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La pandemia dell’antisemitismo, le mutazioni dell’antisionismo

Gabriele Eschenazi Gariwo 12 maggio 2020

Cartelli con svastiche, accuse agli ebrei di essere i portatori del corona virus. L’estrema destra americana è scesa in piazza a fine aprile negli stati americani governati dai democratici per manifestare contro le restrizioni adottate per fermare la pandemia. E ancora una volta hanno trovato negli ebrei il loro principale bersaglio. È successo in Minnesota e in Illinois con attacchi frontali alla governatrice Gretchen Whitmar e al governatore J.B. Pritzker di origini ebraiche. Ma situazioni analoghe si sonno verificate anche in Wisconsin, Pennsylvania e Virginia.

Organizzazioni ebraiche come la JCPA (Jewish Council for Public Affairs) o l’Anti-Defamation League hanno subito fatto sentire la loro protesta, ma la prima reazione di Trump con uno dei suoi soliti tweet non è stata incoraggiante: “Questa è bravissima gente, ma sono arrabbiati. Li vedremo, gli parleremo, faremo un patto”. Poi a correggere il tiro ci ha pensato Elan Carr, inviato speciale del Dipartimento di Stato per la lotta all’antisemitismo: “Il mio ufficio sta rilevando nel mondo, soprattutto nei social media, uno tsunami di antisemitismo legato alla pandemia e alla crisi economica” ha detto.

Contro il virus delle teorie cospirative non è mai stato trovato un vero e proprio vaccino. E anche oggi al tempo del Covid-19 questo virus ha cominciato a diffondersi rimettendo nel mirino gli ebrei come da tradizione e non solo negli Usa. Ne parla il Centro Wiesenthal con un saggio specifico curato da Harold Brackman. Agli ebrei e Israele vengono attribuiti sia la colpa di aver creato il Covid-19, sia quella di volerlo sfruttare per propri fini o economici o politici. Le fonti delle accuse sono gli ambienti dell’estrema destra e del fanatismo islamico. Diversi sono gli episodi enumerati dal Centro Wiesenthal. Tra questi: l’Iran che accusa Usa e Israele di voler lanciare una guerra mondiale batteriologica, la tv irachena Al-Ayam che attribuisce ai Rothschild la responsabilità del virus così come lo sarebbero stati delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il gruppo di ricerca Louis Farrakhan che ipotizza che Israele abbia inventato il virus per poi fare i soldi con il vaccino. Non mancano, come riporta la CNN, le inevitabili accuse a Soros lanciate da Michael Caputo, attuale portavoce del Dipartimento della Salute americano, che prima della sua nomina aveva affermato che l’agenda politica di Soros richiede una pandemia. Anche il professor Yehuda Bauer sulle colonne del quotidiano Haaretz ha lanciato l’allarme per un antisemitismo che si nutre sempre degli stessi stereotipi e fa l’esempio di Assad al-Azzouni, un noto scrittore giordano, secondo il quale il Corona virus può essere solo il prodotto dell’odio che gli ebrei spargono nel mondo e una ricompensa a Trump per aiutarlo a farsi rieleggere. Le calunnie antisemite non fanno alcuna differenza tra comunità ebraiche della diaspora e Stato d’Israele. In questo contesto antisemitismo, antisionismo e anti-israelianismo si sovrappongono e affondano le loro radici in un odio millenario mai sopito. Tuttavia nella vasta casistica del fenomeno dell’antisemitismo c’è chi fa dei netti distinguo tra l’odio verso l’ebreo e quello verso il sionista. La definizione di quest’ultimo termine si presta a diverse interpretazioni soprattutto se disgiunte dal suo autentico significato storico.

Per chiarire i termini della questione non rimane che analizzarla su due piani differenti: quello storico e quello legato invece all’attualità dello Stato d’Israele, vittima di una crisi politico-ideologica senza precedenti nella sua pur breve e intensa storia.

Sappiamo quanto sia ancora forte oggi in Europa la memoria della Shoah e quanto questa susciti sentimenti positivi e negativi nello stesso tempo e quanto spessa essa si leghi a Israele. Così se una svastica accompagna su un muro il termine Juden e invece in un altro il termine Israele non possiamo fare a meno di pensare che si tratti di manifestazioni di antisemitismo in entrambi i casi e che le radici di questi episodi siano di fatto le stesse: un odio profondo verso gli ebrei come individui e come comunità collettiva.

Per sfuggire a questo odio non sono bastate nella storia assimilazione, isolamento, emigrazione, integrazione. Poi alla fine del ‘900 in seno agli ebrei europei si è fatta strada l’idea di dare una definizione nazionale dell’ebraismo, che superasse la tradizione e la religione, collanti secolari dell’identità ebraica. Quest’idea ispirata anche dal Risorgimento Italiano prese il nome di sionismo e si concretizzò in un movimento politico sancito dal primo congresso sionista convocato a Basilea dal 29 al 31 agosto del 1897. Il progetto di uno Stato ebraico era la possibilità di offrire agli ebrei, religiosi e atei, un contesto nel quale poter essere padroni del proprio destino. Alla domanda sul significato del sionismo il filosofo Yeshayau Leibowitz soleva sempre rispondere: “Gli ebrei hanno costituito lo stato d’Israele perché stufi di essere governati da altri”. Questa legittima aspirazione nazionale, riconosciuta sul piano internazionale prima dalla Dichiarazione Balfour del 1917 e poi trent’anni dopo da una risoluzione dell’ONU, è diventata bersaglio di una nuova forma di antisemitismo: l’antisionismo, cioè la negazione al popolo ebraico del diritto di autodeterminarsi. E si è trattato di uno sviluppo simultaneo. Il “complotto sionista” è diventato sinonimo di “complotto giudaico”: uno Stato ebraico pensato non per autodeterminarsi, ma per governare il mondo come avevano raccontato nel 1903 I Protocolli dei Savi di Sion e successivamente anche Hitler nel Mein Kampf, che attribuì agli ebrei anche la colpa del bolscevismo.

Successivamente i regimi comunisti dell’Est europeo nel dopoguerra perseguitarono i propri cittadini ebrei accusandoli di sionismo per emarginarli non solo quando manifestavano la volontà di emigrare in Israele. Definire un ebreo sionista bastava per poterlo perseguitare pensando di neutralizzare così l’accusa di antisemitismo.

Ai denigratori del sionismo si aggiunse pure l’ONU, che pure aveva fatto nascere lo Stato d’Israele. Avvenne il 10 novembre 1975 con la risoluzione ONU che definì il sionismo «una forma di razzismo e di discriminazione razziale»: un tentativo per delegittimare lo stato d’Israele. Questa risoluzione fu poi ritirata nel 1991 prima della conferenza di Madrid sul Medio Oriente.

Antisionista per principio è stato a lungo anche il mondo cattolico, tanto che solo nel dicembre 1993 il Vaticano riconobbe lo Stato d’Israele.

Nel tempo, e oggi sempre di più, l’esercitazione del diritto di autodeterminazione è diventato la garanzia della continuità dell’esistenza ebraica. Oggi, infatti, nel mondo quasi il 50% degli ebrei, che si riconoscono come tali, risiede in Israele. Il suo sviluppo economico e demografico è stato tale che oggi pare davvero un’assurdità che esista ancora chi ne metta in dubbio l’esistenza. Come afferma lo storico ebreo francese Georges Bensoussan (Una città 11/2004): “Il sionismo è una rivoluzione intellettuale e chi afferma che lo Stato d’Israele, oggigiorno, nell’Europa democratica e dei diritti dell’uomo, non ha più alcuna giustificazione, non ha capito nulla del sionismo. Non è la Shoah l’origine della nascita dello Stato d’Israele. Anche senza Shoah oggi esisterebbe lo stato israeliano. Anche in questo caso si parte da un’idea falsa degli ebrei, considerati tali solo dal punto di vista strettamente religioso. Si continua a non rendersi conto che gli ebrei, oltre a essere una religione, sono anche un popolo”.

Gli antisionisti vedono nella nascita d’Israele una sorta di “peccato originale”, la causa prima del conflitto arabo/palestinese/israeliano. Questa è stata a lungo la posizione anche di tutto il mondo arabo, che a lungo ha considerato Israele, uno stato coloniale fondato da europei estranei al Medio Oriente. L’odio verso Israele e il sionismo è stato traslato nelle moschee e ha assunto connotati religiosi sempre più estremi. I trattati di pace con Egitto e Giordania e gli accordi di Oslo non hanno contribuito, come ci si sarebbe potuto aspettare, a cambiare presso le popolazioni arabe la percezione negativa di Israele, del sionismo e degli ebrei in generale fatte salve alcune eccezioni come, per esempio, il Marocco e gli Emirati Arabi.

