduci di esperienze estreme in Europa. Hanno sfiorato, direttamente o attraverso il racconto famigliare, la morte, conosciuto il sapore del tradimento e dell’abbandono. Ma alla fine vince la vita. La vicenda si basa su una storia vera. La nonna di La vita gioca con me è stata partigiana con Tito in Jugoslavia, poi prigioniera a Goli Otok, un’isola che fu una specie di gulag nell’Adriatico, infine membro di un kibbutz in Galilea e militante di Donne in nero, un movimento di israeliane e palestinesi che si oppongono all’occupazione. Ed è anche una donna che dopo aver perso la famiglia nella tragedia del Vecchio Continente, nel kibbutz ne crea un’altra e ne diventa il capo, matriarca indiscussa e leader inflessibile.

Lei, Grossman, è entrato nei panni femminili. Racconta i sentimenti più intimi di tre donne. Non ha avuto paura?
“Scrivere come se fossi tre donne, una 90enne, una 65enne e la terza 40enne è stata una sfida. Uno degli sforzi più grandi era introiettare il linguaggio di ciascuna delle tre. E non solo la lingua ma le loro emozioni. Ho voluto fare l’esperimento di far vivere dentro di me donne sofisticate, forti, intelligenti. Io scrivo perché voglio dare la voce a qualcosa dentro di me che non riesco a esprimere in nessun altro modo. Dentro ognuno di noi ci sono tante opzioni che non mettiamo in atto nella nostra vita quotidiana. Potrei forse da un giorno all’altro cominciare a comportarmi da donna? Penso di no. Mi guarderebbero male. E poi sono convinto che ognuno di noi porti dentro tante identità per così dire pietrificate, congelate. Talvolta più che uno scrittore mi sento un massaggiatore. Massaggio e accarezzo certe parti per scongelarle”.

Diciamolo, lei è un maestro di empatia. Tanto che anche quando parla di sé lo fa attraverso i protagonisti dei suoi romanzi. Lei abita davvero i corpi e le anime delle persone cui dà la voce e immagine. Ma poi queste persone del tutto inventate quella voce gliela restituiscono, come se fosse vera. Già in “A un cerbiatto somiglia il mio amore” lei entra nella testa e nella pancia di Ora, una donna ribelle, che rifiutando una notizia cerca di rifiutare il linguaggio e il sistema.
“Ci ho messo due anni e mezzo per capirla. Non riuscivo a raccontarla. Poi, all’improvviso ho compreso. Il mio errore era un errore da maschio, volevo che Ora si concedesse a me. E invece dovevo essere io ad aprirmi a lei. Il personaggio di Ora ha qualcosa di unico. Non è classificabile. In una società polarizzata come è quella israeliana, lei è una donna che talvolta parla come se fosse di destra, altre come una militante della sinistra. Forse questa capacità di vivere la contraddizione nella propria carne è una caratteristica femminile. Non saprei”.

Lo è. E infatti lei è così bravo a vivere nei personaggi che inventa e crea, perché è conscio come pochi altri che il mondo non è bianco o nero. Ma vorrei insistere. In fondo, da maschio, non ha paura di questa intimità femminile?
“Paura? No. Guardi, in tutti gli ambiti della vita si può essere un po’ codardi, ad eccezione della letteratura. Se sei vigliacco non sarai mai capace di scoprire qualcosa di nuovo, di darti a qualcosa o qualcuno che non conosci ancora, o diventare appunto persona di un genere diverso del tuo. Faccio un esempio: Nina”.

Aiutiamo i lettori. Nina è la figlia di Vera, la nonna di “La vita gioca con me”. Vera l’ha abbandonata quando era bambina, per restare fedele alla memoria del marito accusato, sempre in Jugoslavia, di essere un traditore. Vera è una donna che ha scelto di andare in prigione, di finire ai lavori forzati, incurante delle conseguenze sulla figlia. E così Nina, traumatizzata, una volta diventata adulta non riesce a trovare da nessuna parte un suo posto. E finisce per fuggire verso l’estremo Nord dell’Europa.
“Finisce oltre il circolo polare, a Svalbard, il luogo più estremo sulla faccia della Terra. Ci sono andato due volte. Ero in un paesino abitato da duemila persone e, attorno, tremila orsi polari affamati, che qualche volta attaccano gli umani, per cui per strada devi camminare armato o accompagnato da qualcuno con il fucile. Una notte, ho camminato solo e disarmato dal bar dove avevo cercato la compagnia di qualche persona fino alla pensione dove abitavo. Volevo sentire la paura. Volevo provare le emozioni di Nina. E giuro, ho avvertito gli artigli dell’orso sulla mia schiena, nella mia carne. Lei mi ha chiesto se ho mai temuto a causa delle cose che racconto: non mi è concesso aver paura, anche perché parlo di donne in rivolta e che si rifiutano di dare allo Stato il diritto di gestire la morte dei loro cari”.

Viene in mente la vicenda di suo figlio Uri, morto da soldato nella guerra in Libano nel 2006.
“Sì, sono un padre che ha perso il figlio. E da quel giorno, il mio cognome è lutto (lo scrittore usa il termine ebraico riservato ai genitori che hanno perso figli, shkol, ndr), ma dentro quel cognome “shkol”, congelato, generico, quasi da cliché, posso rivendicare il mio diritto a un nome che non sia il cognome. Posso muovermi liberamente e non in ubbidienza alle definizioni che mi dà il governo, il lessico militare, l’esercito. Io posso continuare a scrivere le mie storie”.

Lei come le donne dei suoi romanzi si rifiuta di essere una vittima ma rivendica allo stesso tempo il diritto al dolore. Dice, nella vita e nei libri, che il lutto non esclude il desiderio.
“In questo romanzo racconto le protagoniste che si rifiutano di essere vittime e che cercano di guarire la ferita che passa di generazione in generazione. E forse alla fine sono capaci di provare un sentimento che assomiglia al perdono e alla pietas. Smettono di incolpare l’una l’altra”.

Questo nel romanzo. E nella vita vera?
“Sono sempre stato affascinato dalla questione di colpevolezza. Per me la scrittura è un modo per capire una colpa primaria, una colpa di cui qualche volta ero complice”.

Sta dicendo una cosa che aveva intuito Primo Levi, la vergogna è anche quella del testimone.
“La colpa e la vergogna del testimone non è la stessa del carnefice. Però spesso siamo colpevoli perché non abbiamo impedito che qualcosa succedesse, anche se potevamo farlo. In Applausi a scena vuota c’è la storia di Dovale e di come il suo amico ha girato lo sguardo altrove, mentre a lui stava succedendo una cosa terribile. Così, noi qui in Israele. Io vivo in un luogo dove da 52 anni c’è l’occupazione e uno dei sintomi della malattia di cui soffriamo è che ci siamo abituati a girare lo sguardo altrove. Dobbiamo invece costringerci a guardare. Aggiungo un’altra cosa riguardo al ruolo del testimone. Io, nella vita, cerco un testimone empatico e penso che ognuno abbia il diritto a un testimone appunto che lo guardi con benevolenza”.

La benevolenza può guarire la ferita?
“Sotto la cicatrice la ferita resta. Ma parlando – e questo fanno le donne, in fattispecie quelle che io racconto – la carne sotto la cicatrice si fa più flessibile, meno rigida”.

Un’altra donna che lei racconta è Miriam del “Che tu sia per me il coltello”. Il titolo richiama le lettere che Franz Kafka ha scritto a Milena Jesenska. Miriam si mette nei panni di Milena e dice: “Fossi in lei, sarei andata a casa di Franz, lo avrei costretto a guardarmi dritto negli occhi”. Sembra che Miriam voglia cambiare perfino il passato. È una follia la sua, una volta si sarebbe detto una follia tutta femminile. Per noi maschi il passato è passato, si va oltre. Miriam invece pensa di riaprire il rapporto fra Milena e Franz. Ma leggendo quelle righe, ho pensato che in fondo quella è anche una sua follia, Grossman.
“Forse sì (ride)”.

Per lei cosa sono le donne nella vita, non nei romanzi?
“Posso dire che ho imparato molto dalle donne, dalle amiche, e tantissimo da mia moglie. I miei due grandi amici sono maschi, ma vedere il mondo solo con gli occhi del genere cui appartengo è limitativo e stupido. Non tutte le donne sono coraggiose e ricche d’animo. Ma io ho avuto la fortuna di aver incontrato nella vita donne sensibili, sagge, dotate di senso critico che mi hanno insegnato cose su me stesso. Grazie a loro capisco di più chi sono. Le mie lettrici migliori sono donne. E poi, le donne hanno il coraggio di esporsi al testo, anche a un testo estremo. I maschi invece vogliono solo vincere, o superare se stessi: e del resto in ebraico vincere, superare se stessi e maschio sono parole che hanno la medesima radice”.

Ancora una domanda. La nipote della Vera del romanzo è cineasta. Ma alla fine (e non facciamo spoiler) lei suggerisce che la parola è più importante dell’immagine, che in fondo la parola resta, l’immagine invece è provvisoria e volatile.
“Ne sono convinto. Ma vorrei aggiungere poche frasi su come è nato il libro”.

Prego.
“Un giorno, mi chiamò al telefono Eva Nahir-Panic, questo è il vero nome di Vera, per criticare un mio articolo che secondo lei non era sufficientemente duro con i coloni nei Territori occupati. E cominciò a raccontarmi la sua vita. La sua storia era quella di una ragazza ebrea borghese in Jugoslavia, che sposò un ufficiale serbo di origini contadine e si unì assieme al marito ai partigiani. Ma poi il suo uomo venne arrestato e morì in una prigione di Tito e lei finì ai lavori forzati a Goli Otok. Ogni settimana mi chiamava. Mi chiedeva se avrei scritto la sua storia. Dicevo che forse sì, ma che la sua storia sarebbe dovuta passare per il filtro della mia immaginazione. Un giorno sono andato a trovarla nel suo kibbutz. Lei raccontava e io, per una notte, un giorno e una notte ancora, scrivevo su un quaderno con la penna. Mi ha regalato la sua storia perché sapeva che avrei ascoltato anche quello che lei non ha detto. È morta quando aveva 97 anni. E mi manca”.

