Hannah Arendt: «Nessun giudizio, Vostro Onore: eravamo in tanti».
Adolf Eichmann: «……..».
A: «Nessun giudizio, Vostro Onore: eravamo in tanti».
E: «……..».
A: «Nessun giudizio, Vostro Onore: eravamo in tanti».
E: «……..».
A: «Nessun giudizio, Vostro Onore: eravamo in tanti».
E: «……..».
Eichmann. Dove inizia la notte, atto unico di Stefano Massini, Fandango Libri. La rappresentazione teatrale di vittima e carnefice. Centoquattordici pagine dirompenti, fredde, viscerali, profondissime, razionali, emotive, piene e vuote di passione. Avete in mente gli occhi di Stefano Massini quando fa i suoi pezzi a Piazza pulita? Occhi che sprigionano la durezza della bontà e la follia della ragionevolezza.
L’inciampo del Giorno della Memoria è, appunto, un “inciampo”, una ricorrenza, tra qualche giorno, ieri, chissà. Qui, ora, sul palcoscenico delle pagine, ci sono solamente loro due, come ce li ricordiamo dai filmati del processo in Israele o dalle immagini di archivio. E le loro parole, incessanti, attanaglianti. «Il linguaggio, Herr Eichmann. Il linguaggio è lo specchio, sempre, di cosa sentiamo davvero. Ci pensi: la chiamavate “Soluzione Finale”. Non avevate il coraggio di dire “Massacro”. E il gas di Globočnik? Era un “Trattamento Speciale”».
Ma poi, dice Hannah, «le grandi masse fanno così: scordano tutto, velocemente, in un attimo. E non per distrazione, no. Lo fanno perché condannare gli altri – condannarli davvero – è pericoloso: corriamo il rischio, prima o poi, di sbagliare tutti. E nessuno vuol essere fatto a pezzi».
Ci vuole coraggio. Da sempre, e ancora. Anzi, no, non il coraggio, la dignità. «Il coraggio in fondo è una cosa di un attimo», vero Herr Eichmann?, il coraggio «fa rumore, abbaglia. Ci senti sotto l’orchestra come nei film, trombe, violini. Ecco, sì, il coraggio è cinema. Perfino un vigliacco può avere un attimo di coraggio, nella vita, e non cambia il fatto che era e resta un vigliacco. No. Più del coraggio è la dignità. Molto di più. Perché la dignità, se ce l’hai, ti resta incollata addosso, è parte di te». «Ognuno ha la sua idea di dignità: per Hannah Arendt e Sophie Scholl è ribellarsi. Per me era rispettare gli ordini. Stiamo su due fronti opposti».
Già, due fronti opposti. Ieri, oggi, domani. (Sophia Magdalena Scholl, Forchtenberg 9 maggio 1921 – Monaco di Baviera, 22 febbraio 1943) è stata un’attivista tedesca legata alla resistenza d’ispirazione cristiana, appartenente alla Rosa Bianca. Scelse la ribellione non violenta al regime.
È considerata martire dalla Chiesa cattolica e uno dei simboli della lotta alla dittatura nazista).
Con la Arendt noi cerchiamo, grazie a Massini, dove comincia e perché comincia il male. «Ci sarà un momento, preciso, in cui prende forma. O no? Deve esserci. Tutto ha un inizio. Quell’attimo impercettibile in cui si passa dal nulla al qualcosa. È questo che cerco io, da lei.”
Perché poi, come non essere d’accordo con Hannah?, c’è qualcosa di talmente… stupido nel male. «Sì: stupido. E guardi che non parlo delle coincidenze. Dico che il male si nutre di paura. Ne ha bisogno. Voi eravate fieri che la gente tremasse, anche solo a vedere una divisa. Portavate i teschi coi coltelli incisi nei distintivi. La paura, certo, la paura. Eppure, a sentirvi parlare, è così chiaro che ad avere paura eravate per primi voi». La paura. Non ci dice qualcosa anche oggi?
Herr Eichmann si indigna: «Non mi pagavano». «Oh sì. La pagavano con un verbo essere: “Sono un SS”. Dare a qualcuno un verbo essere è una buona forma di stipendio». C’è chi lo preferisce ai soldi.
È evidente che la lotta all’antisemitismo sia utilizzata da Salvini in chiave strumentale e giustissimo è stigmatizzare l’ipocrisia del leader leghista. Ma la sinistra, per essere credibile su questo terreno, dovrebbe iniziare a riconoscere e combattere l’antisemitismo che serpeggia silenzioso nelle sue stesse file.
Per capire il perché Matteo Salvini si sia ritrovato settimana scorsa a dibattere pubblicamente di antisemitismo nell’inusuale contesto istituzionale della sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, affiancato da intellettuali conservatori stranieri, ricercatori ed ambasciatori dobbiamo fare un passo indietro e guardare all’Europa degli ultimi anni.