Che gli antisionisti non siano semplicemente coloro che criticano la politica dei governi israeliani ha cercato di spiegarlo sul quotidiano Haaretz Dan Miron, professore emerito di letteratura ebraica all’Università di Gerusalemme. Secondo Miron negli Usa chi dichiarandosi antisionista si oppone solo alla politica dei governi israeliani è definito con disprezzo “rosa”. “Alla base dell’antisionismo intellettuale al quale mi riferisco c’è, molto semplicemente, la richiesta di annullare l’esistenza dello Stato d’Israele”, dice il professore, che approva senza riserve la decisione del Parlamento Francese. “Macron e anche altri parlamenti europei hanno capito che l’antisionismo per principio non è semplicemente anti-israelianismo, ma è una delle forme dell’antisemitismo contemporaneo”.

La presa di posizione francese mira a togliere terreno sotto i piedi del movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) così come ha già fatto il parlamento tedesco e si è proposto di fare quello austriaco. I fautori del boicottaggio generalizzato d’Israele e dei suo cittadini non potranno più essere equiparati nei finanziamenti a organizzazioni no profit.

Se da una parte sembra inevitabile constatare che esista una sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo nell’opinione pubblica mondiale, dall’altra non si può ignorare come nello stesso mondo ebraico e israeliano il sionismo sia oggetto di negazione e strumentalizzazione. Ancora oggi i partiti religiosi ortodossi, Shas e Yaadut Hatorà, si considerano “non sionisti” così come ovviamente i partiti arabi uniti nella Reshimà Hameshutefet, orientata però ultimamente più verso la condivisione che non la contrapposizione. Di fatto oltre il 20% della Knesset (parlamento israeliano) è composto da non sionisti, da coloro cioè che non si riconoscono nel sionismo l’ideologia fondante dello Stato, che d’altra parte è fortemente strumentalizzata dal Likud e dalla galassia dei partiti di destra. Un esempio su tutti è la “Legge della Nazione”, che ribadisce l’esclusività ebraica nell’identità dello Stato d’Israele, peraltro già definita dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Il testo di quest’ultima sancisce da una parte che “Lo Stato d’Israele sarà aperto all’immigrazione di ebrei da tutti i Paesi della loro dispersione” e dall’altra che “Lo Stato promuoverà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti; si baserà sui precetti della libertà, della giustizia e della pace insegnata dal Profeti ebraici; rispetterà la piena uguaglianza sociale e politica di tutti i suoi cittadini, senza distinzione di razza, credo o sesso”. Uno Stato ebraico e democratico come ha sempre cercato di essere dalla sua fondazione. Ma oggi sembra che “ebraico e democratico” siano due definizioni sempre più difficili da tenere insieme tanto che invece di essere complementari stanno diventando sempre più alternative – e questo lo si deve soprattutto alla persistente occupazione dei territori conquistati dall’esercito israeliano nel 1967 e dove vivono tre milioni di palestinesi e 700mila ebrei israeliani. La soluzione due Stati per due popoli, oggi lontana, prevede uno Stato ebraico e uno Stato palestinese, ma se lo Stato diventasse definitivamente unico non potrebbe che essere democratico ed ebraico/palestinese. Il disegno del sionismo originario sarebbe stravolto e a condurre a questo risultato sarebbe proprio la destra nazionalista israeliana. Oggi dunque essere sionista o filosionista significa sempre più schierarsi contro la politica di Netanyahu e contro l’annessione dei territori, che potrebbe a breve diventare in parte realtà con l’appoggio di Donald Trump e del nuovo alleato Benny Ganz.

Schierarsi contro il populismo e il nazionalismo israeliano non significa essere antisionisti né tanto meno antisemiti, ma esattamente il contrario. E non è un caso che la destra nazionalista israeliana con Netanyahu in prima fila abbia interesse a definire antisemita chiunque critichi la loro ideologia e contemporaneamente chiuda gli occhi di fronte al risorgente antisemitismo di regimi populisti come quello di Viktor Orban in Ungheria o Jair Bolsonaro in Brasile.

Essere filoisraeliani e antisemiti nello stesso tempo è la loro paradossale strategia. E ad assecondarla c’è proprio Netanyahu anch’esso populista e nemico del sistema democratico.

Eppure se c’è una strategia perdente per il popolo ebraico è proprio quella di allontanarsi dall’idea che l’antisemitismo potrà essere limitato solo da chi rimane fedele ai valori democratici universali che difendono la libertà e l’identità di tutti allo stesso modo.

Analisi di Gabriele Eschenazi, giornalista

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David Grossman: “Non scrivo più da maschio” La lezione di un grande autore: “Soltanto l’empatia può salvarci”

Wlodek Goldkorn 25 Ottobre 2019 Repubblica

È come se fossi incinto: una sensazione di felicità che si ha quando ci si accorge che una nuova vita alberga in te e che questa vita sta per venire al mondo”. David Grossman inizia così, con una confessione al femminile, questa conversazione: per dire di essere pronto a scrivere un nuovo libro. E forse non è un caso. Intanto, perché nei romanzi dello scrittore israeliano le donne hanno un ruolo chiave. Sono madri che rifiutano la notizia della morte del figlio militare (A un cerbiatto somiglia il mio amore), cercano addirittura di cambiare il passato (Che tu sia per per me il coltello), riescono a riportare l’amore nel cuore di un uomo che del rancore ha fatto la ragione della sua vita (Applausi a scena vuota). A tutto questo torneremo nel corso di questa intervista, concessa in occasione dell’uscita in Italia (con Mondadori) di La vita gioca con me. Un libro, tradotto da Alessandra Shomroni, che racconta tre generazioni di donne: una nonna, una figlia, una nipote. Ma poi, parlare con la voce femminile riflette l’immaginario e i sogni degli israeliani oggi. Grossman, nato a Gerusalemme nel 1954, sei anni dopo la fondazione dello Stato degli ebrei quindi, è come una specie di barometro che indica il tempo e la qualità dell’aria che si respira. Guardandolo dritto negli occhi (che con molta rapidità alternano espressioni di gioia con altre di una profonda tristezza, ma prevale la gioia), ma anche leggendo i suoi romanzi e libri per bambini, si percepiscono i desideri nascosti, le paure non dette, l’inconscio collettivo di Israele. Oggi fra Tel Aviv e Gerusalemme c’è un’atmosfera di grande incertezza: dopo due elezioni politiche in pochi mesi non si riesce a costituire un governo, mentre l’intera regione attorno sta diventando un luogo più pericoloso che mai, tra guerre vere e minacciate.


Così si assiste a una specie di ritorno o forse al bisogno di recuperare gli inizi della saga di un Paese. Una saga dove si mescolano il racconto della volontà dei pionieri, forti e sicuri di sé, con la narrazione dei sopravvissuti alla Shoah, timorosi perfino di sognare perché la notte portava indicibili incubi. In questa riscoperta delle fonti, mitiche e mitologiche, le donne hanno un ruolo centrale. Sono forti, talvolta soldatesse, ragazze che parlano e ridono a voce alta, non sempre hanno i bisogni dei maschi, e quando occorre, sparano. Si sente perfino la nostalgia di Golda Meir, a capo del governo nei primi Settanta, per anni considerata un pessimo politico e oggi rivalutata, se non nella storiografia, nei sentimenti della gente. In questo ritorno alle origini c’è anche l’immagine delle donne distrutte nel corpo e anima nella catastrofe europea e che una volta approdate qui, hanno tentato una guarigione. Ecco, le tre donne dell’ultimo romanzo di David Grossman sono forti, seppure siano reduci di esperienze estreme in Europa. Hanno sfiorato, direttamente o attraverso il racconto famigliare, la morte, conosciuto il sapore del tradimento e dell’abbandono. Ma alla fine vince la vita. La vicenda si basa su una storia vera. La nonna di La vita gioca con me è stata partigiana con Tito in Jugoslavia, poi prigioniera a Goli Otok, un’isola che fu una specie di gulag nell’Adriatico, infine membro di un kibbutz in Galilea e militante di Donne in nero, un movimento di israeliane e palestinesi che si oppongono all’occupazione. Ed è anche una donna che dopo aver perso la famiglia nella tragedia del Vecchio Continente, nel kibbutz ne crea un’altra e ne diventa il capo, matriarca indiscussa e leader inflessibile.

Lei, Grossman, è entrato nei panni femminili. Racconta i sentimenti più intimi di tre donne. Non ha avuto paura?
“Scrivere come se fossi tre donne, una 90enne, una 65enne e la terza 40enne è stata una sfida. Uno degli sforzi più grandi era introiettare il linguaggio di ciascuna delle tre. E non solo la lingua ma le loro emozioni. Ho voluto fare l’esperimento di far vivere dentro di me donne sofisticate, forti, intelligenti. Io scrivo perché voglio dare la voce a qualcosa dentro di me che non riesco a esprimere in nessun altro modo. Dentro ognuno di noi ci sono tante opzioni che non mettiamo in atto nella nostra vita quotidiana. Potrei forse da un giorno all’altro cominciare a comportarmi da donna? Penso di no. Mi guarderebbero male. E poi sono convinto che ognuno di noi porti dentro tante identità per così dire pietrificate, congelate. Talvolta più che uno scrittore mi sento un massaggiatore. Massaggio e accarezzo certe parti per scongelarle”.