Wlodek Goldkorn

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La sinistra italiana e gli ebrei. Ma anche gli altri

David Bidussa commenta il libro di Alessandra Tarquini la sinistra Italiana e gli ebrei , 21 marzo 2020 Gli Stati Generali

La conclusione di Alessandra Tarquini nel suo libro su sinistra italiana e gli ebrei (il Mulino) consiste nel fatto che gran parte della sinistra quando si è confrontata con la propria memoria, ma anche si potrebbe dire con le linee essenziali e storiche della costruzione della propria identità politica e culturale, si è spesso preoccupata e confrontata con il timore del venir meno  dell’antifascismo “senza chiedersi come mai la cultura della quale sono espressione ha fatto così fatica a occuparsi degli ebrei” [p.286].

È una domanda corretta e, a mio avviso, centrata. Se ne potrebbe fare anche un’altra (che non smentisce questa, ma che forse aiuta comprendere un processo, tanto da contribuire a rafforzarla) ma lo accennerò solo in conclusione. Prima vale la pena raccontare il libro di Alessandra Tarquini.

Dunque, il tema è proporre un lungo excursus che parte con le premesse della nascista culturale della sinistra in Europa intorno alla Rivoluzione francese e poi ai molti nodi irrisolti della costruzione del pensiero socialista(Marx, ma soprattutto Blanqui, Toussenel, Proudhon, senza tralasciare i riformisti come Malon, una figura che ha un peso consistente nella costruzione culturale del socialismo italiano negli anni tra Comune di Parigi e fondazione del PSI – o gli operaisti come Guesde, una ricca famiglia di ritratti dove il linguaggio antisemita è spesso più forte tra i riformisti che non tra i rivoluzionari) per attraversare il profilo culturale delle molte famiglie politiche della sinistra in Italia più o meno dagli anni della fondazione del Psi (1892) fino al suo scioglimento e, in contemporanea, l’autoscioglimento del Pci per avviare la nuova avventura del PDS.

In quell’excursus la sensibilità (politica, culturale, emozionale, per certi aspetti anche genericamente umana) dimostrata dalle molte famiglie della sinistra in Italia prima alle condizioni delle diverse minoranze ebraiche in Europa è alquanto scarsa.

Prima è un discorso tra dispotismo e democrazia, per cui nella riflessione socialista la questione dell’antisemitismo è il marchio dei sistemi non democratici (Russia zarista in testa) anche se l’Affaire Dreyfus segna un campanello d’allarme sulla permeabilità traversale dell’antisemitismo disegnando schieramenti traversali tra destre e sinistre in cui l’elemento della “Nazione” ha un ruolo non indifferente (è un elemento che sistematicamente tornerà in tutte le svolte culturali delle sinistre quando manifestano il proprio antisemitismo ed è il punto di incontro di tutte le parabole culturali e politiche – individuali e di gruppo –  che da sinistra vanno verso destra nel corso del ‘900).

L’antisemitismo dunque per il movimento socialista (non solo in Italia, ma più generalmente nel linguaggio della II Internazionale) è un fenomeno che riguarda solo i propri avversari, non il proprio campo (nelle culture, ma anche nelle emozioni; per esempio questo è un aspetto che sarebbe utile scavare per capire come si forma il linguaggio anche antisemita della sinistra inglese, per molti aspetti diverso, ma non opposto a quello del conservatorismo inglese).

Questo tratto si conferma non solo negli anni tra le due guerre, ma anche nella lunga stagione del dopoguerra (la parte più consistente della monografia di Tarquini è concentrata sul secondo dopoguerra).

In quel secondo dopoguerra Tarquini individua varie stagioni ma anche non si limita a una sola agenzia, ma tiene conto di uno spettro ampio di figure, di gruppi dirigenti politici: dai socialdemocratici di Saragat, alle molte anime del Psi, ai comunisti, alla nuova sinistra. E inoltre non solo i partiti, ma anche i gruppi intellettuali o le riviste che hanno definito l’identità culturale delle sinistre italiane nel secondo dopoguerra (“Rinascita”, “Mondoperaio”, “Nuovi Argomenti”, “Il Ponte”, “Astroloabio”, “Tempo presente”; “il Manifesto” (in questa unga scorribanda non  sarebbe stato improprio, mi sembra di non averla mai incontrata, anche un breve cenno intravedere cosa accada quando compare una rivista come “MicroMega” o con gli effetti di una riflessione anche sulla questione dell’antisemitismo una volta che si apre il laboratorio della discussione sul dissenso all’Est negli anni ’80: penso per esempio auna rivista come “L’Ottavo giorno”, ma anche a cosa significa confrontarsi con le società civili dell’ex blocco sovietico, un tema che parla di oggi)).

In questo tratto due sono i temi della questione:

Il primo riguarda i temi del confronto e della riflessione del lascito culturale, politico, emozionale,..) dell’antisemitismo razzista del fascismo italiano (un tema che solo con gli anni’90 diventa una discussione sul paradigma culturale dell’identità italiana, e allora il tema da indagare è perché occorrano cinquant’anni per aprire un serio ragionamento sulle culture del razzismo italiano che, è bene ricordare, non significano solo antisemitismo) e, insieme, quelli dell’analisi di ciò che era entrato – e spesso non era entrato nella cultura fondativa dell’esperienza dell’antifascismo italiano, sostanzialmente poco sensibile al tema dell’antisemitismo).

Il secondo riguarda come la sinistra italiana a partire già dall’immediato dopoguerra riflette intorno al processo della nascita dello Stato di Israele e, più in generale, che immagine ha della questione israelo-palestinese (sullo sfondo si potrebbe anche dire che immagine ha della questione mediorientale più in generale).

Il primo riguarda come lentamente le culture sociali e politiche dell’antifascismo nell’Italia repubblicana siano state capaci di mettersi in gioco di fronte al fenomeno e all’analisi dell’antisemitismo – non solo nel fascismo – ma anche in ciò che era rimasto “attaccato” alle loro culture. In questo senso si trattava di fare i conti non solo col proprio passato generico, ma con il proprio passato autobiografico (la storia di Franco Fortini è esemplare da molti punti di vista e su questo Tarquini giustamente insiste).

Contemporaneamente si trattava di riflettere sull’idea di Italia mediterranea – altro elemento che pesca nella cultura lunga italiana, almeno dal nazionalismo dei primi anni del ‘900 – e su un suo possibile ruolo nel momento della ridiscussione della geografia della “Guerra fredda” nel corso degli anni’80. Lì mi sembra risiedere una delle matrici del fascino che quell’«antico mito» gioca nella riflessione di Bettino Craxi, e su cui ci sarebbe da scavare per individuare un tratto culturale sottotraccia dell’identità della cultura del socialismo in Italia nel corso del’900.E parallelamente lì sta una delle idee di “politica regionale” che muovono la riflessione politica negli anni del Pci di Enrico Berlinguer e poi nel Pds di Massimo d’Alema. Ma anche si potrebbe osservare nello scarso peso che ha la cultura – economica, politica, sociale- di pensare Europa a partire dagli anni ’70 in tutte le agenzie della sinistra (riformista, radicale, rivoluzionaria, “nuova”,….).

Un tratto che, significativamente romperanno solo alcune figure che hanno vissuto da marginali o da “esuli in patria” la riflessione per un rinnovamento del paradigma culturale della sinistra almeno dalla fine del “mito dell’Urss” o meglio che non hanno mai avuto il mito dell’Urss che hanno dovuto conviverci con estrema difficoltà

Ma anche riguarda una cultura del terzomondismo italiano, in cui ritorna un elemento di fascino del “primitivo” dell’antindustriale, di una visione eroicizzata del primitivo, nei cui confronti Furio Jesi già negli anni’70 metteva in guardia senza successo, né allora, né ora. Quel paradigma è ancora molto forte nella cultura e nel linguaggio di noi italiani (di sinistra, e di destra).

Gran parte del fascino – e qui mi immetto nel secondo tema della questione – che le sinistre italiane (spesso con un linguaggio non molto diverse da quello delle destre nazionaliste e rifondative dell’idea di Europa che guardano con entusiasmo al codice culturale dell’Italia degli anni ’10 del Novecento) hanno nei confronti della realtà politica, culturale, dei palestinesi e dei movimenti ha la sua origine nell’anti-industrialismo e, ancora di più, nel proprio antiamericanismo. Ma anche in quella cultura orientalista avrebbe detto Said, che nasce laddove proprio costruisce un paradigma vittimario di e steso e allo stesso tempo ha bisogno di santificare vittime per ché ha una visione della politica manichea, fondata sull’ansia di individuare il “portatore di bene”, di solito identificato con l’aver “subito la storia “ (in questo dimenticando che nella storia ciascuno ha una parte di responsabilità nella propria condizione, compresa la condizione di sconfitto, e che una possibilità di riscatto sta nell’affrontare preliminarmente le proprie responsabilità).

Tarquini ha il merito in questo libro sia di tener distinti questi due piani, sia di farli interagire, non confondendo, i piani di analisi.

Non è poco. Un’ultima questione che forse come scrivevo all’inizio che non smentisce l’impianto del libro, ma che forse aiuta comprendere un processo, tanto da contribuire a rafforzarlo.

Nella storia della cultura politica in Italia – lungo tutto l’arco dello schieramento politico e delle aree culturali – un peso rilevante lo ha la cultura della Chiesa.

Sul tema in questione quella cultura non è stata assente, anzi è stata molto spesso determinate e lo è stata, significativamente, nelle culture che nel secondo dopoguerra si sono confrontate con la questione medio-orientale a partire dal destino dei «luoghi Santi» perché in gioco, in chi detiene quei luoghi sta, anche, un segmento rilevante della propria identità, prima ancora che un segmento rilevante della propria storia.

Il linguaggio della Chiesa in Italia non ha avuto un peso rilevante solo nelle realtà dell’associazionismo cattolico direttamente espressione della Chiesa, ma lo ha avuto nella formazione dei quadri dirigenti di tutte le formazioni politiche italiane (nuova sinistra e nuova destra incluse) lo ha avuto nella formazione di ciò che si chiama rapporto tra “primo mondo” e “Terzo (o quarto) Mondo” nel secondo dopoguerra.

E lo ha avuto nel modo in cui si è discusso (più spesso non discusso) di antisemitismo.

Mi piacerebbe, un giorno, con la stessa acribia, trovarmi tra le mani un libro che provasse a connettere queste diverse storie in una storia che per molti aspetti non può non essere raccontata che “tutta intera “ e “a parte intera”

Alessandra Tarquini ci ha messo un pezzo. Non è poco. È importante. È anche importante, senza pretendere che ce lo consegni Alessandra Tarquini, sapere che cosa manca.