Allo stato attuale, 70 membri del moribondo partito Laburista inglese sono indagati dalla Commissione per l’Uguaglianza e Diritti Umani per antisemitismo. A discorsi politicamente legittimi e di critica al governo israeliano si intrecciano affermazioni dal sapore sovversivo e apertamente intollerante come “vorrei tanto essere il presidente dello Stato di Israele. Hanno un bottone per autodistruggersi, vero?” pronunciate da Ali Milani, ex-candidato laburista nel collegio di Uxbridge e South Ruislip e proposte quanto meno imbarazzanti come quelle di “ricollocare Israele negli Stati Uniti” per risolvere “il conflitto arabo-israeliano”, rivendicate da Naz Shaha, altra parlamentare Corbynista.
Nel luglio del 2019, la BBC si fa autrice di un documentario dal titolo incendiario “Il partito laburista è antisemita?” in cui vengono raccolte le testimonianze di otto ex-dirigenti e impiegati Labour che denunciano l’“insopportabile” atmosfera negazionista all’interno del proprio partito in merito a questioni legate all’antisemitismo e a presunti legami tra la cerchia di Corbyn, Hamas, Hezbollah e la fratellanza musulmana. Sempre nello stesso periodo, viene pubblicata una lettera aperta su The Guardian a firma di una sessantina di deputati laburisti che denunciano il proprio leader con argomentazioni simili. Un parricidio?
La convergenza tra sinistra
anti-capitalista/anti-imperialista à la Corbyn e nuove forme di antisemitismo
subdolo e silenzioso sembra non arrestarsi ai confini naturali della Manica.
Nell’analizzare la débâcle laburista
nelle elezioni nazionali del 2019, Jean-Luc Mélanchon, leader francese de La
France Insoumise ricicla l’argomento delle Epistole di San Girolamo del dum
excusare credis, accusas (mentre credi di scusarti, ti accusi) incolpando Corbyn
di aver dimostrato “debolezza” e generato “allarme tra le fasce più deboli del
proprio elettorato” per il solo fatto di essersi confrontato e poi “scusato”
con chi accusava il suo partito di non aver vigilato a sufficienza in merito a
ripetuti episodi di antisemitismo: ci sono numerosi testimoni che riportano
quanto fosse frequente sentire alle riunioni di partito espressioni come: “Zio
scum” (feccia di sionista), “l’unica ragione per cui abbiamo prostitute a Seven
Sisters è perché ci vivono degli ebrei” e “Hitler was right.” Per Mélanchon,
meglio avrebbe fatto il leader laburista ad ignorare completamente il grido
d’allarme lanciato dal capo rabbino inglese Ephraim Mirvis dalle colonne del
Times alla vigilia delle elezioni nazionali britanniche e passare all’incasso
elettorale.
Come spiegarsi dunque la sconfitta di Corbyn?
Semplice: una macchinazione messa in atto da una fitta rete di lobby
politico-mediatiche legate a Likud, il partito nazionalista liberale del primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Quest’interpretazione, promossa da
Mélanchon e sposata da tanti altri a sinistra, sembra fare pericolosamente da
specchio alle teorie complottistiche demo-pluto-giudaico-massoniche (e chi più
ne ha più ne metta…) di stampo fascista del secolo scorso. La cosa più grave è
che questo approccio esclude aprioristicamente la possibilità che anche a
sinistra si possano infiltrare forme occulte e subdole di antisemitismo.
Ma non è di certo una novità. In
molti ambienti pseudo-progressisti questo genere di convinzione si salda alla
perfezione con un’altra apodittica certezza: quelli pericolosi ed illiberali
sono e saranno sempre dall’altra parte. Ce lo confermano quelli de Il Manifesto
che scrivono con fervore: “i conservatori (inglesi) hanno sì il razzismo iscritto
razzisticamente nel proprio Dna politico e sguazzano nell’islamofobia come
tutte le destre fasciste…”, aggiungendo con deferenza religiosa: “Corbyn, un
leader politico la cui militanza antirazzista nessun altro deputato di
Westminster può vagamente pareggiare.”
E tornando all’Italia, ecco che ci ritroviamo in
queste settimane al cospetto di un Matteo Salvini inedito che discute con
opportunismo e fiuto politico eccezionale di antisemitismo, di fatto
monopolizzando la conversazione su questioni che fino all’altro ieri sembravano
del tutto ininfluenti: esiste un qualche legame tra sinistra ed antisemitismo?
Quali sono le differenze sostanziali tra antisionismo ed antisemitismo?
Esistono forme di antisemitismo diverse da quelle fascistoidi del secolo scorso?
Questioni serie e che sono ormai da decenni dibattute in Europa da
intellettuali, accademici e giornalisti provenienti da tutte le culture
politiche.
E di fronte a questi interrogativi
come reagisce parte della stampa italiana? Semplice: facendo la solita
deleteria e controproducente (ormai la storia recente lo ha dimostrato)
caricatura al cazzaro verde. “Salvini: l’antisemitismo in Italia? Colpa degli
immigrati” si legge con incredibile spirito di sintesi su La Stampa; oppure
“Salvini organizza un convegno sull’antisemitismo per prendersela coi migranti”
titola Linkiesta.it.
Intendiamoci: fare la parodia al discorso del leader
della Lega è facile. Troppo facile. Il suo linguaggio volutamente semplicistico
e strumentale si autodenuncia da solo per quel che è: un tentativo
prevedibilissimo di allinearsi alle destre conservatrici occidentali – quelle
che riescono a vincere le elezioni e a governare paesi ben più complessi e dal
peso internazionale ben più rilevante del nostro, come Regno Unito e Stati
Uniti d’America.