Diciamolo, lei è un maestro di empatia. Tanto che anche quando parla di sé lo fa attraverso i protagonisti dei suoi romanzi. Lei abita davvero i corpi e le anime delle persone cui dà la voce e immagine. Ma poi queste persone del tutto inventate quella voce gliela restituiscono, come se fosse vera. Già in “A un cerbiatto somiglia il mio amore” lei entra nella testa e nella pancia di Ora, una donna ribelle, che rifiutando una notizia cerca di rifiutare il linguaggio e il sistema.
“Ci ho messo due anni e mezzo per capirla. Non riuscivo a raccontarla. Poi, all’improvviso ho compreso. Il mio errore era un errore da maschio, volevo che Ora si concedesse a me. E invece dovevo essere io ad aprirmi a lei. Il personaggio di Ora ha qualcosa di unico. Non è classificabile. In una società polarizzata come è quella israeliana, lei è una donna che talvolta parla come se fosse di destra, altre come una militante della sinistra. Forse questa capacità di vivere la contraddizione nella propria carne è una caratteristica femminile. Non saprei”.

Lo è. E infatti lei è così bravo a vivere nei personaggi che inventa e crea, perché è conscio come pochi altri che il mondo non è bianco o nero. Ma vorrei insistere. In fondo, da maschio, non ha paura di questa intimità femminile?
“Paura? No. Guardi, in tutti gli ambiti della vita si può essere un po’ codardi, ad eccezione della letteratura. Se sei vigliacco non sarai mai capace di scoprire qualcosa di nuovo, di darti a qualcosa o qualcuno che non conosci ancora, o diventare appunto persona di un genere diverso del tuo. Faccio un esempio: Nina”.

Aiutiamo i lettori. Nina è la figlia di Vera, la nonna di “La vita gioca con me”. Vera l’ha abbandonata quando era bambina, per restare fedele alla memoria del marito accusato, sempre in Jugoslavia, di essere un traditore. Vera è una donna che ha scelto di andare in prigione, di finire ai lavori forzati, incurante delle conseguenze sulla figlia. E così Nina, traumatizzata, una volta diventata adulta non riesce a trovare da nessuna parte un suo posto. E finisce per fuggire verso l’estremo Nord dell’Europa.
“Finisce oltre il circolo polare, a Svalbard, il luogo più estremo sulla faccia della Terra. Ci sono andato due volte. Ero in un paesino abitato da duemila persone e, attorno, tremila orsi polari affamati, che qualche volta attaccano gli umani, per cui per strada devi camminare armato o accompagnato da qualcuno con il fucile. Una notte, ho camminato solo e disarmato dal bar dove avevo cercato la compagnia di qualche persona fino alla pensione dove abitavo. Volevo sentire la paura. Volevo provare le emozioni di Nina. E giuro, ho avvertito gli artigli dell’orso sulla mia schiena, nella mia carne. Lei mi ha chiesto se ho mai temuto a causa delle cose che racconto: non mi è concesso aver paura, anche perché parlo di donne in rivolta e che si rifiutano di dare allo Stato il diritto di gestire la morte dei loro cari”.

Viene in mente la vicenda di suo figlio Uri, morto da soldato nella guerra in Libano nel 2006.
“Sì, sono un padre che ha perso il figlio. E da quel giorno, il mio cognome è lutto (lo scrittore usa il termine ebraico riservato ai genitori che hanno perso figli, shkol, ndr), ma dentro quel cognome “shkol”, congelato, generico, quasi da cliché, posso rivendicare il mio diritto a un nome che non sia il cognome. Posso muovermi liberamente e non in ubbidienza alle definizioni che mi dà il governo, il lessico militare, l’esercito. Io posso continuare a scrivere le mie storie”.

Lei come le donne dei suoi romanzi si rifiuta di essere una vittima ma rivendica allo stesso tempo il diritto al dolore. Dice, nella vita e nei libri, che il lutto non esclude il desiderio.
“In questo romanzo racconto le protagoniste che si rifiutano di essere vittime e che cercano di guarire la ferita che passa di generazione in generazione. E forse alla fine sono capaci di provare un sentimento che assomiglia al perdono e alla pietas. Smettono di incolpare l’una l’altra”.

Questo nel romanzo. E nella vita vera?
“Sono sempre stato affascinato dalla questione di colpevolezza. Per me la scrittura è un modo per capire una colpa primaria, una colpa di cui qualche volta ero complice”.

Sta dicendo una cosa che aveva intuito Primo Levi, la vergogna è anche quella del testimone.
“La colpa e la vergogna del testimone non è la stessa del carnefice. Però spesso siamo colpevoli perché non abbiamo impedito che qualcosa succedesse, anche se potevamo farlo. In Applausi a scena vuota c’è la storia di Dovale e di come il suo amico ha girato lo sguardo altrove, mentre a lui stava succedendo una cosa terribile. Così, noi qui in Israele. Io vivo in un luogo dove da 52 anni c’è l’occupazione e uno dei sintomi della malattia di cui soffriamo è che ci siamo abituati a girare lo sguardo altrove. Dobbiamo invece costringerci a guardare. Aggiungo un’altra cosa riguardo al ruolo del testimone. Io, nella vita, cerco un testimone empatico e penso che ognuno abbia il diritto a un testimone appunto che lo guardi con benevolenza”.

La benevolenza può guarire la ferita?
“Sotto la cicatrice la ferita resta. Ma parlando – e questo fanno le donne, in fattispecie quelle che io racconto – la carne sotto la cicatrice si fa più flessibile, meno rigida”.

Un’altra donna che lei racconta è Miriam del “Che tu sia per me il coltello”. Il titolo richiama le lettere che Franz Kafka ha scritto a Milena Jesenska. Miriam si mette nei panni di Milena e dice: “Fossi in lei, sarei andata a casa di Franz, lo avrei costretto a guardarmi dritto negli occhi”. Sembra che Miriam voglia cambiare perfino il passato. È una follia la sua, una volta si sarebbe detto una follia tutta femminile. Per noi maschi il passato è passato, si va oltre. Miriam invece pensa di riaprire il rapporto fra Milena e Franz. Ma leggendo quelle righe, ho pensato che in fondo quella è anche una sua follia, Grossman.
“Forse sì (ride)”.

Per lei cosa sono le donne nella vita, non nei romanzi?
“Posso dire che ho imparato molto dalle donne, dalle amiche, e tantissimo da mia moglie. I miei due grandi amici sono maschi, ma vedere il mondo solo con gli occhi del genere cui appartengo è limitativo e stupido. Non tutte le donne sono coraggiose e ricche d’animo. Ma io ho avuto la fortuna di aver incontrato nella vita donne sensibili, sagge, dotate di senso critico che mi hanno insegnato cose su me stesso. Grazie a loro capisco di più chi sono. Le mie lettrici migliori sono donne. E poi, le donne hanno il coraggio di esporsi al testo, anche a un testo estremo. I maschi invece vogliono solo vincere, o superare se stessi: e del resto in ebraico vincere, superare se stessi e maschio sono parole che hanno la medesima radice”.

Ancora una domanda. La nipote della Vera del romanzo è cineasta. Ma alla fine (e non facciamo spoiler) lei suggerisce che la parola è più importante dell’immagine, che in fondo la parola resta, l’immagine invece è provvisoria e volatile.
“Ne sono convinto. Ma vorrei aggiungere poche frasi su come è nato il libro”.

Prego.
“Un giorno, mi chiamò al telefono Eva Nahir-Panic, questo è il vero nome di Vera, per criticare un mio articolo che secondo lei non era sufficientemente duro con i coloni nei Territori occupati. E cominciò a raccontarmi la sua vita. La sua storia era quella di una ragazza ebrea borghese in Jugoslavia, che sposò un ufficiale serbo di origini contadine e si unì assieme al marito ai partigiani. Ma poi il suo uomo venne arrestato e morì in una prigione di Tito e lei finì ai lavori forzati a Goli Otok. Ogni settimana mi chiamava. Mi chiedeva se avrei scritto la sua storia. Dicevo che forse sì, ma che la sua storia sarebbe dovuta passare per il filtro della mia immaginazione. Un giorno sono andato a trovarla nel suo kibbutz. Lei raccontava e io, per una notte, un giorno e una notte ancora, scrivevo su un quaderno con la penna. Mi ha regalato la sua storia perché sapeva che avrei ascoltato anche quello che lei non ha detto. È morta quando aveva 97 anni. E mi manca”.

Wlodek Goldkorn

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La sinistra italiana e gli ebrei. Ma anche gli altri

David Bidussa commenta il libro di Alessandra Tarquini la sinistra Italiana e gli ebrei , 21 marzo 2020 Gli Stati Generali

La conclusione di Alessandra Tarquini nel suo libro su sinistra italiana e gli ebrei (il Mulino) consiste nel fatto che gran parte della sinistra quando si è confrontata con la propria memoria, ma anche si potrebbe dire con le linee essenziali e storiche della costruzione della propria identità politica e culturale, si è spesso preoccupata e confrontata con il timore del venir meno  dell’antifascismo “senza chiedersi come mai la cultura della quale sono espressione ha fatto così fatica a occuparsi degli ebrei” [p.286].