David Bidussa

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Antisionismo, una versione dell’antisemitismo

Michael Walzer da Vita e Pensiero 1-2020

(grazie a Giorgio Gomel della segnalazione)
Storicamente l’antisionismo si è manifestato all’interno dello stesso ebraismo, con le sue numerose varianti. Da tempo però coinvolge il mondo della sinistra, in Europa e negli Stati Uniti. Un antisionismo pericoloso come quello di destra

In un certo numero di campus universitari e in vasti settori della sinistra, l’antisionismo è una politica oggi di moda. Le organizzazioni ebraiche e di gran parte degli ebrei che conosco concordano nel dire che si tratta della versione più recente dell’antisemitismo.
Ma l’antisionismo è un problema a sé,e possiede molteplici varianti.Nelle pagine che seguono mi piacerebbe esplorare la sua variante antisemita. Ritengo che il “sionismo” rimandi all’idea dell’esistenza legittima di uno Stato ebraico, niente di più, e che l’antisionismo contesti tale legittimità. La mia preoccupazione, qui, concerne l’antisionismo di sinistra negli Stati Uniti e in Europa.

L’antisionismo ebraico
La maggior parte delle varianti dell’antisionismo si è dapprima manifestata fra gli stessi ebrei.La variante probabilmente più antica vede nel sionismo un’eresia ebraica.Secondo la dottrina ortodossa, il ritorno degli ebrei a Sion e la creazione di uno Stato sono opera del Messia e avranno luogo nei tempi a venire. Nell’attesa, agli ebrei viene ingiunto di accettare l’esilio, di obbedire ai governanti dei gentili e di attendere la liberazione divina. Ogni azione politica mirante ad affrettare il suo avvento è considerata un’usurpazione delle prerogative di Dio. Gli autori sionisti si opponevano alla passività prodotta da questa dottrina con tale passione che gli ebrei ortodossi li bollavano come antisemiti, benché essi non avessero mai chiamato così il proprio rifiuto del progetto sionista.
Attendere il Messia ha la sua versione di sinistra che potremmo chiamare attendere la Rivoluzione. Si è spesso detto agli ebrei (e alle altre minoranze) che tutti i loro problemi si sarebbero risolti solo con il trionfo del proletariato; molti ebrei hanno visto in una simile posizione una manifestazione di ostilità, un rifiuto di riconoscere l’urgenza della situazione in cui si trovavano. Da parte mia, non la ritengo tanto l’espressione di un antisemitismo, quanto una forma di rigidità ideologica e un’assenza di sensibilità morale.
La seconda versione ebraica dell’antisionismo è nata nella Germania del XIX secolo, tra i fondatori dell’ebraismo riformato. Non esiste un popolo ebraico, dicevano, esiste soltanto una comunità di fede – uomini e donne di obbedienza mosaica. Gli ebrei potevano essere buoni tedeschi (o buoni cittadini di un qualunque Stato), perché non erano una nazione come le altre e non aspiravano a fondare un proprio Stato.
Il sionismo era avvertito come una minaccia da parte dei buoni tedeschi perché suggeriva che gli ebrei fossero fedeli a un’altra alleanza.
Questo ha permesso da allora in poi a una corrente importante della sinistra di affermare che uno Stato ebraico è necessariamente uno Stato religioso, paragonabile a uno Stato cattolico, luterano o musulmano; in altri termini: una formazione politica inaccettabile per la sinistra. Tale posizione venne adottata dagli ebrei riformati, seppur consapevoli che gran parte dei loro correligionari non la condivideva.
Se la nazione è davvero un plebiscito giornaliero, come ha scritto Ernest Renan, possiamo dire che gli ebrei dell’Europa dell’Est, in grande maggioranza, votavano quotidianamente per il popolo ebraico. Non tutti erano in cerca di una patria in terra d’Israele, ma gli stessi membri del Bund, che speravano nell’autonomia degli ebrei nell’impero zarista, erano dei nazionalisti ebrei.
I primi riformatori volevano cambiare il corso e la natura della storia ebraica, ma non ignoravano la propria storia. Non vale lo stesso per i gauchisti, che si oppongono all’esistenza del popolo ebraico ma sono in gran parte ignoranti. Non sono vittime di ciò che i teologi cattolici chiamano «l’invincibile ignoranza»: in realtà quel che non sanno non vogliono saperlo; è questo che dovrebbe inquietarci.
Se cercassero di interessarsene, potrebbero istruirsi sulle ragioni dell’intreccio radicale tra religione e nazione nella storia ebraica. Non
si può separare la religione dal politico; se non possedete uno Stato non potete costruire un muro fra la Chiesa – o la Sinagoga – e lo Stato.
Fin dalle sue origini, il sionismo si è sforzato di mettere in moto il processo per districare quell’intreccio ed edificare uno Stato dove in cui prevalesse la laicità. Lo Stato di Israele ha oggi i suoi fanatici che contrastano tale sforzo, così come vi sono nazionalisti indù e zeloti musulmani che si oppongono ad analoghi sforzi nei propri Stati.
Affinché la sinistra, come potremmo attenderci, difenda ovunque la laicità, bisognerebbe che essa prendesse in considerazione il valore del progetto sionista originario.
Non direi che il pigro preconcetto secondo il quale l’ebraicità è un’identità puramente religiosa rientri nell’antisemitismo. Ma il rifiuto di riconoscere che un gran numero di ebrei, identificati in quanto tali, non sono religiosi, è un po’ strano. Non diciamo che sono “ebrei non praticanti” (come di un cattolico non religioso diremmo che non è praticante); sono semplicemente ebrei. Questo postulato secondo il quale non ci sarebbe un popolo ebraico che includa a un tempo i fedeli e i non-fedeli deve ben avere una ragion d’essere. Esso consente ai gauchisti, che hanno sostenuto tanti movimenti di liberazione nazionale, di affermare che il sionismo non è paragonabile poiché non esiste una nazione ebraica. È un argomento comodo, ma questa caratteristica non è un valido motivo per avanzarlo.
La terza versione dell’antisionismo ebraico è al tempo stesso politica e religiosa. L’argomento religioso serve anche a spiegare il lungo periodo di diaspora. Secondo i suoi difensori, gli ebrei sono troppo buoni per la forma Stato. Una politica di sovranità esige una fermezza e una brutalità che s’intona meglio alle nazioni dei gentili. Segnati dall’alleanza del Sinai e da una lunga storia di spoliazione e di persecuzione, gli ebrei non possono, e non dovrebbero, tentare di imitare i gentili. Questa dottrina può apparire fi losemita, con la differenza, rispetto ad altre, che non possiede alcun fondamento empirico. Anche prima del 1948, gli ebrei sono sopravvissuti come nazione in ambienti per la maggioranza ostili utilizzando tutti i mezzi politici necessari, spesso con un’arte degna di nota.

La versione politica di questo argomento antisionista non è affatto più convincente: essa afferma che gli anni in cui sono stati privi di uno Stato hanno fatto degli ebrei i primi cosmopoliti. Gli ebrei sono sì un popolo, ma un popolo post-westfaliano. In anticipo sul resto del mondo, hanno trasceso lo Stato-nazione. Il sionismo rappresenterebbe dunque una regressione rispetto all’universalismo della diaspora.
La realizzazione sionista, lo Stato d’Israele, è una confutazione definitiva di questa definizione del popolo ebraico. Essa mostra che, se anche il cosmopolitismo è il programma di alcuni ebrei, non definisce tutti gli ebrei. Del resto, perché il cosmopolitismo dovrebbe essere un programma in primo luogo o soltanto per gli ebrei? Anche se certi ebrei si augurano di essere cosmopoliti, di rappresentare la luce delle nazioni o viceversa una luce contro le nazioni, perché tante persone di sinistra, non-ebree, non assumono il ruolo che riservano agli ebrei?
Conosco candidati migliori per una politica post-westfaliana. Che i francesi superino lo Stato-nazione! Sono loro, dopo tutto, a essere all’origine di questo intero affare, con la leva in massa del 1793, La marsigliese, il primo inno nazionale, la bandiera tricolore, la prima bandiera nazionale, e tutti i sermoni rivoluzionari. O i tedeschi, i danesi, i polacchi, i cinesi…

L’odio per lo Stato-nazione
Ed è questo il punto cruciale. La forma di sinistra più comune dell’antisionismo nasce, dicono i suoi difensori, dall’opposizione al nazionalismo e allo Stato-nazione. Questo fu, agli inizi della storia della sinistra, un argomento convincente e diffuso, sostenuto dagli ebrei stessi.
Rosa Luxemburg, ad esempio, parla con eguale disprezzo dei polacchi,degli ucraini, dei cechi, degli ebrei e delle «nazioni e delle mininazioni si annunciano da ogni parte e affermano il loro diritto a costituire degli Stati. Cadaveri putrefatti escono da tombe centenarie, animate da un nuovo vigore primaverile, e popoli “senza storia” che non hanno mai costituito entità statali autonome avvertono il bisogno violento di erigersi in Stati» (Tra guerra e rivoluzione [1918], trad. it. Milano, Jaca Book, 2019). La sola cosa che ammiro nel disprezzo della Luxemburg è il suo universalismo. Ebbene, è proprio questo che manca nel gauchismo contemporaneo dove il disprezzo è ben più circoscritto.

L’argomento della Luxemburg può applicarsi a una gran quantità di situazioni. La seconda metà del XX secolo ha visto la caduta degli imperi britannico, francese, sovietico e la creazione di più Stati-nazione di quanti la storia ne avesse conosciuti fino ad allora.
Alcuni gauchisti sognavano di trasformare i vecchi imperi in nuove federazioni democratiche, ma la maggior parte di loro ha semplicemente
approvato le creazioni post-imperiali – nel caso sovietico senza dubbio con un po’ meno entusiasmo –, a eccezione di una sola. Pensate a tutte le opportunità mancate di opporsi allo Statonazione! Perché sostenere il nazionalismo vietnamita, ad esempio, quandola giusta posizione rispetto al Vietnam, al Laos e alla Cambogia (i tremembri dell’Indocina francese) sarebbe stata in tutta evidenza la creazionedi uno Stato multinazionale? Perché la sinistra non ha difeso l’idea di un’Algeria che, all’interno della Francia, avrebbe dato a tutti i cittadini i diritti proclamati dalla Rivoluzione francese? Non lo ha fatto, e ha sostenuto il Fronte di liberazione nazionale (Fln) che ha creato uno Stato-nazione e ha pietosamente fallito nel garantire quei diritti. Mi ricordo l’entusiasmo della gente di sinistra per la Birmania di U Nu – oggi Myanmar –, esempio paradigmatico dello scacco del nazionalismo. La Birmania avrebbe dovuto costituire una provincia dell’India e riunire i buddhisti, gli indù e i musulmani all’interno di un solo Stato, ma nessuno, a sinistra, ha patrocinato questa soluzione.
I britannici hanno amministrato il Sudan “anglo-egiziano” prima che fosse liberato dal giogo imperiale; i due Paesi africani avrebbero allora dovuto essere uniti all’interno di un unico Stato. Perché i gauchisti non si sono opposti alla liberazione del Sudan? O alla scissione fra l’Eritrea e l’Etiopia? Perché non si sono appellati alla formazione di un solo Stato baltico invece della triade nazionalista formata da Lituania, Estonia e Lettonia?
Potrei prolungare l’elenco delle mie domande, ma la risposta è sempre la stessa. In tutti i casi, i popoli hanno scelto lo Stato-nazione: era questa l’opzione democratica, anche se non ha sempre condotto alla democrazia. La sinistra aveva dunque ragione di sostenere i vietnamiti, gli algerini e tutti gli altri. Ma allora, perché non gli ebrei? E perché, adesso che lo Stato ebraico esiste e che assomiglia più o meno a tutti gli altri Stati, è il bersaglio di una così singolare variante del disprezzo luxemburghiano?