Ma l’elemento di novità di queste settimane è un altro: Salvini ha finalmente capito che per trasformare il Carroccio da partito populista di protesta – abituato a tessere relazioni ambigue e controproducenti con movimentucoli neofascisti locali dallo scarso impatto elettorale – a forza di governo, deve circondarsi di “menti” esterne che contribuiscano con “argomenti” spendibili dal punto di vista intellettuale a realizzare quella mutazione genetica a cui il suo partito aspira da tempo e che gli garantirebbe un posto di tutto “rispetto” sul piano internazionale. Ed è così che tra un rigurgito al Mojito, i “bacioni” alla sinistra e i “bacini” al rosario, Salvini si ritrova per la prima volta supportato da intellettuali e pensatori appartenenti ad una destra conservatrice moderata, tutti provenienti da fuori Italia, pronti a dibattere in un contesto altamente istituzionale argomenti sui quali tra le file della sinistra italiana purtroppo sono ancora in molti a tacere. “Le nuove forme dell’antisemitismo” del 16 gennaio scorso segna il via a questo percorso di lifting intellettuale a cui si vuole sottoporre il Carroccio, a cui seguirà a breve un’altra conferenza intitolata “National Conservatism. God, Honor, Country: Presitdent Ronald Reagan, Pope John Paul II, and the Freedom of Nations”, che si terrà al Grand Hotel Plaza di Roma il 4 febbraio prossimo e che vedrà come ospiti anche il primo ministro ungherese Vicktor Orban.
Cosa ribattere dunque ad un discorso articolato come quello di Douglas Murray (autore tra i vari del best-seller “La strana morte dell’Europa: immigrazione, identità e Islam”) che da anni parla di antisemitismo di matrice religiosa? Come reagire di fronte a chi come Ramy Aziz (ricercatore egiziano copto e analista politico del Middle Eastern Affairs Journal) e Dore Gold (presidente del Jerusalem Center for Public Affairs) porta avanti una perorazione che tende ad erodere la già precaria e sottile linea di confine che vi è tra una legittima critica alle politiche governative israeliane e la negazione del diritto al popolo ebraico all’autodeterminazione?
Al di là dell’evidente uso strumentale che Salvini fa di questi argomenti, mescolando con una certa abilità la proposta di vietare per legge il Bds (boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele) con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Isreale (seguendo la lezione di Trump), cos’altro hanno da dire gli intellettuali di sinistra di fronte all’emergere di effettive nuove forme di antisemitismo? Basterà affermare che non esistono perché a parlarne è Matteo Salvini?
Chiunque sia genuinamente interessato a comprendere le cause dell’aumento esponenziale degli attacchi antisemiti degli ultimi decenni in Occidente dovrebbe compiere prima di tutto un gesto di onestà intellettuale: spogliarsi per un istante della propria casacca ideologica, allontanarsi dallo specchio su cui le stesse idee trite e ritrite si riflettono narcisisticamente da decenni e confrontarsi con i dati che provengono dal mondo reale.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite (UNHCHR) riporta che gli atti antisemitici in Francia nel 2018 sono aumentati del 74% rispetto al 2015. Il numero delle minacce antisemite sono anch’esse in crescita del 67% e fanno riferimento a 358 incidenti registrati nel 2019 (comprendenti insulti orali e scritti, email di minaccia, graffiti, svastiche ecc.) rispetto ai 214 riportati del 2017. Sul suolo francese sono ancora 824 gli istituti ebraici sotto sorveglianza militare e poliziesca. Ancora più preoccupante appare la situazione in Francia se prendiamo in considerazione un ulteriore dato: rispetto alla tendenza generale che vede diminuire gli attacchi a sfondo raziale (scesi del 4,2% secondo DILCRACH, la Delegazione interministeriale alla lotta contro razzismo, antisemitismo e omofobia) e quelli di matrice anti-musulmana (il 2018 registra il livello più basso di attacchi contro cittadini di fede islamica dal 2010), gli atti antisemiti rappresentano più della metà, il 55%, di tutti gli atti violenti a sfondo razzista registrati nel 2018, a discapito del fatto che la comunità ebraica francese costituisca meno dell’1% della popolazione totale.
In Germania la situazione è altrettanto allarmante. Secondo l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) gli attacchi antisemiti hanno raggiunto un totale di 1.799 unità rispetto alle 1.239 del 2011. Le statistiche della polizia attribuiscono l’89% di tutti i crimini antisemiti tedeschi agli estremisti di destra, ma i membri della comunità giudaica descrivono un’altra realtà: secondo un’indagine dell’Unione Europea, il 41 % degli intervistati afferma che gli attacchi degli ultimi anni siano fondamentalmente di matrice islamica. Un’indagine della Anti-Defamation League sembra confermarlo, riportando un’inquietante dato: il 56 % dei musulmani in Germania nutre atteggiamenti apertamente antisemiti, rispetto al 16 percento della popolazione complessiva.