È una domanda corretta e, a mio avviso, centrata. Se ne potrebbe fare anche un’altra (che non smentisce questa, ma che forse aiuta comprendere un processo, tanto da contribuire a rafforzarla) ma lo accennerò solo in conclusione. Prima vale la pena raccontare il libro di Alessandra Tarquini.

Dunque, il tema è proporre un lungo excursus che parte con le premesse della nascista culturale della sinistra in Europa intorno alla Rivoluzione francese e poi ai molti nodi irrisolti della costruzione del pensiero socialista(Marx, ma soprattutto Blanqui, Toussenel, Proudhon, senza tralasciare i riformisti come Malon, una figura che ha un peso consistente nella costruzione culturale del socialismo italiano negli anni tra Comune di Parigi e fondazione del PSI – o gli operaisti come Guesde, una ricca famiglia di ritratti dove il linguaggio antisemita è spesso più forte tra i riformisti che non tra i rivoluzionari) per attraversare il profilo culturale delle molte famiglie politiche della sinistra in Italia più o meno dagli anni della fondazione del Psi (1892) fino al suo scioglimento e, in contemporanea, l’autoscioglimento del Pci per avviare la nuova avventura del PDS.

In quell’excursus la sensibilità (politica, culturale, emozionale, per certi aspetti anche genericamente umana) dimostrata dalle molte famiglie della sinistra in Italia prima alle condizioni delle diverse minoranze ebraiche in Europa è alquanto scarsa.

Prima è un discorso tra dispotismo e democrazia, per cui nella riflessione socialista la questione dell’antisemitismo è il marchio dei sistemi non democratici (Russia zarista in testa) anche se l’Affaire Dreyfus segna un campanello d’allarme sulla permeabilità traversale dell’antisemitismo disegnando schieramenti traversali tra destre e sinistre in cui l’elemento della “Nazione” ha un ruolo non indifferente (è un elemento che sistematicamente tornerà in tutte le svolte culturali delle sinistre quando manifestano il proprio antisemitismo ed è il punto di incontro di tutte le parabole culturali e politiche – individuali e di gruppo –  che da sinistra vanno verso destra nel corso del ‘900).

L’antisemitismo dunque per il movimento socialista (non solo in Italia, ma più generalmente nel linguaggio della II Internazionale) è un fenomeno che riguarda solo i propri avversari, non il proprio campo (nelle culture, ma anche nelle emozioni; per esempio questo è un aspetto che sarebbe utile scavare per capire come si forma il linguaggio anche antisemita della sinistra inglese, per molti aspetti diverso, ma non opposto a quello del conservatorismo inglese).

Questo tratto si conferma non solo negli anni tra le due guerre, ma anche nella lunga stagione del dopoguerra (la parte più consistente della monografia di Tarquini è concentrata sul secondo dopoguerra).

In quel secondo dopoguerra Tarquini individua varie stagioni ma anche non si limita a una sola agenzia, ma tiene conto di uno spettro ampio di figure, di gruppi dirigenti politici: dai socialdemocratici di Saragat, alle molte anime del Psi, ai comunisti, alla nuova sinistra. E inoltre non solo i partiti, ma anche i gruppi intellettuali o le riviste che hanno definito l’identità culturale delle sinistre italiane nel secondo dopoguerra (“Rinascita”, “Mondoperaio”, “Nuovi Argomenti”, “Il Ponte”, “Astroloabio”, “Tempo presente”; “il Manifesto” (in questa unga scorribanda non  sarebbe stato improprio, mi sembra di non averla mai incontrata, anche un breve cenno intravedere cosa accada quando compare una rivista come “MicroMega” o con gli effetti di una riflessione anche sulla questione dell’antisemitismo una volta che si apre il laboratorio della discussione sul dissenso all’Est negli anni ’80: penso per esempio auna rivista come “L’Ottavo giorno”, ma anche a cosa significa confrontarsi con le società civili dell’ex blocco sovietico, un tema che parla di oggi)).

In questo tratto due sono i temi della questione:

Il primo riguarda i temi del confronto e della riflessione del lascito culturale, politico, emozionale,..) dell’antisemitismo razzista del fascismo italiano (un tema che solo con gli anni’90 diventa una discussione sul paradigma culturale dell’identità italiana, e allora il tema da indagare è perché occorrano cinquant’anni per aprire un serio ragionamento sulle culture del razzismo italiano che, è bene ricordare, non significano solo antisemitismo) e, insieme, quelli dell’analisi di ciò che era entrato – e spesso non era entrato nella cultura fondativa dell’esperienza dell’antifascismo italiano, sostanzialmente poco sensibile al tema dell’antisemitismo).

Il secondo riguarda come la sinistra italiana a partire già dall’immediato dopoguerra riflette intorno al processo della nascita dello Stato di Israele e, più in generale, che immagine ha della questione israelo-palestinese (sullo sfondo si potrebbe anche dire che immagine ha della questione mediorientale più in generale).

Il primo riguarda come lentamente le culture sociali e politiche dell’antifascismo nell’Italia repubblicana siano state capaci di mettersi in gioco di fronte al fenomeno e all’analisi dell’antisemitismo – non solo nel fascismo – ma anche in ciò che era rimasto “attaccato” alle loro culture. In questo senso si trattava di fare i conti non solo col proprio passato generico, ma con il proprio passato autobiografico (la storia di Franco Fortini è esemplare da molti punti di vista e su questo Tarquini giustamente insiste).

Contemporaneamente si trattava di riflettere sull’idea di Italia mediterranea – altro elemento che pesca nella cultura lunga italiana, almeno dal nazionalismo dei primi anni del ‘900 – e su un suo possibile ruolo nel momento della ridiscussione della geografia della “Guerra fredda” nel corso degli anni’80. Lì mi sembra risiedere una delle matrici del fascino che quell’«antico mito» gioca nella riflessione di Bettino Craxi, e su cui ci sarebbe da scavare per individuare un tratto culturale sottotraccia dell’identità della cultura del socialismo in Italia nel corso del’900.E parallelamente lì sta una delle idee di “politica regionale” che muovono la riflessione politica negli anni del Pci di Enrico Berlinguer e poi nel Pds di Massimo d’Alema. Ma anche si potrebbe osservare nello scarso peso che ha la cultura – economica, politica, sociale- di pensare Europa a partire dagli anni ’70 in tutte le agenzie della sinistra (riformista, radicale, rivoluzionaria, “nuova”,….).

Un tratto che, significativamente romperanno solo alcune figure che hanno vissuto da marginali o da “esuli in patria” la riflessione per un rinnovamento del paradigma culturale della sinistra almeno dalla fine del “mito dell’Urss” o meglio che non hanno mai avuto il mito dell’Urss che hanno dovuto conviverci con estrema difficoltà

Ma anche riguarda una cultura del terzomondismo italiano, in cui ritorna un elemento di fascino del “primitivo” dell’antindustriale, di una visione eroicizzata del primitivo, nei cui confronti Furio Jesi già negli anni’70 metteva in guardia senza successo, né allora, né ora. Quel paradigma è ancora molto forte nella cultura e nel linguaggio di noi italiani (di sinistra, e di destra).

Gran parte del fascino – e qui mi immetto nel secondo tema della questione – che le sinistre italiane (spesso con un linguaggio non molto diverse da quello delle destre nazionaliste e rifondative dell’idea di Europa che guardano con entusiasmo al codice culturale dell’Italia degli anni ’10 del Novecento) hanno nei confronti della realtà politica, culturale, dei palestinesi e dei movimenti ha la sua origine nell’anti-industrialismo e, ancora di più, nel proprio antiamericanismo. Ma anche in quella cultura orientalista avrebbe detto Said, che nasce laddove proprio costruisce un paradigma vittimario di e steso e allo stesso tempo ha bisogno di santificare vittime per ché ha una visione della politica manichea, fondata sull’ansia di individuare il “portatore di bene”, di solito identificato con l’aver “subito la storia “ (in questo dimenticando che nella storia ciascuno ha una parte di responsabilità nella propria condizione, compresa la condizione di sconfitto, e che una possibilità di riscatto sta nell’affrontare preliminarmente le proprie responsabilità).

Tarquini ha il merito in questo libro sia di tener distinti questi due piani, sia di farli interagire, non confondendo, i piani di analisi.

Non è poco. Un’ultima questione che forse come scrivevo all’inizio che non smentisce l’impianto del libro, ma che forse aiuta comprendere un processo, tanto da contribuire a rafforzarlo.

Nella storia della cultura politica in Italia – lungo tutto l’arco dello schieramento politico e delle aree culturali – un peso rilevante lo ha la cultura della Chiesa.

Sul tema in questione quella cultura non è stata assente, anzi è stata molto spesso determinate e lo è stata, significativamente, nelle culture che nel secondo dopoguerra si sono confrontate con la questione medio-orientale a partire dal destino dei «luoghi Santi» perché in gioco, in chi detiene quei luoghi sta, anche, un segmento rilevante della propria identità, prima ancora che un segmento rilevante della propria storia.