Governo e Stato: Israele ieri e oggi
Le risposte più comuni all’ultima domanda sono le seguenti. In primo luogo, la creazione dello Stato d’Israele ha richiesto lo spostamento di 700 mila palestinesi. Israele è uno Stato di “occupazione coloniale”– come pressappoco tutti gli Stati, se risaliamo sufficientemente lontano nel passato; ma lasciamo da parte questo ragionamento, la storia recente è più istruttiva. Non c’è stato spostamento di arabi palestinesi negli anni Venti e Trenta del Novecento: malgrado la colonizzazione sionista, la popolazione araba è aumentata grazie alla natalità ma anche grazie all’immigrazione, essenzialmente dalla Siria (nel 1922, il primo censimento britannico contava 660.267 arabi; erano 1.068.433 nel 1940). E neppure vi è stato spostamento durante la Seconda guerra mondiale, in un momento in cui l’immigrazione ebraica era menoforte. La creazione dello Stato di Israele è stata proclamata nel 1947dapprima dall’Onu, in seguito a Tel Aviv nel 1948, prima dell’inizio dello spostamento su grande scala: l’idea secondo cui lo Stato “richiedeva”uno spostamento non può dunque essere corretta. È l’invasione del nuovo Stato da parte di cinque eserciti arabi che ha costretto
alla fuga un gran numero di arabi palestinesi (gli ebrei non fuggivano,non avevano un luogo dove andare) da un lato, all’espulsione di molti altri abitanti (gli ebrei non sono stati espulsi perché gli eserciti arabi hanno perso la guerra) dall’altro. Il dibattito sul rapporto tra coloro che sono fuggiti e coloro che sono stati espulsi è ancora vivo; le cifre sono importanti in entrambi i casi. Resta il fatto che il dibattito non esisterebbe se la guerra non fosse avvenuta, e vi sarebbero ben pochi rifugiati oggi nei campi. La Nakba [l’esodo palestinese del 1948, NdR]è una tragedia provocata da due attori, da due movimenti politici, e dai soldati delle due parti.
Cosa ne è delle fughe e delle espulsioni che avvennero altrove – in
particolare nel corso della creazione degli Stati moderni turco o pakistano?
È curioso che gli autori di sinistra non contestino la legittimità di questi Stati, anche quando criticano, come è giusto, le politiche dei loro governi (si contesta spesso la potenza del whataboutism [neologismo inglese più o meno equivalente a ciò che in italiano viene indicato come “benaltrismo”, NdR], ma io penso che costituisca una critica potente della cecità di uomini e donne che si indignano degli eventi che avvengono qui, dovunque si collochi questo qui, ma non manifestano interesse particolare per analoghi eventi che avvengono altrove. Mi sembra che si debba insistere su questo fenomeno.
Il secondo elemento spesso invocato per giustificare l’antisionismo è questo: Israele opprime i palestinesi, in Israele e nella Cisgiordania occupata. Questo è vero e i miei amici sionisti, in Israele, si mobilitano da anni per l’uguaglianza di tutti nello Stato e contro l’occupazione e il trasferimento dei coloni. Ogni critica severa del governo attuale mi sembra giustificata, e più è severa meglio è. Elenco qui sotto ciò che mi sembra importante dire a questo proposito, perché voglio essere riconosciuto come un difensore del sionismo e non come l’apologeta di ciò che viene compiuto in Israele oggi, o di ciò che si è fatto ieri, in nome del sionismo (i difensori del nazionalismo palestinese avrebbero interesse a fornire un elenco analogo delle patologie della politica palestinese).
– Gli arabi israeliani, cittadini di Israele, devono far fronte a numerose discriminazioni nella vita quotidiana, in particolare nell’ambito dell’alloggio e delle richieste di finanziamento per l’educazione e le infrastrutture.
– Adottando la legge «Israele, Stato-nazione del popolo ebraico»(19 luglio 2018), la Knesset ha alzato il dito medio verso i suoi cittadini arabi.Benché la legge non abbia conseguenze legali, prefigura una cittadinanza di seconda classe.

– La Cisgiordania è il teatro di una colonizzazione invasiva, di un’appropriazione di terre e di sorgenti, e di un governo militare senza
legge.
– I coloni si comportano da delinquenti violenti nei riguardi dei palestinesi,
senza subire effettive sanzioni da parte della polizia o dell’esercito israeliano.
– Il governo attuale incoraggia l’ostilità nei confronti degli arabi e ne fa una regola di governo; ha di mira la creazione di un solo Stato dominato da quella che sarà ben presto una minoranza ebraica.


Potrei proseguire l’elenco, ma quello che ho scritto basta a far comprendere il mio pensiero: le critiche di questo tipo non hanno niente a che vedere con l’antisionismo o l’antisemitismo. Si tratta di politiche governative, e i governi non fanno altro che governare gli Stati, non li incarnano. I governi vanno e vengono – almeno è quel che speriamo – mentre gli Stati si iscrivono nella durata per proteggere la vita comune dei loro cittadini, degli uomini e delle donne. Di conseguenza, criticare il governo d’Israele non dovrebbe comportare un’opposizione alla sua esistenza. È stato necessario opporsi con fermezza alla brutalità dei francesi in Algeria, ma non ricordo nessuna voce che mettesse in discussione l’esistenza dello Stato francese. Il trattamento brutale dei musulmani nell’ovest della Cina invoca la stessa fermezza, ma nessuno chiede l’abolizione dello Stato cinese (anche se, in pratica se non in teoria, la Cina è uno Stato-nazione dell’etnia han).
Alcuni, a sinistra, affermano che i lunghi anni di occupazione e il nazionalismo di destra del governo Netanyahu rivelano l’“essenza stessa” dello Stato ebraico. Questo argomento dovrebbe suonare strano alle orecchie di tutte quelle persone di sinistra che hanno imparato, molto tempo fa, dalle autrici femministe in particolare, che bisogna rinunciare agli argomenti “essenzialisti”. La lunga storia dell’interventismo degli Stati Uniti in America Centrale rivela l’“essenza stessa” degli Stati Uniti? Forse sono gli oppositori all’intervento e all’occupazione a essere più “essenziali”. Comunque sia, uno Stato ha davvero un’“essenza”?
Oggi molti a sinistra approvano il nazionalismo palestinese senza preoccuparsi del suo carattere “essenziale” e senza riflettere sul programma dei nazionalismi che chiedono, spesso esplicitamente, il grande
tutto: «Dal fiume al mare». Vi sono oggi, al governo d’Israele, ebrei sionisti che chiedono il grande tutto con analogo fervore. La sinistra dovrebbe dunque opporsi a entrambe le rivendicazioni con la stessa determinazione. Quanti, a sinistra, reclamano “uno Stato”, con pari diritti per gli ebrei e i palestinesi, direbbero senza dubbio che fanno esattamente questo, perché il loro programma sembra tradurre un disprezzo fermo del nazionalismo e dello Stato-nazione – fermo, sì, ma applicato a un solo caso.
In realtà, “uno Stato” significa l’eliminazione di uno Stato: lo Stato ebraico esistente. In che modo i partigiani di “uno Stato” hanno in mente di realizzare questo programma? Qual è il loro piano per distruggere lo Stato ebraico e il movimento nazionale che gli ha dato nascita?
E come vedono la disfatta del nazionalismo palestinese? A cosa assomiglierebbe questo nuovo Stato? Chi deciderebbe le politiche d’immigrazione (è la questione che ha fatto fallire il bi-nazionalismo immediatamente prima e dopo la Seconda guerra mondiale)? Infine, ed è l’esito più probabile, cosa accadrebbe se il nuovo Stato somigliasse al Libano di oggi? La storia recente del Medio Oriente e quelle di Israele e della Palestina mostrano che la coesistenza pacifica è una pia illusione. Anzi, nemmeno un’illusione.
Se si vuole permettere ai due movimenti nazionali di ottenere (o di mantenere) la sovranità cui aspirano, è sicuramente opportuno aggiungere uno Stato piuttosto che sottrarne uno all’equazione. La soluzione dei due Stati è forse anch’essa un’illusione – esiste in effetti dai due lati uno schieramento significativo di forze che vi si oppongono – ma l’idea è più realistica. Sappiamo, infatti, come creare degli Stati-nazione; abbiamo una lunga esperienza in materia. Non sappiamo come creare la comunità politica ideale che i partigiani dello Stato unico dicono di desiderare, ma non vogliamo – e non dovremmo volere – il genere di Stato che essi creerebbero, se lo potessero.
Edificare Stati-nazione, questa è la politica che la sinistra ha difeso nel periodo post-coloniale. La Jugoslavia è l’eccezione degna di nota: la maggioranza delle persone di sinistra si sono opposte alla creazione di sette nuovi Stati-nazione, preferendo a essi il regime tirannico che li aveva un tempo mantenuti uniti. E questa è un’ulteriore incoerenza:
se l’alternativa alla liberazione nazionale è la tirannia, la sinistra dovrebbe optare, e in genere ha optato, per la liberazione. È la scelta giusta, perché sappiamo che le nazioni hanno bisogno di Stati, non fosse altro che per proteggerle dall’oppressione straniera. Ne è prova la storia degli ebrei, o degli armeni, dei curdi, dei kossovari e dei palestinesi. Le inchieste mostrano che, in ognuna di queste nazioni, larghe maggioranze desiderano uno Stato per se stesse. E se gli altri lo vogliono, perché non gli ebrei?