Individuare le diverse radici ideologiche, politiche e religiose di questo sentimento crescente d’odio e pregiudizio nei confronti dei nostri concittadini ebrei è tanto fondamentale quanto urgente. Molti osservatori, non tra gli ultimi l’Agenzia tedesca per la sicurezza interna, hanno iniziato ad allargare il proprio campo d’indagine anche a fette della popolazione di confessione musulmana, dando risposta concreta al timore largamente diffuso all’interno della comunità ebraica rispetto a quel fenomeno noto come “antisemitismo d’importazione” che si affianca a quello del tutto locale d’origine neonazista. Dal 2015 in avanti, la crescente presenza di rifugiati provenienti dalla Siria e dall’Iraq ha allarmato molti ebrei in Germania che già si percepivano minacciati su due fronti opposti: da un lato, dall’avanzata della destra nazionalista dell’Afd, dall’altro da una più generale atmosfera d’intolleranza alimentata a distanza dal conflitto israelo-palestinese, soprattutto a partire dalla Seconda Intifada di inizio anni 2000.
Un episodio su tutti: nell’Aprile del 2018, nel distretto di Prenzlauer Berg a Berlino un ragazzo israeliano di nome Adam Armoush, viene aggredito da un 19enne siriano di origine palestinese mentre passeggia con un amico indossando uno yarmulke; il siriano prende la propria cintura e frusta il ragazzo israeliano al grido di “yehudi” (“ebreo” in arabo). La scena è filmata da un testimone ed il video, diffuso sui social media, genera una tale indignazione nell’opinione pubblica internazionale che Angela Merkel si ritrova costretta pubblicamente a parlare per la prima volta di “matrice islamica” in riferimento ad un episodio di violenza antisemita.
Anche in Svezia, il numero di crimini a sfondo antisemita registrati nel 2018 ha raggiunto il record più alto degli ultimi decenni, aumentando del 53% rispetto ai dati forniti dal governo nel 2016. Nei Paesi Bassi la polizia parla di casi raddoppiati tra il 2008 e il 2018, da 141 a 284 (dati Poldis). La comunità ebraica del Belgio, che conta circa 40.000 abitanti e si divide principalmente tra la capitale ed Anversa, ha subito un numero crescente di minacce ed intimidazioni negli ultimi anni a partire dall’attentato al Museo Ebraico di Bruxelles del 2014 per mano dell’ex miliziano dell’ISIS Mehdi Nemmouch, costato la vita a quattro persone. Il rabbino capo Albert Guigui non indossa più la kippah dal 2001, a seguito di un assalto antisemita alla sua persona per mano di un gruppo di giovani magrebini. L’esibizione del copricapo tradizionale ebraico viene percepito come pericoloso da un numero crescente di ebrei europei. Nel 2014, in Danimarca una scuola ebraica di Copenaghen ha invitato i suoi studenti ad indossare cappellini da baseball sopra i loro yarmulke. Nel 2016 Tzvi Amar, presidente del concistoro israelita di Marsiglia, ha consigliato agli ebrei della sua città di adottare una simile forma precauzionale. Anche in Italia gli incidenti antisemiti si sono quasi quadruplicati passando da 16 episodi nel 2010 a 56 nel 2018 (DIGOS).
Questi dati ci insegnano tre cose. Primo: il problema dell’antisemitismo è reale, vasto e radicato. Secondo: sottovalutare l’antisemitismo per pigrizia intellettuale o presunta superiorità morale, pensandolo come un problema che non ci affligge, significa solo rendersi complici della sua diffusione. Terzo: lasciare alle destre sole il monopolio su di un argomento che è molto più complesso di quello che ci fa comodo credere, è da irresponsabili.
E per concludere, si stia certi di una cosa: la comunità ebraica se ne fa molto poco delle nostre critiche nei confronti di Matteo Salvini, se a nostra volta non dimostriamo di esser capaci di riconoscere e combattere l’antisemitismo che serpeggia silenzioso tra le nostre stesse file. Mattia Gemolo (24 gennaio 2020)
Matteo Gemolo è un musicologo e flautista italiano. Laureato in Filosofia all’Università di Padova, in Musicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e in flauto traversiere al Conservatorio Reale di Bruxelles. In qualità di interprete e ricercatore il suo lavoro si situa in prima linea nella ricerca, studio ed esecuzione del repertorio contemporaneo per il traversiere. Di origini veneziane, vive da 8 anni a Bruxelles (Belgio). Suona regolarmente con orchestre barocche di fama internazionale e si esisisce nei principali teatri e festival in tutta Europa. Ha inciso per Warner Classics & Erato e per Arcana (Outhere Music). Ha collaborato con varie riviste tra cui FaLaUt (IT), The Flutist Quarterly (US) e come conferenziere per il Royal Northen College of Music di Mancheste (UK), l’Università di Cardiff (UK) e l’Università di Aveiro (PO). E’ attualmente titolare di una borsa di studio di dottorato in Music Performance all’Università di Cardiff (Galles). Appassionato di filosofia, politica, storia dell’arte, cinema e giornalismo. Scrive e parla fluentemente in Inglese e Francese.
Dialogo su antisemitismo e antisionismo in crescita in Italia e in Europa
Giovedì 16 gennaio 2020 Sinistra per Israele ha incontrato a Milano i circoli PD 15 Martiri e Marcona 101 per un dialogo su antisemitismo e antisionismo, di nuovo in crescita in Italia ed in Europa.