Il linguaggio della Chiesa in Italia non ha avuto un peso rilevante solo nelle realtà dell’associazionismo cattolico direttamente espressione della Chiesa, ma lo ha avuto nella formazione dei quadri dirigenti di tutte le formazioni politiche italiane (nuova sinistra e nuova destra incluse) lo ha avuto nella formazione di ciò che si chiama rapporto tra “primo mondo” e “Terzo (o quarto) Mondo” nel secondo dopoguerra.

E lo ha avuto nel modo in cui si è discusso (più spesso non discusso) di antisemitismo.

Mi piacerebbe, un giorno, con la stessa acribia, trovarmi tra le mani un libro che provasse a connettere queste diverse storie in una storia che per molti aspetti non può non essere raccontata che “tutta intera “ e “a parte intera”

Alessandra Tarquini ci ha messo un pezzo. Non è poco. È importante. È anche importante, senza pretendere che ce lo consegni Alessandra Tarquini, sapere che cosa manca.

David Bidussa

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Antisionismo, una versione dell’antisemitismo

Michael Walzer da Vita e Pensiero 1-2020

(grazie a Giorgio Gomel della segnalazione)
Storicamente l’antisionismo si è manifestato all’interno dello stesso ebraismo, con le sue numerose varianti. Da tempo però coinvolge il mondo della sinistra, in Europa e negli Stati Uniti. Un antisionismo pericoloso come quello di destra

In un certo numero di campus universitari e in vasti settori della sinistra, l’antisionismo è una politica oggi di moda. Le organizzazioni ebraiche e di gran parte degli ebrei che conosco concordano nel dire che si tratta della versione più recente dell’antisemitismo.
Ma l’antisionismo è un problema a sé,e possiede molteplici varianti.Nelle pagine che seguono mi piacerebbe esplorare la sua variante antisemita. Ritengo che il “sionismo” rimandi all’idea dell’esistenza legittima di uno Stato ebraico, niente di più, e che l’antisionismo contesti tale legittimità. La mia preoccupazione, qui, concerne l’antisionismo di sinistra negli Stati Uniti e in Europa.

L’antisionismo ebraico
La maggior parte delle varianti dell’antisionismo si è dapprima manifestata fra gli stessi ebrei.La variante probabilmente più antica vede nel sionismo un’eresia ebraica.Secondo la dottrina ortodossa, il ritorno degli ebrei a Sion e la creazione di uno Stato sono opera del Messia e avranno luogo nei tempi a venire. Nell’attesa, agli ebrei viene ingiunto di accettare l’esilio, di obbedire ai governanti dei gentili e di attendere la liberazione divina. Ogni azione politica mirante ad affrettare il suo avvento è considerata un’usurpazione delle prerogative di Dio. Gli autori sionisti si opponevano alla passività prodotta da questa dottrina con tale passione che gli ebrei ortodossi li bollavano come antisemiti, benché essi non avessero mai chiamato così il proprio rifiuto del progetto sionista.
Attendere il Messia ha la sua versione di sinistra che potremmo chiamare attendere la Rivoluzione. Si è spesso detto agli ebrei (e alle altre minoranze) che tutti i loro problemi si sarebbero risolti solo con il trionfo del proletariato; molti ebrei hanno visto in una simile posizione una manifestazione di ostilità, un rifiuto di riconoscere l’urgenza della situazione in cui si trovavano. Da parte mia, non la ritengo tanto l’espressione di un antisemitismo, quanto una forma di rigidità ideologica e un’assenza di sensibilità morale.
La seconda versione ebraica dell’antisionismo è nata nella Germania del XIX secolo, tra i fondatori dell’ebraismo riformato. Non esiste un popolo ebraico, dicevano, esiste soltanto una comunità di fede – uomini e donne di obbedienza mosaica. Gli ebrei potevano essere buoni tedeschi (o buoni cittadini di un qualunque Stato), perché non erano una nazione come le altre e non aspiravano a fondare un proprio Stato.
Il sionismo era avvertito come una minaccia da parte dei buoni tedeschi perché suggeriva che gli ebrei fossero fedeli a un’altra alleanza.
Questo ha permesso da allora in poi a una corrente importante della sinistra di affermare che uno Stato ebraico è necessariamente uno Stato religioso, paragonabile a uno Stato cattolico, luterano o musulmano; in altri termini: una formazione politica inaccettabile per la sinistra. Tale posizione venne adottata dagli ebrei riformati, seppur consapevoli che gran parte dei loro correligionari non la condivideva.
Se la nazione è davvero un plebiscito giornaliero, come ha scritto Ernest Renan, possiamo dire che gli ebrei dell’Europa dell’Est, in grande maggioranza, votavano quotidianamente per il popolo ebraico. Non tutti erano in cerca di una patria in terra d’Israele, ma gli stessi membri del Bund, che speravano nell’autonomia degli ebrei nell’impero zarista, erano dei nazionalisti ebrei.
I primi riformatori volevano cambiare il corso e la natura della storia ebraica, ma non ignoravano la propria storia. Non vale lo stesso per i gauchisti, che si oppongono all’esistenza del popolo ebraico ma sono in gran parte ignoranti. Non sono vittime di ciò che i teologi cattolici chiamano «l’invincibile ignoranza»: in realtà quel che non sanno non vogliono saperlo; è questo che dovrebbe inquietarci.
Se cercassero di interessarsene, potrebbero istruirsi sulle ragioni dell’intreccio radicale tra religione e nazione nella storia ebraica. Non
si può separare la religione dal politico; se non possedete uno Stato non potete costruire un muro fra la Chiesa – o la Sinagoga – e lo Stato.
Fin dalle sue origini, il sionismo si è sforzato di mettere in moto il processo per districare quell’intreccio ed edificare uno Stato dove in cui prevalesse la laicità. Lo Stato di Israele ha oggi i suoi fanatici che contrastano tale sforzo, così come vi sono nazionalisti indù e zeloti musulmani che si oppongono ad analoghi sforzi nei propri Stati.
Affinché la sinistra, come potremmo attenderci, difenda ovunque la laicità, bisognerebbe che essa prendesse in considerazione il valore del progetto sionista originario.
Non direi che il pigro preconcetto secondo il quale l’ebraicità è un’identità puramente religiosa rientri nell’antisemitismo. Ma il rifiuto di riconoscere che un gran numero di ebrei, identificati in quanto tali, non sono religiosi, è un po’ strano. Non diciamo che sono “ebrei non praticanti” (come di un cattolico non religioso diremmo che non è praticante); sono semplicemente ebrei. Questo postulato secondo il quale non ci sarebbe un popolo ebraico che includa a un tempo i fedeli e i non-fedeli deve ben avere una ragion d’essere. Esso consente ai gauchisti, che hanno sostenuto tanti movimenti di liberazione nazionale, di affermare che il sionismo non è paragonabile poiché non esiste una nazione ebraica. È un argomento comodo, ma questa caratteristica non è un valido motivo per avanzarlo.
La terza versione dell’antisionismo ebraico è al tempo stesso politica e religiosa. L’argomento religioso serve anche a spiegare il lungo periodo di diaspora. Secondo i suoi difensori, gli ebrei sono troppo buoni per la forma Stato. Una politica di sovranità esige una fermezza e una brutalità che s’intona meglio alle nazioni dei gentili. Segnati dall’alleanza del Sinai e da una lunga storia di spoliazione e di persecuzione, gli ebrei non possono, e non dovrebbero, tentare di imitare i gentili. Questa dottrina può apparire fi losemita, con la differenza, rispetto ad altre, che non possiede alcun fondamento empirico. Anche prima del 1948, gli ebrei sono sopravvissuti come nazione in ambienti per la maggioranza ostili utilizzando tutti i mezzi politici necessari, spesso con un’arte degna di nota.