L’antisionismo è una cattiva politica
Perché non il sionismo? Perché gli ebrei non sono un popolo; perché dovrebbero essere più cosmopoliti degli altri; perché lo Stato sionista ha avuto la sua quota di cattivi governi; perché nessuno dovrebbe avere uno Stato (anche se, in pratica, quasi tutti ne possiedono uno).
Possiamo trovare delle ragioni, ammissibili, a ognuna di queste affermazioni, ma il modo in cui sono avanzate oggi non manca di suscitare
sospetto. È possibile, talvolta probabile, che quanti le avanzano credano anche che gli ebrei siano stati responsabili della tratta degli schiavi, che le lobby sioniste controllino la politica estera americana (come ha sostenuto la deputata Ilhan Omar) e che i banchieri ebrei governino il sistema finanziario internazionale. Troppe donne e troppi uomini credono queste cose, a sinistra come a destra. Sono antisemiti o compagni di strada degli antisemiti, e il loro antisionismo è probabilmente strettamente legato al loro antisemitismo – anche se esistono ormai antisemiti pro-israeliani, ad esempio fra gli evangelici americani o fra i nazionalisti di destra in Europa dell’Est.
Gli uomini e le donne di sinistra devono essere vivamente critici, particolarmente nei confronti degli altri membri della sinistra che adottano queste vedute. È evidentemente più facile condannare gli antisemiti di destra e pretendere che l’antisemitismo non esista a sinistra.
Ma l’antisemitismo esiste a sinistra. Forse è vero che l’antisemitismo di destra è una minaccia più grande per il benessere ebraico, ma non bisognerebbe comunque sottovalutare la sua versione di sinistra. Detto questo, sono convinto che gran parte degli antisionisti e anche numerosi antisionisti di sinistra non credono alle favole antisemite.
Forse ignorano volontariamente cos’è il popolo ebraico, forse sono particolarmente preoccupati dallo Stato ebraico, forse alla fin fine non amano semplicemente gli ebrei (è quel che ha detto George Carey, l’ex arcivescovo di Canterbury, a proposito di Jeremy Corbyn).
Forse. Ma quando si parla di Israele nei dibattiti di sinistra, il vero problema è il sionismo, ed è dunque del sionismo che bisogna parlare. Per tutte le ragioni che ho fornito, quel che non va nell’antisionismo è l’antisionismo stesso. Che voi siate antisemiti, filosemiti o indifferenti al semitismo, l’antisionismo è una cattiva politica.
(Traduzione di Mario Porro)

Michael Walzer è uno dei più importanti teorici della politica viventi. Ha insegnato a lungo all’Institute for Advanced Study di Princeton, di cui è professore emerito di Scienze sociali. È considerato uno degli esponenti di spicco della corrente “comunitaria” del pensiero politico contemporaneo, assieme ad Alasdair MacIntyre e Michael Sandel. È autore dei fondamentali saggi Sfere di giustizia (1983) e Esodo e rivoluzione (1985) e di molti altri contributi sul pensiero politico moderno e contemporaneo. È anche condirettore della rivista «Dissent».

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Di laicità, ebraismo e identità

Micol De Pas su JoIMag 3/03/2020 : Recensione al libro “Il funerale negato. Ovvero, l’ombra lunga dei Patti Lateranensi”, un’intervista a Bruno Segre di Alberto Saibene

“Non riesco a considerare la laicità come una “condizione”, come qualcosa che tu possa concretamente “conquistare” e che, una volta l’abbia conquistata, tu possa conservare quasi fosse un tesoro. La laicità, così come io la intendo, è la scelta di un metodo, di una prospettiva aperta, pluralistica, di una concezione polifonica della vita e della cultura. (…) è improntato a laicità il comportamento di chi rifiuta di lasciarsi imporre, e anche di imporre, un “pensiero unico”. Quella laica è una scelta di metodo della quale il mondo in cui oggi viviamo ha un profondo bisogno, pena la sua distruzone”. Sono le parole di Bruno Segre nel suo ultimo libro Il funerale negato. Ovvero, l’ombra lunga dei Patti Laternanensi, un’intervista con Alberto Saibene pubblicata per l’editore una città.

Un piccolo volume che, nelle ultime pagine in particolare, si trasforma in un manifesto per la libertà. Quella di espressione, quella identitaria, quella individuale. Che Segre declina con molta attenzione rispetto alla religione. Laicità non è il risvolto positivo di religione che ne sarebbe il negativo, bensì un modo aperto, inclusivo, libero di intenderla. “Mi resi conto di essere ebreo quando, all’età di otto anni, i fascisti mi intimarono che ero di razza ebraica e mi bandirono da tutte le scuole del regno. Da allora, cioè da oltre 80 anni, combatto con impegno laico la mia battaglia identitaria“, spiega Segre. Che poi aggiunge: “Quanto alla mia ebraicità, l’ho sempre vissuta in chiave libertaria; non ho mai smesso di considerarmi un liberto poiché l’Eterno ci ha tratto con mano potente dall’Egitto, dalla casa di schiavitù“. Non solo: “l’ebraismo laico è presa d’atto che la vita e la cultura degli ebrei hanno una dimensione plurale” e tale pluralità è sinonimo di ricchezza (e arricchimento futuro).

Lo spirito laico dell’autore analizza dunque i patti laternanensi e tutte quelle norme collaterali che dal 1930 al 1987 erano rimasti invariati, superando indenni la Shoah e decenni di post-fascismo.

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Tra queste norme, anche quell che regolavano i rapporti tra le comunità ebraiche e lo Stato con la legge Falco, che imponeva agli ebrei di essere iscritti alla comunità ebraica della provincia di pertinenza, a meno di rinunciare all’ebraismo tramite abiura. Poi, con la revisione del Concordato, nel 1984, emerse la necessità di rivedere anche la legge Falco e nel 1987 Tullia Zevi e Bettino Craxi firmarono l’Intesa ebraica, cui seguì l’approvazione dello Statuto dell’ebraismo italiano da parte dell’Ucei. L’8 marzo 1989 entra così in vigore come legge l’Intesa ebraica che abroga la legge Falco. “E ciò facendo”, spiega Segre, “apre la strada a un’importante novità (…): l’obbligo vessatorio per tutti gli ebrei residenti in una determinata circoscrizone di aderire alla comunità di pertinenza territoriale (salvo atto di abiutìra) e la sostituzione di quel regime con il principio liberale dell’adesione volontaria“.

Cos’altro c’è di liberale nell’Intesa ebraica?, chiede Alberto Saibene. “Ben poco! Il documento conserva la tradizionale cornice giuridica e sociale unitaria e (…) salvaguarda la tradizionale struttura unitaria dell’ebraismo italiano mantenendola all’interno dell’ortodossia rabbinica. In generale i diritti per i quali l’Intesa domanda che lo Stato eserciti la sua tutela, marcano separatezza, indicano differenza specifica: una differrenza che per lo più si qualifica di matrice religiosa“, risponde Segre, che poi prosegue con il suo punto di vista: l’Intesa serve a proteggere questo aspetto dell’ebraismo, ortodosso e rabbinico, probabilmente in crisi d’identità e di autorevolezza. Impossibile fare appello al pensiero laico, a quel pensiero che ammette una pluralità di voci, rispettandole tutte, forse proprio perché, come dice il titolo di questo piccolo libro, siamo ancora coperti dall’ombra lunga dei Patti Lateranensi.

A questi fa riferimento poi una storia personale dell’autore, che su JoiMag abbiamo raccontato pubblicando una lunga lettera dell’autore: l’impossibilità di dare sepoltura alla moglie nel cimitero ebraico di Monticelli d’Ongina, e che è richiamata nell prima parte del titolo di questo libro, Il funerale negato.

Leggi anche: Noi, marrani di Monticelli d’Ongina

Questioni halakhiche, forse però incapaci di comprendere la lettura della storia, perché in quel cimitero riposano coniugi di matrimoni misti celebrati in tutte le epoche… Ecco, il pensiero laico di Bruno Segre è una forma di pluralismo che significa anche conoscere il passato per capire il presente.

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Sinistra diffidente verso gli ebrei anche quando Israele non c’era

di PIERLUIGI BATTISTA Corriere della Sera 11 Gennaio 2020

Il saggio di Alessandra Tarquini (il Mulino) mette in luce pregiudizi di lunga durata ricostruendo il rapporto tra la sinistra italiana e il mondo ebraico nell’arco di un secolo

Nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, fu trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori» organo di Avanguardia operaia, protestò perché la tv di Stato si era prestata, a suo parere, a un’apologia della «supremazia del popolo ebraico» così spudorata da giustificare in modo obliquo «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». La notizia sconcertante, però, non era la pubblicazione di un commento così smaccatamente antisemita che oggi muoverebbe a giusta indignazione, ma l’assoluta mancanza di reazioni a un argomento che, allora, sembrava normale che circolasse non solo nel recinto infetto del neonazismo, ma in quello delle forze che pure si ispiravano ai valori della Resistenza antifascista.

La studiosa Alessandra Tarquini (Roma, 1970)
La studiosa Alessandra Tarquini (Roma, 1970)

Del resto, racconta Alessandra Tarquini in un saggio molto documentato come La sinistra e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992 (Il Mulino), fa pure un po’ impressione che nel 1972 non sia apparsa sui giornali di sinistra nemmeno una recensione dedicata alla ripubblicazione del 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti o di, anche se la cosa può apparire incredibile, Se questo è un uomo di Primo Levi. Era normale, o comunque veniva accettato come argomento in sé non raccapricciante, la continua, insistita, maniacale comparazione tra le azioni dello Stato di Israele e il nazismo. Durante la guerra dei Sei giorni, nel 1967, si arrivò a sostenere che la stella di Davide del popolo di Anna Frank aveva macchiato il suo significato facendosi arbitrariamente simbolo della prepotenza militare di Moshe Dayan e di Israele, Stato, si disse, letteralmente anche nei decenni successivi, «teocratico e razziale». Si disse che le operazioni militari israeliane erano identiche alla guerra lampo hitleriana. Si accostò, con analogia mostruosa, la svastica alla stella di Davide. Si disse impunemente, con un luogo comune destinato a molta e immeritata fortuna negli anni a venire, che le vittime di ieri, gli ebrei, fossero diventati i carnefici di oggi e che oggi i «nuovi ebrei» erano oramai i palestinesi.