I partecipanti sono stati accolti con un buffet di assaggi a “tema” con falafel, hummus, melanzane ed altre specialità.
Dopo una breve
presentazione dei circoli da parte di Massimo Griffini e Margherita Scalfi e
l’introduzione di Edmondo de’Donato sul tema della serata, Lia Quartapelle ha
parlato, in collegamento da Roma, della recente indagine di Euromedia Research,
pubblicata dalla Stampa, che riporta dati allarmanti sul fenomeno del crescente
odio verso gli ebrei, con addirittura il 6,1 % degli interpellati che si
dichiara apertamente antisemita.
Le motivazioni dell’inimicizia nei confronti dei cittadini di origine ebraica indicano come “colpe” per il 14% la responsabilità di un “genocidio” palestinese da parte di Israele, per l’11,6% che gli ebrei dispongano di un preponderante potere economico-finanziario internazionale, per il 10,7% che si prendano cura solo della propria comunità religiosa e non della società in cui vivono, per 8,4% che si sentano superiori agli altri, per il 5,8% che abbiano responsabilità dirette nei conflitti nel mondo.
Nega la Shoah l’1,3%
degli intervistati. Molto più diffuso è
l’antisemitismo “inconsapevole”.
Lia ha poi ricordato la
Conferenza Internazionale Interparlamentare per la lotta contro l’antisemitismo,
che già nel 2016 aveva rilevato un peggioramento del fenomeno in Europa, anche
a causa di Internet. Lia ha citato l’intervento della professoressa Monika
Schwarz Friesl, che aveva rilevato come il fenomeno dell’antisemitismo sia
presente in tutti i livelli della società, come risulta dagli oltre 200.00
messaggi ostili analizzati.
Lia ha ricordato che è stato chiesto al governo ad applicare la definizione di antisemitismo
introdotta dall’IHRA (International Holocaust Rimembrance Alliance), che ne
allarga il concetto e coglie anche le sfumature più striscianti, tra cui,
appunto, l’odio verso Israele:
“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere
espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di
antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro
proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto.”
Inoltre tali manifestazioni possono anche avere come bersaglio Israele, percepito come una collettività di ebrei. L’antisemitismo accusa frequentemente gli ebrei di cospirare ai danni del resto dell’umanità, ed è spesso utilizzato per incolpare gli ebrei di uno o più problemi politici, sociali ed economici. Trova espressione orale, scritta e impiega stereotipi sinistri e tratti caratteriali negativi». La definizione è stata accolta il governo italiano proprio il giorno successivo l’incontro.
Si è aperto quindi il dibattito partendo dalla necessità di fare chiarezza in una situazione di ignoranza, intesa come mancanza di consapevolezza, che annulla la memoria del passato e non aiuta a costruire il futuro. Come scrisse Primo Levi “chi non impara dal passato è condannato a riviverlo”. Dato il paradosso attuale di una Destra che difende Israele, il primo punto è stato chiarire che, pur se il termine “antisemitismo” potrebbe essere riferito anche agli arabi, esso è riferito generalmente solo agli ebrei come d’altra parte intese fare Wilhelm Marr, che lo coniò nel 1879.
Gli interventi in particolare di Luciano Belli Paci, Bruno Segre, Gabriele Eschenazi Giorgio Albertini e Stefano Jesurum hanno fornito un esauriente quadro storico politico dalla creazione dello Stato di Israele, delle vicende del conflitto israelo-palestinese e delle varie fasi del processo di pace. E’ stata ricordata la matrice socialista del sionismo politico, frutto di uno sforzo di conciliazione tra marxismo ortodosso e nazionalismo ebraico. Interessanti contributi alla discussione sono stati portati dall’ambasciatore Giuseppe Cassini, che ha ricordato i suoi incontri sia con Rabin che con i leader arabi in Giordania, e da Michele Sarfatti, che ha citato una ricerca del 2017 dell’Osservatorio antisemitismo del Cdec di Milano che constatò che l’11 per cento degli italiani «rispondeva con giudizi negativi a domande sugli ebrei». E’ stata evidenziata la distinzione tra antisionismo, inteso come negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, e la legittima critica al governo di destra di Israele, che non va assimilata quindi all’antisemitismo.
E’ stato fatta notare il
progressivo indebolimento della sinistra in Israele, con il risultato che i
principali competitori nella la terza tornata elettorale in un anno sono
sostanzialmente un partito di destra, Likud, e uno di centro, Blu e Bianco. Paradossale che uno dei migliori alleati di
Israele sia oggi l’Arabia Saudita, in quanto avversaria dell’Iran. In questo
quadro spicca l’irrilevanza, ormai da anni, dell’ Unione Europea nel quadro
mediorientale.
Le varie domande ed interventi delle altre persone presenti hanno alimentato la discussione, confermando l’interesse per il tema.
Ennio Galante ha chiesto
se ci sono rapporti con l’unione delle comunità palestinesi ed il loro
presidente Khaled Tamimi, e ha citato il GRMOC e Guido Valabrega, noto per le
sue prese di posizione contro Israele all’interno del PCI.