La versione politica di questo argomento antisionista non è affatto più convincente: essa afferma che gli anni in cui sono stati privi di uno Stato hanno fatto degli ebrei i primi cosmopoliti. Gli ebrei sono sì un popolo, ma un popolo post-westfaliano. In anticipo sul resto del mondo, hanno trasceso lo Stato-nazione. Il sionismo rappresenterebbe dunque una regressione rispetto all’universalismo della diaspora.
La realizzazione sionista, lo Stato d’Israele, è una confutazione definitiva di questa definizione del popolo ebraico. Essa mostra che, se anche il cosmopolitismo è il programma di alcuni ebrei, non definisce tutti gli ebrei. Del resto, perché il cosmopolitismo dovrebbe essere un programma in primo luogo o soltanto per gli ebrei? Anche se certi ebrei si augurano di essere cosmopoliti, di rappresentare la luce delle nazioni o viceversa una luce contro le nazioni, perché tante persone di sinistra, non-ebree, non assumono il ruolo che riservano agli ebrei?
Conosco candidati migliori per una politica post-westfaliana. Che i francesi superino lo Stato-nazione! Sono loro, dopo tutto, a essere all’origine di questo intero affare, con la leva in massa del 1793, La marsigliese, il primo inno nazionale, la bandiera tricolore, la prima bandiera nazionale, e tutti i sermoni rivoluzionari. O i tedeschi, i danesi, i polacchi, i cinesi…

L’odio per lo Stato-nazione
Ed è questo il punto cruciale. La forma di sinistra più comune dell’antisionismo nasce, dicono i suoi difensori, dall’opposizione al nazionalismo e allo Stato-nazione. Questo fu, agli inizi della storia della sinistra, un argomento convincente e diffuso, sostenuto dagli ebrei stessi.
Rosa Luxemburg, ad esempio, parla con eguale disprezzo dei polacchi,degli ucraini, dei cechi, degli ebrei e delle «nazioni e delle mininazioni si annunciano da ogni parte e affermano il loro diritto a costituire degli Stati. Cadaveri putrefatti escono da tombe centenarie, animate da un nuovo vigore primaverile, e popoli “senza storia” che non hanno mai costituito entità statali autonome avvertono il bisogno violento di erigersi in Stati» (Tra guerra e rivoluzione [1918], trad. it. Milano, Jaca Book, 2019). La sola cosa che ammiro nel disprezzo della Luxemburg è il suo universalismo. Ebbene, è proprio questo che manca nel gauchismo contemporaneo dove il disprezzo è ben più circoscritto.

L’argomento della Luxemburg può applicarsi a una gran quantità di situazioni. La seconda metà del XX secolo ha visto la caduta degli imperi britannico, francese, sovietico e la creazione di più Stati-nazione di quanti la storia ne avesse conosciuti fino ad allora.
Alcuni gauchisti sognavano di trasformare i vecchi imperi in nuove federazioni democratiche, ma la maggior parte di loro ha semplicemente
approvato le creazioni post-imperiali – nel caso sovietico senza dubbio con un po’ meno entusiasmo –, a eccezione di una sola. Pensate a tutte le opportunità mancate di opporsi allo Statonazione! Perché sostenere il nazionalismo vietnamita, ad esempio, quandola giusta posizione rispetto al Vietnam, al Laos e alla Cambogia (i tremembri dell’Indocina francese) sarebbe stata in tutta evidenza la creazionedi uno Stato multinazionale? Perché la sinistra non ha difeso l’idea di un’Algeria che, all’interno della Francia, avrebbe dato a tutti i cittadini i diritti proclamati dalla Rivoluzione francese? Non lo ha fatto, e ha sostenuto il Fronte di liberazione nazionale (Fln) che ha creato uno Stato-nazione e ha pietosamente fallito nel garantire quei diritti. Mi ricordo l’entusiasmo della gente di sinistra per la Birmania di U Nu – oggi Myanmar –, esempio paradigmatico dello scacco del nazionalismo. La Birmania avrebbe dovuto costituire una provincia dell’India e riunire i buddhisti, gli indù e i musulmani all’interno di un solo Stato, ma nessuno, a sinistra, ha patrocinato questa soluzione.
I britannici hanno amministrato il Sudan “anglo-egiziano” prima che fosse liberato dal giogo imperiale; i due Paesi africani avrebbero allora dovuto essere uniti all’interno di un unico Stato. Perché i gauchisti non si sono opposti alla liberazione del Sudan? O alla scissione fra l’Eritrea e l’Etiopia? Perché non si sono appellati alla formazione di un solo Stato baltico invece della triade nazionalista formata da Lituania, Estonia e Lettonia?
Potrei prolungare l’elenco delle mie domande, ma la risposta è sempre la stessa. In tutti i casi, i popoli hanno scelto lo Stato-nazione: era questa l’opzione democratica, anche se non ha sempre condotto alla democrazia. La sinistra aveva dunque ragione di sostenere i vietnamiti, gli algerini e tutti gli altri. Ma allora, perché non gli ebrei? E perché, adesso che lo Stato ebraico esiste e che assomiglia più o meno a tutti gli altri Stati, è il bersaglio di una così singolare variante del disprezzo luxemburghiano?

Governo e Stato: Israele ieri e oggi
Le risposte più comuni all’ultima domanda sono le seguenti. In primo luogo, la creazione dello Stato d’Israele ha richiesto lo spostamento di 700 mila palestinesi. Israele è uno Stato di “occupazione coloniale”– come pressappoco tutti gli Stati, se risaliamo sufficientemente lontano nel passato; ma lasciamo da parte questo ragionamento, la storia recente è più istruttiva. Non c’è stato spostamento di arabi palestinesi negli anni Venti e Trenta del Novecento: malgrado la colonizzazione sionista, la popolazione araba è aumentata grazie alla natalità ma anche grazie all’immigrazione, essenzialmente dalla Siria (nel 1922, il primo censimento britannico contava 660.267 arabi; erano 1.068.433 nel 1940). E neppure vi è stato spostamento durante la Seconda guerra mondiale, in un momento in cui l’immigrazione ebraica era menoforte. La creazione dello Stato di Israele è stata proclamata nel 1947dapprima dall’Onu, in seguito a Tel Aviv nel 1948, prima dell’inizio dello spostamento su grande scala: l’idea secondo cui lo Stato “richiedeva”uno spostamento non può dunque essere corretta. È l’invasione del nuovo Stato da parte di cinque eserciti arabi che ha costretto
alla fuga un gran numero di arabi palestinesi (gli ebrei non fuggivano,non avevano un luogo dove andare) da un lato, all’espulsione di molti altri abitanti (gli ebrei non sono stati espulsi perché gli eserciti arabi hanno perso la guerra) dall’altro. Il dibattito sul rapporto tra coloro che sono fuggiti e coloro che sono stati espulsi è ancora vivo; le cifre sono importanti in entrambi i casi. Resta il fatto che il dibattito non esisterebbe se la guerra non fosse avvenuta, e vi sarebbero ben pochi rifugiati oggi nei campi. La Nakba [l’esodo palestinese del 1948, NdR]è una tragedia provocata da due attori, da due movimenti politici, e dai soldati delle due parti.
Cosa ne è delle fughe e delle espulsioni che avvennero altrove – in
particolare nel corso della creazione degli Stati moderni turco o pakistano?
È curioso che gli autori di sinistra non contestino la legittimità di questi Stati, anche quando criticano, come è giusto, le politiche dei loro governi (si contesta spesso la potenza del whataboutism [neologismo inglese più o meno equivalente a ciò che in italiano viene indicato come “benaltrismo”, NdR], ma io penso che costituisca una critica potente della cecità di uomini e donne che si indignano degli eventi che avvengono qui, dovunque si collochi questo qui, ma non manifestano interesse particolare per analoghi eventi che avvengono altrove. Mi sembra che si debba insistere su questo fenomeno.
Il secondo elemento spesso invocato per giustificare l’antisionismo è questo: Israele opprime i palestinesi, in Israele e nella Cisgiordania occupata. Questo è vero e i miei amici sionisti, in Israele, si mobilitano da anni per l’uguaglianza di tutti nello Stato e contro l’occupazione e il trasferimento dei coloni. Ogni critica severa del governo attuale mi sembra giustificata, e più è severa meglio è. Elenco qui sotto ciò che mi sembra importante dire a questo proposito, perché voglio essere riconosciuto come un difensore del sionismo e non come l’apologeta di ciò che viene compiuto in Israele oggi, o di ciò che si è fatto ieri, in nome del sionismo (i difensori del nazionalismo palestinese avrebbero interesse a fornire un elenco analogo delle patologie della politica palestinese).
– Gli arabi israeliani, cittadini di Israele, devono far fronte a numerose discriminazioni nella vita quotidiana, in particolare nell’ambito dell’alloggio e delle richieste di finanziamento per l’educazione e le infrastrutture.
– Adottando la legge «Israele, Stato-nazione del popolo ebraico»(19 luglio 2018), la Knesset ha alzato il dito medio verso i suoi cittadini arabi.Benché la legge non abbia conseguenze legali, prefigura una cittadinanza di seconda classe.

– La Cisgiordania è il teatro di una colonizzazione invasiva, di un’appropriazione di terre e di sorgenti, e di un governo militare senza
legge.
– I coloni si comportano da delinquenti violenti nei riguardi dei palestinesi,
senza subire effettive sanzioni da parte della polizia o dell’esercito israeliano.
– Il governo attuale incoraggia l’ostilità nei confronti degli arabi e ne fa una regola di governo; ha di mira la creazione di un solo Stato dominato da quella che sarà ben presto una minoranza ebraica.