Scrive Alessandra Tarquini che nella stampa di sinistra «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Con la guerra del Libano del 1982, mentre le reazioni a una bara davanti alla Sinagoga deposta durante un corteo sindacale furono molto blande, riaffiorò nella stampa di sinistra il vecchio pregiudizio antisemita sulla contrapposizione tra il Dio dei cristiani del Nuovo Testamento, pieno di amore, e il «vendicativo» e crudele Dio degli ebrei del Vecchio Testamento. Sulla rivista «Il Ponte» il direttore Enzo Enriques Agnoletti non si risparmiò persino un paragone spericolato tra l’invasione israeliana e le Fosse Ardeatine: «Confronto odioso? Purtroppo no». In tutti questi casi, è la presenza ebraica in quanto tale a suggerire immagini, suggestioni e comparazioni che oggi, per fortuna, non sarebbero più pensabili.

Ma se con l’ostilità nei confronti dello Stato di Israele è rintracciabile ancora un elemento politico, la minimizzazione dell’antisemitismo appare, scorrendo le pagine del libro della Tarquini, una costante, sin dal primo Novecento, della cultura della sinistra italiana (e non solo italiana, basta vedere le considerazioni dell’autrice sui libri di Adorno e di Sartre, scritti a ridosso della Shoah, ma dove l’elemento specifico dello sterminio ebraico viene menzionato quasi di sfuggita).

Nelle ondate antisemite, o nell’offensiva dell’antigiudaismo cattolico che oltraggiava il sindaco ebreo di Roma Ernesto Nathan come «un volgare insultatore della nostra fede», ancora si contrapponevano stereotipi come quello di Alceste De Ambris sull’equivalenza tra «lo sfruttatore battezzato e il banchiere circonciso nelle carni». Esercitava molto fascino la definizione di Marx della «questione ebraica» destinata a risolversi con l’auspicata fine del capitalismo. La completa assimilazione, cioè la fine di ogni identità ebraica, era vista come unico antidoto alle persecuzioni antisemite, come a dire che per non essere perseguitato come ebreo occorresse perdere ogni tratto distintivo proprio in quanto ebreo.

Quando il fascismo si macchiò con l’orrore delle leggi razziali, ancora una volta, nella cultura democratica e liberale, si minimizzò l’aspetto specificamente antiebraico per spostare l’attenzione sulla mossa propagandistica di Mussolini per presentare gli ebrei come i padroni della finanza. La stessa Shoah venne equiparata per anni a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», in cui però gli ebrei furono solo una parte, sia pur cospicua, delle vittime della sopraffazione nazista.

Anche nella rappresentazione cinematografica, sia pur con le migliori intenzioni di denuncia della barbarie nazista, e in film come L’ebreo errante di Goffredo Alessandrini, tratto da un romanzo di Eugène Sue, e Kapò di Gillo Pontecorvo che «non si soffermava sull’identità delle vittime, confinate all’interno della contrapposizione tra i nazisti e i loro avversari, e ignorava l’antisemitismo».

Del resto persino Carlo Levi parlò del lager come «il permanente sacrificio umano sull’altare degli idoli di Stato», «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», definizioni dove, nota Alessandra Tarquini, «non emerge alcuna considerazione sugli ebrei».

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ISRAELI ELECTIONS TRYING TO ESCAPE FROM THE DEADLOCK, AGAIN

The March 2 general elections in Israel – the third in 11 months – remain contested and uncertain, crossed by scandals, fake news and harsh propaganda. The country is facing an unprecedented political situation, with a heavy toll on governance and policymaking. According to the latest polls, neither Benjamin Netanyahu nor Benny Gantz will cobble together a majority: the scenario of a fourth election is increasingly likely. Trump’s Peace Plan and its still unpredictable outcomes for Israel, the Palestinians and the region have added even more uncertainty to this situation. What is it at stake? How will Washington’s Middle East plan impact the Israeli vote? Has Netanyahu’s time in power come to an end?

The “Netanyahu Factor” Driving Israelis to the Polls Nimrod Goren | 28 febbraio 2020

Israelis have gotten used over the years to governments that do not complete their full terms. But, they never experienced repeat elections prior to 2019. The current political deadlock is leading Israelis to the polls for the third time in one year. In the final days of the campaign, leading candidates are even referring to the option of a fourth round. Israelis are facing an unprecedented political situation that takes a heavy toll on governance and policymaking. They are also experiencing a reality that runs counter-intuitive to the Israeli state of mind of the past decade, which used to perceive Prime Minister Benjamin Netanyahu as being bound to lead on and on

Since 2009, Israeli politics has been largely shaped by one man. By winning consecutive elections and forming consecutive coalitions of various sorts, Netanyahu managed to dominate Israeli politics, prevent potential contenders from standing a chance against him, and be regarded by most Israelis (and by many in the international community) as invincible. It is not by chance that the term “King Bibi” was used on the covers of both Time and Newsweek, and was the title chosen for a documentary film that explored Netanyahu’s rise to power. 

For years, Netanyahu had almost total control of his party, successfully maneuvered leaders and voters of other right-wing parties, effectively disempowered opposition from the center and left, shaped the public discourse to his advantage, delegitimized political rivals while polarizing the society, and overall – stirred Israel’s reality to his direction of interest. Time and time again, Israelis went to the polls with no real hope of leadership change. The main open question used to be which type of coalition will Netanyahu form after results are announced. 

And then things changed. Corruption investigations that were initially dismissed and brushed off by Netanyahu, picked up pace. From one legal phase to the other, it became evident to Israelis that a major issue is brewing. Netanyahu’s repeated and increasingly harsh attacks on key personnel in the legal establishment, which were aimed at mobilizing his political base and rally his supporters, exemplified just how problematic his situation is. It was anti-corruption slogans that played a leading role in the downfall of the Likud government in 1992 and the victory of Yitzhak Rabin, and Netanyahu seems to have understood the political danger that his legal issues pose to him

To try and counter that, Netanyahu hastened into early elections (April 2019). His goal was to quickly form a new coalition that will advance legislation protecting him from being indicted while in office. Election results initially indicated that he has succeeded in paving the way for that. His traditional right-wing bloc had the required majority. But a surprise was in the waiting. Former Minister of Defence, Avigdor Lieberman, a nationalist right-wing politician who has been part of Netanyahu’s camp since the 1990s (although episodes of political rivalry), broke ranks. Without Lieberman’s party, Yisrael Beiteinu, Netanyahu did not have a coalition. His efforts to attract centrist/leftist parties to join a “unity government” or even to bring on board a single defector from another party who will give him the necessary majority in parliament – all failed. 

In the past, Netanyahu used to carry out such political moves easily. But, due to his corruption allegation, he became a persona non grata among his opponents. They were not willing to enable him to become prime minister again, given his potential downfall and the legislative reforms he sought to advance. Netanyahu was losing ground. As he failed to form a government and went to repeat elections, his image as invincible and as a “political magician” was shattered. Moreover, his image in Israel as “Mr Security” was now effectively challenged by the Blue and White Party leader, Benny Gantz, which featured three ex-IDF Chiefs of Staff on the top of its list. 

Netanyahu sought remedy in diplomatic activism. He saw the realm of foreign policy as one in which he has an added value over his contenders. Billboards of him shaking hands with Donald Trump and Vladimir Putin appeared all over Israel, portraying him as a mega-diplomat. International visits and meetings were orchestrated for him, and world leaders were willing to grant Netanyahu new diplomatic achievements that he can present as part of his campaign. However, this – like other elements of his campaign – did not prove to be effective. The September 2019 elections showed a decline in votes for the Likud party, and Netanyahu failed again in forming a government, despite the loyalty of his party and ideological bloc (excluding Lieberman). 

Towards the March 2019 elections, that tone of the opposition was already more confident. “He just can’t” was the slogan of Blue and White against Netanyahu, referring to his inability to form a coalition. “Netanyahu only cares about himself”, their campaign said, referring to the court case against Netanyahu that will begin just two weeks after the elections, on March 17th. Even the announcement of the so-called Trump Plan, which was supposed to be the ultimate political gift to Netanyahu towards the elections, was handled by the opposition in a way that did not increase Netanyahu’s popularity in the polls. 

It is still not clear which direction the upcoming elections will go. But, Netanyahu’s time in power should be up. His long tenure led him to develop a sense of entitlement to the position, that prevented him from doing – at least until now – what a prime minister accused of bribe should do: announce resignation. The damage to Israeli democracy, state institutions and governance caused by his political and personal conduct is mounting. Israel is paying a heavy price for this. It is a price that drives voters to the polls time and time again. It is also a price that drives many of them to seek a new prime minister.

Netanyahu vs Gantz: How to Defeat Each Other Peter Lintl | 28 febbraio 2020

The starting point and the sole reason that Israel faces a third election within a year is Prime Minister Benjamin Netanyahu’s looming (and now happening) indictment due to several corruption cases. Since Netanyahu seems to put all his hopes on a law granting him legal immunity he is bound to coalesce only with right winged parties – all others parties from the center-left-Arab bloc have ruled this possibility out. And since secular nationalist Avigdor Lieberman with his Yisrael Beitenu party has dropped out of the right-winged block supporting Netanyahu, we see a stalemate since April 2019. It is clear that any other Likud leader would be able to form a coalition with the centre, as the indictment is the only reason hindering that. Yet so far, no one was able to form a coalition without Netanyahu nor oust him as Likud leader.

Nevertheless his challenger Benny Gantz has managed to establish himself as a formidable opponent: as the first challenger since long, he achieves similar support in polls regarding the ability of leading the country. Secondly, his party alliance, Kahol-Lavan (“Blue and White”), has become the strongest party in the Knesset. 

Political constellations 

The two candidates operate within very small margins. As the recent elections as well as current polls show: the overwhelming majority of voters will not change their political opinion and switch sides to the other blocks. The right-wing and the center-left-Arab blocs are rather stable. Thus, in the last weeks before the election, the respective campaigns focus on two aspects: first, to mobilize their core electorate and to counter a potential election fatigue among the voters. This seems to be the case especially with the Likud electorate. Sources from within the Likud speak of up to 300,000 potential Likud voters who did not vote for the party in the last elections. Secondly, there is a slim group, the so-called “soft right”, which is, according to polls, the only group of voters to potentially switch between the blocks from right to center-left.
 

Benny Gantz: appealing to the soft right 

Benny Gantz and his party are bound to convince the small margin of moderate, soft right wing voters, who are critical of Netanyahu due to his corruption indictment. For Gantz tactics this translates on focussing on notions related Netanyahu’s looming trial: fighting corruption, re-establishing trust in state institutions, and general depicting himself as statesmanlike-leader (mamlachti) working for the whole of society, whereas Netanyahu is portrayed as utilizing the premiership for his own interests. Generally speaking, Gantz counters those voices that want to transform Israel into a more illiberal, majoritarian democracy.