Particolarmente
interessante l’intervento di Alberto Pontara, che ha fatto notare come il fatto
che il 6% della popolazione italiana si dichiari antisemita in modo aperto ci
deve far preoccupare. Ma ancora di più ci deve allarmare il dato, che non
conosciamo, di quanti lo sono ma non lo ammettono. Siamo di fronte a diversi
tipi di antisemitismo: quello di destra (non solo estrema), quello populista
(incarnato perfettamente dai deliri sui “Savi di Sion” di qualche
esponente cinque stelle), quello di tipo islamista e infine dobbiamo anche
constatare un antisemitismo di sinistra. In Francia il problema è ancora più
sentito: molti ebrei francesi hanno scelto di andare in Israele, c’è una paura
che si pensava debellata e che invece torna in modo preoccupante. La domanda è:
c’è questa consapevolezza a sinistra? La sinistra sta facendo abbastanza per
contrastare ogni forma di antisemitismo, anche al suo interno? Ma soprattutto,
cosa dobbiamo e possiamo fare di più su questo tema? Da qui si è concordata la
necessità di diffondere, all’interno del PD e della Sinistra, una maggiore
conoscenza e consapevolezza, per scardinare le pregiudiziali antiisraeliane
tuttora presenti nella sinistra italiana, con la proposta di tenere incontri
come questo anche in altri circoli PD di Milano.
Antisemitismo e antisionismo sono fenomeni di nuovo in crescita, come dimostra l’ultimo l’attacco sanguinario di Monsey negli Stati Uniti e gli ignobili episodi sempre più frequenti in Europa. Anche in Italia si registra un crescendo inquietante di manifestazioni di odio.
I Circoli PD di Milano M101 e 15 Martiri con Lia Quartapelle ne parlano con Sinistra per Israele, da sempre impegnata a contrastare i pregiudizi antiisraeliani e antisionisti anche nella sinistra italiana, sempre con Israele, sempre contro i governi di destra (anche in Israele).
Sarà l’occasione per promuovere, sopratutto nei giovani, la corretta informazione ed analisi di questi fenomeni, per combatterli, riproponendo lo scardinamento della pregiudiziale antiisraeliana, l’antisemitismo a sinistra, e riaffermando il sionismo storico come “oggetto” di sinistra.
Vi aspettiamo Giovedì 16 Gennaio ore 21 in via Marcona 101
Ad una annodalla scomparsa invitiamo a rileggere la rievocazione dello scrittore Eshkol Nevo del suo maestro all’Università Ben Gurion: «Spero che avremo il suo stesso coraggio»
Amos Oz era il mio maestro. Alla prima lezione del corso di scrittura all’Università Ben Gurion ha esordito con questa frase: «Non posso insegnarvi a scrivere. Però vi posso insegnare a cancellare». Hanno fatto seguito esercizi stimolanti. E riscontri incisivi. Ma più di tutto mi sono rimasti impressi il basilare rispetto con cui si rivolgeva a tutti i presenti e la serietà con cui si dedicava a qualunque testo gli venisse presentato. Anche il più acerbo. A fine seminario mi sono reso conto che da Amos non avevo imparato soltanto come scrivere, avevo imparato anche come insegnare: con riverenza, con dedizione assoluta, con la consapevolezza che il potere nelle mani di un maestro va usato soltanto per giovare.
Eshkol Nevo
Il secondo corso che ho seguito con lui era dedicato ai
racconti brevi di Shai Agnon. Amos non insegnava Agnon come lo insegnano al
liceo, con lo scopo di cavarne interpretazioni, ma da autore che cerca di
individuare in che modo la lettura di un grande narratore può diventare motore
per la scrittura. Ci leggeva Agnon, riga dopo riga. Delucidava e illuminava.
Collegava e spiegava. Più di tutto, ci contagiava con il suo amore per Agnon.
Al termine di una lezione mi sono avvicinato al podio dove
si trovava. Volevo raccontargli una cosa. Ho aspettato in fila. C’era sempre
una fila di persone che volevano intrattenersi con lui. E a ciascuna dedicava
un’attenzione indivisa. Quando è arrivato il mio turno, mi ha chiesto di
accompagnarlo all’aula successiva in cui doveva entrare. Mi sono pavoneggiato
con lui, mi ero licenziato dal lavoro e adesso «scrivevo e basta». Lui si è
fermato, mi ha guardato con il suo sguardo penetrante e ha detto: «Io non ho
mai “scritto e basta”». E ha aggiunto: «Non son certo che sia cosa buona, per
un uomo, “scrivere e basta”».
Adesso ripenso a quella frase. Contiene un nocciolo di
saggezza universale: l’anima dell’uomo ha bisogno di un contatto con il mondo
concreto, altrimenti languisce nella sua solitudine. Ma racchiude anche
un’ideologia. Non basta scrivere belle storie. O romanzi ben costruiti. Certo,
ci si può accontentare di questo, ma un vero intellettuale non può non essere
coinvolto nella società in cui vive. Esprimere la sua opinione, anche quando
non è popolare. Illuminare con le sue parole gli angoli bui, anche quando
nessuno li vuol vedere.