Potrei proseguire l’elenco, ma quello che ho scritto basta a far comprendere il mio pensiero: le critiche di questo tipo non hanno niente a che vedere con l’antisionismo o l’antisemitismo. Si tratta di politiche governative, e i governi non fanno altro che governare gli Stati, non li incarnano. I governi vanno e vengono – almeno è quel che speriamo – mentre gli Stati si iscrivono nella durata per proteggere la vita comune dei loro cittadini, degli uomini e delle donne. Di conseguenza, criticare il governo d’Israele non dovrebbe comportare un’opposizione alla sua esistenza. È stato necessario opporsi con fermezza alla brutalità dei francesi in Algeria, ma non ricordo nessuna voce che mettesse in discussione l’esistenza dello Stato francese. Il trattamento brutale dei musulmani nell’ovest della Cina invoca la stessa fermezza, ma nessuno chiede l’abolizione dello Stato cinese (anche se, in pratica se non in teoria, la Cina è uno Stato-nazione dell’etnia han).
Alcuni, a sinistra, affermano che i lunghi anni di occupazione e il nazionalismo di destra del governo Netanyahu rivelano l’“essenza stessa” dello Stato ebraico. Questo argomento dovrebbe suonare strano alle orecchie di tutte quelle persone di sinistra che hanno imparato, molto tempo fa, dalle autrici femministe in particolare, che bisogna rinunciare agli argomenti “essenzialisti”. La lunga storia dell’interventismo degli Stati Uniti in America Centrale rivela l’“essenza stessa” degli Stati Uniti? Forse sono gli oppositori all’intervento e all’occupazione a essere più “essenziali”. Comunque sia, uno Stato ha davvero un’“essenza”?
Oggi molti a sinistra approvano il nazionalismo palestinese senza preoccuparsi del suo carattere “essenziale” e senza riflettere sul programma dei nazionalismi che chiedono, spesso esplicitamente, il grande
tutto: «Dal fiume al mare». Vi sono oggi, al governo d’Israele, ebrei sionisti che chiedono il grande tutto con analogo fervore. La sinistra dovrebbe dunque opporsi a entrambe le rivendicazioni con la stessa determinazione. Quanti, a sinistra, reclamano “uno Stato”, con pari diritti per gli ebrei e i palestinesi, direbbero senza dubbio che fanno esattamente questo, perché il loro programma sembra tradurre un disprezzo fermo del nazionalismo e dello Stato-nazione – fermo, sì, ma applicato a un solo caso.
In realtà, “uno Stato” significa l’eliminazione di uno Stato: lo Stato ebraico esistente. In che modo i partigiani di “uno Stato” hanno in mente di realizzare questo programma? Qual è il loro piano per distruggere lo Stato ebraico e il movimento nazionale che gli ha dato nascita?
E come vedono la disfatta del nazionalismo palestinese? A cosa assomiglierebbe questo nuovo Stato? Chi deciderebbe le politiche d’immigrazione (è la questione che ha fatto fallire il bi-nazionalismo immediatamente prima e dopo la Seconda guerra mondiale)? Infine, ed è l’esito più probabile, cosa accadrebbe se il nuovo Stato somigliasse al Libano di oggi? La storia recente del Medio Oriente e quelle di Israele e della Palestina mostrano che la coesistenza pacifica è una pia illusione. Anzi, nemmeno un’illusione.
Se si vuole permettere ai due movimenti nazionali di ottenere (o di mantenere) la sovranità cui aspirano, è sicuramente opportuno aggiungere uno Stato piuttosto che sottrarne uno all’equazione. La soluzione dei due Stati è forse anch’essa un’illusione – esiste in effetti dai due lati uno schieramento significativo di forze che vi si oppongono – ma l’idea è più realistica. Sappiamo, infatti, come creare degli Stati-nazione; abbiamo una lunga esperienza in materia. Non sappiamo come creare la comunità politica ideale che i partigiani dello Stato unico dicono di desiderare, ma non vogliamo – e non dovremmo volere – il genere di Stato che essi creerebbero, se lo potessero.
Edificare Stati-nazione, questa è la politica che la sinistra ha difeso nel periodo post-coloniale. La Jugoslavia è l’eccezione degna di nota: la maggioranza delle persone di sinistra si sono opposte alla creazione di sette nuovi Stati-nazione, preferendo a essi il regime tirannico che li aveva un tempo mantenuti uniti. E questa è un’ulteriore incoerenza:
se l’alternativa alla liberazione nazionale è la tirannia, la sinistra dovrebbe optare, e in genere ha optato, per la liberazione. È la scelta giusta, perché sappiamo che le nazioni hanno bisogno di Stati, non fosse altro che per proteggerle dall’oppressione straniera. Ne è prova la storia degli ebrei, o degli armeni, dei curdi, dei kossovari e dei palestinesi. Le inchieste mostrano che, in ognuna di queste nazioni, larghe maggioranze desiderano uno Stato per se stesse. E se gli altri lo vogliono, perché non gli ebrei?


L’antisionismo è una cattiva politica
Perché non il sionismo? Perché gli ebrei non sono un popolo; perché dovrebbero essere più cosmopoliti degli altri; perché lo Stato sionista ha avuto la sua quota di cattivi governi; perché nessuno dovrebbe avere uno Stato (anche se, in pratica, quasi tutti ne possiedono uno).
Possiamo trovare delle ragioni, ammissibili, a ognuna di queste affermazioni, ma il modo in cui sono avanzate oggi non manca di suscitare
sospetto. È possibile, talvolta probabile, che quanti le avanzano credano anche che gli ebrei siano stati responsabili della tratta degli schiavi, che le lobby sioniste controllino la politica estera americana (come ha sostenuto la deputata Ilhan Omar) e che i banchieri ebrei governino il sistema finanziario internazionale. Troppe donne e troppi uomini credono queste cose, a sinistra come a destra. Sono antisemiti o compagni di strada degli antisemiti, e il loro antisionismo è probabilmente strettamente legato al loro antisemitismo – anche se esistono ormai antisemiti pro-israeliani, ad esempio fra gli evangelici americani o fra i nazionalisti di destra in Europa dell’Est.
Gli uomini e le donne di sinistra devono essere vivamente critici, particolarmente nei confronti degli altri membri della sinistra che adottano queste vedute. È evidentemente più facile condannare gli antisemiti di destra e pretendere che l’antisemitismo non esista a sinistra.
Ma l’antisemitismo esiste a sinistra. Forse è vero che l’antisemitismo di destra è una minaccia più grande per il benessere ebraico, ma non bisognerebbe comunque sottovalutare la sua versione di sinistra. Detto questo, sono convinto che gran parte degli antisionisti e anche numerosi antisionisti di sinistra non credono alle favole antisemite.
Forse ignorano volontariamente cos’è il popolo ebraico, forse sono particolarmente preoccupati dallo Stato ebraico, forse alla fin fine non amano semplicemente gli ebrei (è quel che ha detto George Carey, l’ex arcivescovo di Canterbury, a proposito di Jeremy Corbyn).
Forse. Ma quando si parla di Israele nei dibattiti di sinistra, il vero problema è il sionismo, ed è dunque del sionismo che bisogna parlare. Per tutte le ragioni che ho fornito, quel che non va nell’antisionismo è l’antisionismo stesso. Che voi siate antisemiti, filosemiti o indifferenti al semitismo, l’antisionismo è una cattiva politica.
(Traduzione di Mario Porro)

Michael Walzer è uno dei più importanti teorici della politica viventi. Ha insegnato a lungo all’Institute for Advanced Study di Princeton, di cui è professore emerito di Scienze sociali. È considerato uno degli esponenti di spicco della corrente “comunitaria” del pensiero politico contemporaneo, assieme ad Alasdair MacIntyre e Michael Sandel. È autore dei fondamentali saggi Sfere di giustizia (1983) e Esodo e rivoluzione (1985) e di molti altri contributi sul pensiero politico moderno e contemporaneo. È anche condirettore della rivista «Dissent».

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Di laicità, ebraismo e identità

Micol De Pas su JoIMag 3/03/2020 : Recensione al libro “Il funerale negato. Ovvero, l’ombra lunga dei Patti Lateranensi”, un’intervista a Bruno Segre di Alberto Saibene

“Non riesco a considerare la laicità come una “condizione”, come qualcosa che tu possa concretamente “conquistare” e che, una volta l’abbia conquistata, tu possa conservare quasi fosse un tesoro. La laicità, così come io la intendo, è la scelta di un metodo, di una prospettiva aperta, pluralistica, di una concezione polifonica della vita e della cultura. (…) è improntato a laicità il comportamento di chi rifiuta di lasciarsi imporre, e anche di imporre, un “pensiero unico”. Quella laica è una scelta di metodo della quale il mondo in cui oggi viviamo ha un profondo bisogno, pena la sua distruzone”. Sono le parole di Bruno Segre nel suo ultimo libro Il funerale negato. Ovvero, l’ombra lunga dei Patti Laternanensi, un’intervista con Alberto Saibene pubblicata per l’editore una città.