As a further consequence, Gantz tries to avoid political stances which are associated with the left which could deter those soft right-wingers. He categorically rejects the possibility to include the Arab Joint List into any future coalition, since it is a party that is largely made up by Arab-Israelis. Furthermore, especially in this last election campaign, Gantz maintains moderate right-wing positions regarding the Palestinian Territories: e.g. that he would never return the Jordan Valley or that he would even annex the Jordan Valley – albeit in coordination with the international community (which effectively means not annexing it). Later on, he also stated that he would implement the “Trump Plan” after the election and thus implicitly annex all settlements. Nevertheless, over the last year Gantz was sending mixed signals regarding the West Bank and potential process with the Palestinians. Especially during the first election campaign in 2019 he also spoke of renewing the peace process.

Bottom line, Gantz positions himself as a moderately right wing politician, in a way not unsimilar to the pre-Oslo Labour party. Yet, since he is compelled to win this margin of soft-right Likud voters, it is hard to tell where he really stands on those issues. In addition, his party is extremely split: the bandwidth ranges from clear left-wingers like former Meretz member, Yael German, to outspoken pro-settlement activists as Zvi Hauser. Generally speaking, as many pundits observe, neither Gantz nor his party really formulate a concise vision of a future Israel. The main message and common denominator is to replace Netanyahu. 

Netanyahu: acting prime minister in the ropes 

Netanyahu’s election campaign relied much on the aspects it emphasized in the previous two campaigns, with a few updates in the respective fields. It featured Israel’s excellent economy (highlighting that Israel is a gas exporter), Netanyahu’s good relations with important foreign leaders and former foes (Netanyahu just attained overflight rights for Israeli planes over Sudan) and his capacity in keeping the enemies at bay, while at the same time portraying Gantz as a left-winger with whom the country would be endangered in all those fields.

Yet what certainly stood out in recent weeks and dominated the media was the so-called Trump Peace Plan – which was, not incidentally, published on the very day on which Netanyahu’s bid for immunity was scheduled to be discussed in the Knesset. The publishing of the plan is without any doubt a major political and PR achievement of Netanyahu. The plan is very close to Netanyahu’s own political positions (some ideas seem to be strikingly similar to those presented in Netanyahu’s “A Durable Peace”).

In addition, the impression of the strong bond between Netanyahu and US President Donald Trump was further strengthened by the image of the two, presenting the Peace Plan together to the public. Thus one of the successes was certainly to highlight during the election campaign Netanyahu’s potency and somewhat overshadowing the indictment.

Yet while it is generally welcomed in the Israeli society up, also by many who would see themselves as political centrist – the plan did, according to latest polls, not help to win any voters from the centre.

One of the consequences of that was that Netanyahu started a last minute effort and rolled out an economic vision for the next decade, promising cheaper housing, tax reductions and lowering the food prices. 

Constellations and outlook 

Thus, by the time of writing, the political constellation as well as the polls look very similar to the results of the September elections, which produced the stalemate between the right-wing and center-left-Arab bloc. The outcome of the election will be crucially influenced by the extent the parties can mobilize their electorates – of special importance will the turnout of the volatile Arab-Israeli vote. Additionally those soft right voters will also play an important role.

There are three principles scenarios for potential coalitions after the election: 1) Gantz can form a coalition without Netanyahu; 2) Netanyahu can form a coalition to pass an immunity law for him; or 3) leaders find some other creative way to allow Netanyahu protection from law enforcement. Some stipulated something like a “Nixon Law”, granting Netanyahu a pardon in exchange for him to step down. Albeit all of those possibilities seem unlikely. Yet, if this issues will not be solved, stalemate will prevail.

In this case, several factors will be worth watching: first, it needs to be seen to what extend the start of the trial against Netanyahu on March 17th will affect coalition negotiations and the standing of Netanyahu. Linked to this is, secondly, the question for how long the Likud will not rebel against Netanyahu as party leader. And thirdly, it is important to see if the minor parties will eventually switch blocks or put pressure on Gantz or Netanyahu to compromise. Especially the ultra-orthodox parties are worth watching here: their societies are heavily dependent on state subsidies for religious schools. They are in urgent need of the passing of a new budget – something a caretaker government without a Knesset majority, as is in office since 2019, cannot do.

For Netanyahu, on the other hand, the stalemate – or potentially a forth election, as some already speculate – seems to be a good option.

What Palestinians Should Expect from Israeli Elections Hugh Lovatt | 28 febbraio 2020

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President Donald Trump’s peace plan has been met with wall-to-wall opposition from  Palestinians who see it as a denial of their aspirations for sovereign statehood. Many feel that it instead formalises a one state reality of open-ended occupation and unequal rights that they are currently living. Beyond the considerable anger and frustration that US actions have produced, it still seems like business as usual for Palestinians. Ultimately, what may produce a more significant reaction will be the more practical manifestations of the US plan, most particularly any steps towards de jure annexation of the West Bank. With this in mind, many Palestinians are awaiting the result of Israel’s latest round of elections.

For now, the reactions of the Palestinian leadership in Ramallah is limited to tinkering with the current Oslo peace process model, rather than ushering in a strategic rethink. There is still be no seriousness to enforce Palestinian threats to sever security cooperation with Israel or dismantle the Palestinian Authority (PA). President Mahmoud Abbas also remains unwavering in his belief in a two-state solution based on internationally agreed parameters.

Many in the PA and Palestine Liberation Organization (PLO) leadership are still hoping that the potential formation of an Israeli government led by Benny Gantz’ centrist Kahol Lavan (“Blue and White”) party would minimise the chances of annexation and allow both sides to re-right the ship. PA leaders hopes that the formation of a centre-left Israeli government could create a path towards this. They also hope that a Gantz government would allow Palestinian residents of East Jerusalem to participate in Palestinian national elections – a condition that President Abbas has set before issuing a presidential decree that would formally set in motion the electoral process.

The problem is not just that there is no plan B should Gantz lose. The other problem is that the Palestinian leadership in Ramallah is banking on an extremely optimistic reading of Israeli political dynamics. In reality, it is difficult to see how the next round of Israeli elections will produce anything more positive for Palestinians.

Whether Netanyahu stays or goes, there is unlikely to be a substantial break in Israel’s future foreign policy trajectory on the Palestinian issue. Any changes will be mostly cosmetic. Neither Gantz or Netanyahu support a return to status quo ante two-state position. Both have endorsed the US plan. Gantz was also quick to claim that Netanyahu stole his idea when he promised to extend Israeli sovereignty to the Jordan Valley.

Moreover, given current electoral dynamics, it is very unlikely that Gantz could, or would, seek a centre-left government with the Arab-Palestinian Joint Jist. Much more likely will be a centre-right government dominated by Gantz’ Kahol Lavan, Avigdor Lieberman’s Yisreal Beiteinu and a selection of other right-wing or ultra-orthodox parties, perhaps even a Likud without Netanyahu. Ironically, a Netanyahu win could actually suit the Palestinian cause better. Netanyahu’s removal would improve Israel’s relation with the EU, particularly western European governments who have grown frustrated with his behaviour, further reducing the EU’s willingness to criticise Israeli actions towards the Palestinians.

But it is perhaps in Gaza where a change of government would be most felt. Gantz and his erstwhile coalition ally, Lieberman, have criticised Netanyahu for being too soft and having squandered Israel’s deterrence capacity against Hamas. In response, they have openly called for the resumption of targeted assassination of Hamas leaders. While there is obviously a degree of electioneering behind such rhetoric, a Gantz government could very well end up taking a more confrontational position towards Gaza.

Palestinian reactions to the US plan, and what might follow, once again reveal the deep limitations and weaknesses of the Palestinian liberation movement in its current form. This is driving home an acknowledgement at all levels of Palestinian society that there needs to be a new strategy, and for this to happen, there needs to be new leadership.

Senior PA/PLO officials prefer a new leadership to emerge from within their ranks as a result of internal deal-making to succeed Abbas. While they publicly support elections, it is a safe bet that most see this as too unpredictable and potentially destructive to their ambitions given the unpopularity of both Fatah and the PLO, and their own public ratings. Hamas’s popularity, while marginally better, is also suffering, despite its continued dominance in student politics.

This generation of Palestinian leaders – whether from Fatah or Hamas – undoubtedly has the most intrinsic desire for continuity and stability, and is therefore the least likely to radically break from the current strategy, even if some changes cannot be discounted.

But many Palestinians, including a majority of the youth population, have become alienated from established political parties, and the Oslo-configured middle east process, and are desperate for new leadership and liberation strategies.

There is a new alternative, and younger, leadership emerging in the West Bank, East Jerusalem, Gaza, and the diaspora, that could potentially meet such criteria. These younger leaders and activist see the Trump plan as highlighting both the demise of the Oslo-configured two state paradigm and the need for alternative liberation strategies.

For many younger Palestinians, a new strategy will have to include the demand for equal rights within the existing one state reality (potentially without taking a collective position on two states or one state as the final goal). Along with this comes an emphasis on reviving the Palestinian national movement and promoting new forms of popular representation (at home and abroad). In parallel, there is another, equally as young, portion of Palestinian society that may gravitate towards a more confrontation approach, whether targeting Israel, its settlers, or the PA.

While a new generation of Palestinian leaders are playing increasingly important roles in grassroots mobilisation and international representation, the restrictive and exclusionary policies pursued by the main Palestinian parties, combined with Israeli detentions, are hampering their ability to compete at the national level. While this weighs against them over the short term, their age in comparison to the current generation of Palestinian leaders means that they may still prevail over the longer term. As such, the ideas which they are now discussing are perhaps more representative of where the Palestinian national movement is going.

Religious Parties: A Crucial Needle in the Israeli Vote Davide Assael | 28 febbraio 2020

To understand the extent of the upcoming Israeli elections on March 2, I think we have to start a little further back. At least since the last decade of the last century. 

The 1990s were defined as the period of Israeli “Constitutional reform, as they were characterized by an unprecedented activism of the Supreme Court. Since the birth of the state until then, the court had limited itself to promulgating fundamental laws (in Israel they replace the constitution) concerning the state’s power structure. In the Nineties the tone of the measures began to change. In 1992 the law on human dignity and freedom was promulgated, two years later the law on freedom of occupation (considering the context, it should be underlined that occupation meant jobs). The legislators were moved by the intent to fix what was expressed in the charter of ’48, which defined Israel as a “Jewish and democratic state”. However, in the conservative and religious circles of Israeli society the turning point was perceived as an unacceptable shift of the balance needle in a liberal direction to the detriment of the Jewishness of the nation. Following the old pendulum rule, what followed was a reaction in the sense of identity. This reaction had several consequences. The most striking was the birth of a new nationalist right wing, whose two most prominent figures were Naftali Bennet (founder of the Habayt Hayeudi, “The Jewish House”, party) and Ayelet Shaked. 