La verità va detta: Amos ha pagato un prezzo alto per il suo
coinvolgimento politico e sociale. Mentre per molti riusciva a formulare in
modo incisivo quel che provavano, molti altri sentivano che rappresentava tutto
quello che avversavano.
«Non ho bisogno che tutti mi amino tutto il tempo» ha detto
una volta Amos. Eppure, serve coraggio per rinunciare a questo amore, e serve
coraggio per andare controcorrente, e serve coraggio per essere leale solo ed
esclusivamente a te stesso e alla tua bussola interiore.
Spero che io e la mia generazione avremo il coraggio che ha
avuto Amos: di non tacere al nostro Paese, quando cambia faccia.
Amos è rimasto il mio maestro anche quando ho smesso di studiare con lui.
Dopo ogni nuovo romanzo, ricevevo la sua telefonata. O una
lettera. A volte entrambe. Oltre alle cose che del libro gli piacevano,
segnalava sempre — con delicatezza, con voce gentile — ciò a cui a suo avviso
era possibile aspirare. Anche dopo l’ultimo libro, ha telefonato. Questa volta,
per scusarsi. Stava leggendo il mio nuovo romanzo più lentamente del solito,
per via delle chemioterapie che lo indebolivano. Perciò non l’aveva ancora
terminato. Sperava solo che io non la prendessi male.
Lui sperava che io non la prendessi male? Mentre lo scrivo,
sento un brivido. Ma non solo io ricevevo quelle telefonate, e le lettere
stilate in una scrittura incredibilmente fitta.
Chiunque abbia avuto il privilegio di avere rapporti con
Amos Oz conosceva il segreto: il più grande degli scrittori in lingua ebraica,
l’oratore che scolpiva le fiamme, lo stregone della tribù, nella vita privata
era una persona di straordinaria delicatezza. E di straordinaria generosità.
Alcuni anni fa, dopo la pubblicazione del suo libro Giuda,
l’ho intervistato. Il giornale me l’ha proposto e ho pensato che fosse
un’ottima scusa per incontrarci. Ci siamo seduti nel suo studio. Abbiamo bevuto
un tè. Poi un altro tè. Si è arrampicato sulla scala per prendere un libro
dallo scaffale più alto della sua biblioteca.
Adesso torno a rileggere quell’intervista. E scopro che verso la fine gli avevo
chiesto della fine: della prospettiva di cui godiamo quando ci avviciniamo
all’ultima parte della nostra vita.
Ecco come ha risposto: «Nella mia vita, ho ottenuto più di
quanto sperassi. Ci sono persone che alla mia età sono amareggiate, si
comportano come se stessero per essere cacciate fuori da una festa in pieno
svolgimento. Io provo gratitudine. Sono grato per un bel libro. Per una buona
conversazione. Per i miei figli e nipoti. Per le amicizie».
E ha aggiunto: «Trascorro molto tempo con i morti, ripenso alle persone che ho
conosciuto e amato nel corso della vita, ci sono più persone che ho amato e
oggi non sono con noi, che non persone che ho amato e sono con noi. Mi mancano.
Vivo come fossi gravido. Con i morti nella pancia. Di tanto in tanto converso
con loro. Pongo domande, e ricevo risposte».
Alcune settimane fa ci siamo nuovamente incontrati in casa
sua. Non immaginavo che sarebbe stato l’ultimo incontro. Amos era malato. Ma
come sempre sprizzava acume e racconti. E come sempre lui e sua moglie Nilli
non mi hanno permesso di andarmene prima di rifornirmi di provviste letterarie
per la strada.
Avessi saputo che era il nostro ultimo incontro, sarei forse stato più generoso
nelle parole di congedo.
Forse gli avrei detto che il maestro giusto, al momento giusto, può cambiare la
vita a una persona.
Adesso converso con lui nel mio cuore, pongo domande e
ricevo risposte, leggo e rileggo i suoi libri. Raccolgo frasi belle con cui
consolarmi: «In cuor suo sapeva che la maggior parte delle persone ha bisogno
di più amore di quanto ne possa ricevere»; «La mia maestra Zelda… riteneva
opportuno richiamarmi garbatamente, se qualche volta smetti di parlare, le cose
qualche volta potranno parlare a te»; «Un uomo deve agire per gli altri e non
distogliere lo sguardo; se vede un incendio, ha il dovere di cercare di
spegnerlo; se non ha un secchio d’acqua, può usare un bicchiere; se non ha il
bicchiere, avrà un cucchiaino, l’importante è continuare a provare».
Amos Oz, amato maestro, il tuo ricordo sia di benedizione.
(traduzione di Raffaella Scardi)
L’autore del ricordo
La scomparsa dello scrittore Amos Oz, che era nato a
Gerusalemme il 4 maggio 1939 e si è spento il 28 dicembre 2018 a Tel Aviv a
causa di un tumore, ha segnato un lutto grave per la letteratura israeliana e
mondiale. Tra gli allievi di Oz, la cui opera ha segnato una stagione
fondamentale nella vicenda culturale del suo Paese, spicca il romanziere
israeliano Eshkol Nevo (nato nel 1971), che a suo tempo frequentò le sue
lezioni all’Università Ben Gurion. A Nevo, autore di libri importanti come il
romanzo Nostalgia (edito in Italia da Mondadori nel 2007 e poi riproposto da
Neri Pozza nel 2014) si deve questo ricordo di Oz, che unisce la commozione
personale a riflessioni acute sul ruolo svolto dal maestro nella vita sociale
dello Stato ebraico.