Un piccolo volume che, nelle ultime pagine in particolare, si trasforma in un manifesto per la libertà. Quella di espressione, quella identitaria, quella individuale. Che Segre declina con molta attenzione rispetto alla religione. Laicità non è il risvolto positivo di religione che ne sarebbe il negativo, bensì un modo aperto, inclusivo, libero di intenderla. “Mi resi conto di essere ebreo quando, all’età di otto anni, i fascisti mi intimarono che ero di razza ebraica e mi bandirono da tutte le scuole del regno. Da allora, cioè da oltre 80 anni, combatto con impegno laico la mia battaglia identitaria“, spiega Segre. Che poi aggiunge: “Quanto alla mia ebraicità, l’ho sempre vissuta in chiave libertaria; non ho mai smesso di considerarmi un liberto poiché l’Eterno ci ha tratto con mano potente dall’Egitto, dalla casa di schiavitù“. Non solo: “l’ebraismo laico è presa d’atto che la vita e la cultura degli ebrei hanno una dimensione plurale” e tale pluralità è sinonimo di ricchezza (e arricchimento futuro).

Lo spirito laico dell’autore analizza dunque i patti laternanensi e tutte quelle norme collaterali che dal 1930 al 1987 erano rimasti invariati, superando indenni la Shoah e decenni di post-fascismo.

Leggi anche: Pio XII e il silenzio sulla Shoah: si aprono gli archivi vaticani

Tra queste norme, anche quell che regolavano i rapporti tra le comunità ebraiche e lo Stato con la legge Falco, che imponeva agli ebrei di essere iscritti alla comunità ebraica della provincia di pertinenza, a meno di rinunciare all’ebraismo tramite abiura. Poi, con la revisione del Concordato, nel 1984, emerse la necessità di rivedere anche la legge Falco e nel 1987 Tullia Zevi e Bettino Craxi firmarono l’Intesa ebraica, cui seguì l’approvazione dello Statuto dell’ebraismo italiano da parte dell’Ucei. L’8 marzo 1989 entra così in vigore come legge l’Intesa ebraica che abroga la legge Falco. “E ciò facendo”, spiega Segre, “apre la strada a un’importante novità (…): l’obbligo vessatorio per tutti gli ebrei residenti in una determinata circoscrizone di aderire alla comunità di pertinenza territoriale (salvo atto di abiutìra) e la sostituzione di quel regime con il principio liberale dell’adesione volontaria“.

Cos’altro c’è di liberale nell’Intesa ebraica?, chiede Alberto Saibene. “Ben poco! Il documento conserva la tradizionale cornice giuridica e sociale unitaria e (…) salvaguarda la tradizionale struttura unitaria dell’ebraismo italiano mantenendola all’interno dell’ortodossia rabbinica. In generale i diritti per i quali l’Intesa domanda che lo Stato eserciti la sua tutela, marcano separatezza, indicano differenza specifica: una differrenza che per lo più si qualifica di matrice religiosa“, risponde Segre, che poi prosegue con il suo punto di vista: l’Intesa serve a proteggere questo aspetto dell’ebraismo, ortodosso e rabbinico, probabilmente in crisi d’identità e di autorevolezza. Impossibile fare appello al pensiero laico, a quel pensiero che ammette una pluralità di voci, rispettandole tutte, forse proprio perché, come dice il titolo di questo piccolo libro, siamo ancora coperti dall’ombra lunga dei Patti Lateranensi.

A questi fa riferimento poi una storia personale dell’autore, che su JoiMag abbiamo raccontato pubblicando una lunga lettera dell’autore: l’impossibilità di dare sepoltura alla moglie nel cimitero ebraico di Monticelli d’Ongina, e che è richiamata nell prima parte del titolo di questo libro, Il funerale negato.

Leggi anche: Noi, marrani di Monticelli d’Ongina

Questioni halakhiche, forse però incapaci di comprendere la lettura della storia, perché in quel cimitero riposano coniugi di matrimoni misti celebrati in tutte le epoche… Ecco, il pensiero laico di Bruno Segre è una forma di pluralismo che significa anche conoscere il passato per capire il presente.

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Sinistra diffidente verso gli ebrei anche quando Israele non c’era

di PIERLUIGI BATTISTA Corriere della Sera 11 Gennaio 2020

Il saggio di Alessandra Tarquini (il Mulino) mette in luce pregiudizi di lunga durata ricostruendo il rapporto tra la sinistra italiana e il mondo ebraico nell’arco di un secolo

Nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, fu trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori» organo di Avanguardia operaia, protestò perché la tv di Stato si era prestata, a suo parere, a un’apologia della «supremazia del popolo ebraico» così spudorata da giustificare in modo obliquo «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». La notizia sconcertante, però, non era la pubblicazione di un commento così smaccatamente antisemita che oggi muoverebbe a giusta indignazione, ma l’assoluta mancanza di reazioni a un argomento che, allora, sembrava normale che circolasse non solo nel recinto infetto del neonazismo, ma in quello delle forze che pure si ispiravano ai valori della Resistenza antifascista.

La studiosa Alessandra Tarquini (Roma, 1970)
La studiosa Alessandra Tarquini (Roma, 1970)

Del resto, racconta Alessandra Tarquini in un saggio molto documentato come La sinistra e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992 (Il Mulino), fa pure un po’ impressione che nel 1972 non sia apparsa sui giornali di sinistra nemmeno una recensione dedicata alla ripubblicazione del 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti o di, anche se la cosa può apparire incredibile, Se questo è un uomo di Primo Levi. Era normale, o comunque veniva accettato come argomento in sé non raccapricciante, la continua, insistita, maniacale comparazione tra le azioni dello Stato di Israele e il nazismo. Durante la guerra dei Sei giorni, nel 1967, si arrivò a sostenere che la stella di Davide del popolo di Anna Frank aveva macchiato il suo significato facendosi arbitrariamente simbolo della prepotenza militare di Moshe Dayan e di Israele, Stato, si disse, letteralmente anche nei decenni successivi, «teocratico e razziale». Si disse che le operazioni militari israeliane erano identiche alla guerra lampo hitleriana. Si accostò, con analogia mostruosa, la svastica alla stella di Davide. Si disse impunemente, con un luogo comune destinato a molta e immeritata fortuna negli anni a venire, che le vittime di ieri, gli ebrei, fossero diventati i carnefici di oggi e che oggi i «nuovi ebrei» erano oramai i palestinesi.

Scrive Alessandra Tarquini che nella stampa di sinistra «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Con la guerra del Libano del 1982, mentre le reazioni a una bara davanti alla Sinagoga deposta durante un corteo sindacale furono molto blande, riaffiorò nella stampa di sinistra il vecchio pregiudizio antisemita sulla contrapposizione tra il Dio dei cristiani del Nuovo Testamento, pieno di amore, e il «vendicativo» e crudele Dio degli ebrei del Vecchio Testamento. Sulla rivista «Il Ponte» il direttore Enzo Enriques Agnoletti non si risparmiò persino un paragone spericolato tra l’invasione israeliana e le Fosse Ardeatine: «Confronto odioso? Purtroppo no». In tutti questi casi, è la presenza ebraica in quanto tale a suggerire immagini, suggestioni e comparazioni che oggi, per fortuna, non sarebbero più pensabili.

Ma se con l’ostilità nei confronti dello Stato di Israele è rintracciabile ancora un elemento politico, la minimizzazione dell’antisemitismo appare, scorrendo le pagine del libro della Tarquini, una costante, sin dal primo Novecento, della cultura della sinistra italiana (e non solo italiana, basta vedere le considerazioni dell’autrice sui libri di Adorno e di Sartre, scritti a ridosso della Shoah, ma dove l’elemento specifico dello sterminio ebraico viene menzionato quasi di sfuggita).

Nelle ondate antisemite, o nell’offensiva dell’antigiudaismo cattolico che oltraggiava il sindaco ebreo di Roma Ernesto Nathan come «un volgare insultatore della nostra fede», ancora si contrapponevano stereotipi come quello di Alceste De Ambris sull’equivalenza tra «lo sfruttatore battezzato e il banchiere circonciso nelle carni». Esercitava molto fascino la definizione di Marx della «questione ebraica» destinata a risolversi con l’auspicata fine del capitalismo. La completa assimilazione, cioè la fine di ogni identità ebraica, era vista come unico antidoto alle persecuzioni antisemite, come a dire che per non essere perseguitato come ebreo occorresse perdere ogni tratto distintivo proprio in quanto ebreo.

Quando il fascismo si macchiò con l’orrore delle leggi razziali, ancora una volta, nella cultura democratica e liberale, si minimizzò l’aspetto specificamente antiebraico per spostare l’attenzione sulla mossa propagandistica di Mussolini per presentare gli ebrei come i padroni della finanza. La stessa Shoah venne equiparata per anni a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», in cui però gli ebrei furono solo una parte, sia pur cospicua, delle vittime della sopraffazione nazista.

Anche nella rappresentazione cinematografica, sia pur con le migliori intenzioni di denuncia della barbarie nazista, e in film come L’ebreo errante di Goffredo Alessandrini, tratto da un romanzo di Eugène Sue, e Kapò di Gillo Pontecorvo che «non si soffermava sull’identità delle vittime, confinate all’interno della contrapposizione tra i nazisti e i loro avversari, e ignorava l’antisemitismo».

Del resto persino Carlo Levi parlò del lager come «il permanente sacrificio umano sull’altare degli idoli di Stato», «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», definizioni dove, nota Alessandra Tarquini, «non emerge alcuna considerazione sugli ebrei».

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