For twenty years the most skilled in taking advantage of the new scenario has been Prime Minister Benjamin Netanyahu, who worked hard to become the leader of this new identity front. But in the Middle East, it is known, identity and religion are hardly divisible concepts. The space has therefore been created for Israeli religious parties to play their own game, with the aim of influencing the country’s politics. When we refer to religious parties in Israel we have to underline the large differences among them and remember that two Jews usually have three opinions. Since the origin of the state (and perhaps even earlier) two fronts had been established: one religious-Zionist, in favour of a conciliation between the religious and national spheres, the other composed of the haredim (literally, the feared), always skeptical of the state of Israel, considered culpable of being the result of secular-modern culture instead of being constituted on a messianic basis. In Western language this second group is called “ultra-Orthodox”. But, as we said, two Jews have three opinions, so even here it was impossible to create a common container. The haredim parties are divided into: Yahadut HaTorah (“Judaism of the Torah”) and Shas. The first, a de facto continuator of a party founded in Poland in 1912, is the result of the union of Agudat Israel (“Union of Israel”) and Deghel Israel (“Flag of Israel”). If the first one represents the Hasidic current (a mystical current today more than anything else devoted to Jewish proselytism), the second is an expression of Lithuanian Judaism, which has had so much weight in the interpretation of the Scriptures. Shas, founded in 1983, is instead an expression of Sephardic and Misrachi Judaism. Its charismatic leader was Rav Ovadia Yosef, Chief Rabbi of Israel from 1973 to 1983, who died in 2013. 

In recent years these parties have been increasingly decisive for maintaining the coalition led by Netanyahu, which, with its peculiar unscrupulousness (you don’t have to be an expert on Machiavelli to recognize how much unscrupulousness in politics is a virtue), did not hesitate to make alliances with a world that does not belong even to a small extent to his human and political biography. Showing a remarkable ability in political bargaining, these parties managed to orient Israeli politics, obtaining a series of successes. First of all, confirming the rabbinic monopoly on conversions (here the conflict is with reformed Judaism) and on marriages, as on other areas of public life. Then, on the so-called “Law of the Wall”, where Netanyahu bowed to the most extreme demands, repeatedly contradicting himself. No mixed prayer area, where women and men can pray together. Third, with the Military Service Law[1]. This deserves a separate chapter. It is sufficient to say that the haredim communities benefit from special exemptions from the early years of the state. Exemptions which have gradually extended to anyone who pronounces the formula “The study of the Torah is my occupation”.

The rest is recent history: Avigor Liberman, founder of Israel Beitenu (“Israel our home”), an expression of the secular right, did not accept the rejection of ultra-Orthodox parties to revise the military service law, condemning Netanyahu’s government to fall. The center-left coalition reorganized around the figure of Benny Gantz, founder of Kahol-Lavan (“Blue and White”), forcing Bibi into a draw. A majority was not found and – which is unprecedented for Israel – citizens returned to the polls a second time. Another stalemate. The third election will take place on March 2. The country is exhausted. The disaffection towards politics grows, even if the voting percentages remain high, but driven by the extreme wings, which are involved in the game. The polls show an absorption of the smaller parties by the larger ones, but the balance between the two sides does not seem to have changed. Liberman has already said that this time he will guarantee the country a government. Going in which direction? The responsibility on his shoulders is enormous. First, to represent a bridge in an increasingly polarized country, one therefore more vulnerable to the enormous external pressure to which it is subjected. Second, to indicate the way for the future of Israeli identity. In what sense should the dialectic established by the founding fathers between Jewish and democratic values be redefined? Where to set the new limit? Because Israel is facing the same problems as all democracies around the world, where we are witnessing identity reactions following decades of openness and naive dreams of breaking down all limits. Except that in these parts the balance between universal and particular is called Zionism. The question is then legitimate: will Israel still be a Zionist state?

]Instead, we could be surprised by the skeptical reaction of the haredi world to the Law of the Nation enacted in 2018, which was due to the belief that it implied further secularization of the state.

Will Israeli Arabs Tip the Balance in the Elections? Claudia De Martino | 28 febbraio 2020

At a time when the political debate about state identity rages, the Palestinians of Israel, the biggest non-Jewish minority of the country (21% of the population), represent both the greatest electoral challenger and one of the few contradictory voices in an otherwise predominantly right-wing domestic electoral debate.

Despite running again in the next elections as a single slate – the Arab Joint List –, the Palestinians of Israel are a heterogenous group made up of four different parties (Hadash or the Democratic Front, Ra’am or the Southern Islamic Movement, Ta’al or the secular party and Balad or the national-secular party) divided along religious and political lines. From the group – despite their living in the “complete and united capital of Israel” (Basic Law 5740/1980) – are excluded the 350,000 Palestinians of Jerusalem enjoying a separate status, that of “non-citizen permanent residents of the State of Israel”, yet not entitled to vote in national elections: their condition is still pending and increasingly critical given the fact that East Jerusalem, according to the “Deal of the Century”, could never be returned to a Palestinian state, an accidental outcome eventually leading to their mass application for Israeli citizenship.

Notwithstanding all their internal cleavages, the single fact that all the Arab parties had been able to toss aside their respective differences and merge together in a single list is already a major achievement. The decision to run united once again, as in 2015 and September 2019, is the proof they had understood their political potential as the third major Knesset bloc, likely to be assigned key roles in both parliamentary committees and state institutions either way, whether supporting the government from outside or from the opposition ranks. In fact, the largest party outside the government coalition appoints the opposition leader, a key figure involved in all security briefings, consulting monthly with the prime minister and entitled to rebuttal speeches at the Knesset: thus the Joint List is anyhow predicted to play a major role in the forthcoming 23rd Knesset.

Given the current political stalemate between the two major political parties (Kahol Lavan and the Likud, competing in a head-to-head race – 36 to 34 seats – to build a coalition government) and the desperate attempt of both blocs to win 2 to 3 extra seats, the Joint List is able to pull the strings even tighter. By boosting an already increasing Arab turnout (rising from 49.2% in April 2019 to 59.2% in September 2019) even by a little, the Arab vote could potentially translate into two additional seats allocated either to the Joint List (for which 81.8% of the Arab preferences are cast) or to Kahol Lavan, the centre-right party, already chosen among the Jewish parties by the most Arab voters in the last round of elections. Either way, a higher Arab turnout would contribute to paving the way for the ousting of incumbent Prime Minister Benjamin Netanyahu, rightly or wrongly identified as the first enemy of the Arab minority. This in spite of the acknowledged success of his economic endeavours, among which stands the “Five Years Plan 2015-2020” investing 20 billion shekels in the so-called “Arab sector” by assigning funds to local authorities to build infrastructures and boost education. The plan achieved concrete results, such as the roll-out of the first public transportation in Arab cities, a net increase in communities’ employment rates and in attainment of a sensitive increase in those with higher education (70% of Arab students enrolled in colleges and universities), though the Likud government underperformed in housing, crime and poverty reduction. However, the most serious responsibilities ascribed to Netanyahu relate to his relentless support for settlement construction and open disregard for Arab voters shown by installing cameras in polling stations in September 2019 and labelling them an “internal enemy” aimed at overturning the Israeli democracy from within. Consequently, Bibi’s current hopeless bid to regain some Arab voters by promising to launch direct flights to Mecca at discount rates for Muslim pilgrims appears to be an empty and belated gesture, likely to fall on deaf ears.

The Arab Joint List has also gained experience throughout the last four years. After the bold move to support a prospective Gantz government in the post-September 2019 coalition talks, it has not been disheartened by the Kahol Lavan leadership’s decision to corner it out of the political game, pledging not to include it in any government. It knows that appearances are deceptive and, notwithstanding Benjamin Gantz’s firm tone of rejection, his party is opening up to Arabs and reaching out to them, reassuring the Palestinians of Israel living in the so-called “Triangle” (the eastern side of the Sharon plain in the Galilee with the highest concentration of Arabs, 92% of all residents) against the potential “relocation” to a future Palestinian State envisaged in the “Deal of the Century” and promising to fight crime and further close educational and income gaps. In addition, public opinion is sensibly shifting in its favour, as proved by a recent Channel 13 survey showing that 44% of Jews would consider “legitimate” a government supported by Arab parties against 33% totally opposed to the idea. Furthermore, some Jews ditched by their progressive left-wing party (Meretz, merged with more centrist forces) are willing to break ranks and consider voting for the first time for an Arab List: a swing vote that could potentially translate into two more seats brought about by those disheartened Jews.

All things considered, the mounting tide of forthcoming change at the helm is working in their favour and makes the Arab List even more ambitious. Currently projected in the polls to win between 13 to 14 seats, it has set its sights on 16, considering itself able to raise the stakes if able to win the preferences of both the sceptical and quitter Arab voters and those of the Jews at the fringes. Unsurprisingly, the List had launched a campaign dedicated to each Jewish minority, targeting the ultra-Orthodox under the banner of the common fight against the “military draft”, the Ethiopians by the catchword of “combatting police brutality” and the Russians by way of promoting equality against the ultra-Orthodox religious establishment.

The main goal is twofold: gaining credit both as a true national force with a progressive and comprehensive platform open to Jews and Arabs alike and changing the overall narrative, no longer portraying the Arabs as a problem but rather as an asset for the state of Israel. It does so by running campaign slogans in the interest of the many under the pioneering and enlightened leadership of its chairman Ayman Odeh. By advocating equality, the List claims to work to preserve the democratic character of the Jewish state, so far threatened by many Jewish groups and right-wing parties, by demanding equality, by cross-sectionally catering to the rights of other minorities too, and by repealing the Nation-State law, rejecting the Law of Return and calling for the “recognition of the rights of displaced persons” (a key point in the Joint List’s platform) to lay the foundation for a just peace that would imply the return of some Palestinians into what is currently Israel. In sum, the Arab Joint List places itself to the left of the Israeli political spectrum, filling a staggering void but also relying on the strength of numbers, being perfectly aware that, whatever the bombastic attacks coming from the Jewish parties, the 21% of Israelis the Arabs represent are there to stay, cannot be permanently ignored and will be increasingly vocal in politics too.

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