È morto a 79 anni il grande scrittore israeliano. Una vita al servizio della sua terra dal kibbutz alle battaglie civili, non ha mai smesso di denunciare l’escalation militare verso i palestinesi e di promuovere la soluzione dei due Stati
Sia perdonato il tono personale ma la storia che segue, per certi versi, riassume il modo di stare al mondo e con gli altri di Amos Oz, scomparso ieri all’età di 79 anni. Eravamo a Novara a presentare il suo romanzo Giuda, l’ultimo che ha scritto e dove, attraverso vari protagonisti lo scrittore israeliano fa i conti con gli ideali cui ha creduto e con l’idealismo che talvolta porta al tradimento e può provocare la morte altrui; un romanzo quindi sulla responsabilità. In una sala piena di gente avevo fatto cenno, coerentemente con il libro e con la vita dell’autore, al dovere di soccorrere i naufraghi e i profughi. A tavola, dopo la presentazione, Oz mi guardò dritto negli occhi e mi domando: «Ti sei sentito contento quando hai fatto quella domanda e hai avuto l’applauso del pubblico?». Amos Oz, proprio perché era un grande scrittore sapeva che per fare “il Bene” non bastano le belle parole. E da gigante della letteratura era conscio dei limiti della stessa letteratura.
Un giorno, a casa sua, a Tel Aviv, parlando di Louis-Ferdinand Céline, disse: «Scriveva benissimo, meglio di tutti gli altri francesi del Novecento, ma non era un grande scrittore». Per Oz erano fondamentali l’etica nella letteratura e il dovere di narrare bene la tragedia insita nell’esistenza di noi umani, ma senza astio. Amava ripetere che un ideale per rimanere ideale non può essere realizzato; che il sogno quando diventa realtà è delusione; che l’amore non è solo altruismo ma ha un lato egoistico; e che nel predicare il Bene, appunto c’è del narcisismo. E ciò nonostante, tutto questo non deve portarci al cinismo, alla rinuncia agli ideali, ai sogni e all’amore. Il compromesso, diceva, era la parola più cara del suo vocabolario e con una certa ironia, faceva un esempio: «Da decenni sono sposato con la stessa donna; quindi so cosa vuol dire compromesso». Per quella donna, Nili, provava, ricambiato, un amore senza limiti.
Amos Oz era nato a Gerusalemme come Amos Klausner, figlio di un intellettuale originario dei territori dell’ex impero zarista, e che lui stesso considerava fallito. Lo ha descritto in modo magistrale in Una storia d’amore e di tenebra, un romanzo e un memoir tenero e crudele al tempo stesso, in cui racconta le vicende della sua famiglia. La madre Fania si era tolta la vita quando Amos era giovanissimo e da quel lutto non è mai riuscito a guarire. A quindici anni lasciò la casa del padre e l’ambiente di destra in cui era cresciuto e andò a vivere in un kibbutz. Cambiò il cognome in Oz, che vuol dire forza e coraggio. Voleva essere pioniere, agricoltore, e con i piedi nudi toccare la terra. E invece diventò scrittore.
Negli ultimi anni, nel saggio Gli ebrei e le parole, scritto assieme alla figlia Fania Oz-Salzberger, rivaluta l’idea di un’identità ebraica legata al testo, alla memoria delle parole e non alla terra. Un ritorno alle origini diasporiche, un ripensamento del messaggio sionista? No: per Oz, l’esistenza di uno Stato degli ebrei era di primissima importanza, questione di vita e di morte. Ma ripeteva spesso: «Sono disposto a dare la vita per la libertà, non per le pietre e i luoghi sacri». Non sopportava i fondamentalismi, li considerava un morbo dei nostri tempi; e intendeva tutti i fondamentalisti: islamici, ebraici, cristiani. Pensava che per curare quella malattia occorreva il senso dell’ironia, quella distanza da se stessi che permette di accettare la rinuncia a qualche diritto, per non ledere quelli altrui. Ecco perché per lui la pace con i palestinesi voleva dire fine dell’occupazione e due Stati, quindi un divorzio ragionevole, senza pretese di amore tra ex nemici. E a proposito dell’occupazione, un giorno mentre lo accompagnavo all’aeroporto mi ha detto con orgoglio: «Sono stato il primo a dire pubblicamente, nel 1967, subito dopo la Guerra dei sei giorni che occorreva ritirarsi dai Territori che erano stati appena occupati». Nello stesso anno si mise a girare i kibbutz per raccogliere le testimonianze dei soldati, racconti duri e crudeli, per niente edificanti né celebrativi della vittoria. Il tutto uscì in un libro e recentemente, in un documentario, Censored Voices. «Volevo raccontare quanto la guerra sia sangue e merda e non solo trionfi», disse. Eppure considerava quella una guerra giusta.
Scrittore instancabile (22 tra i romanzi e le raccolte di storie brevi e 11 i libri saggistici, pubblicati in ebraico), il suo capolavoro assoluto resta un romanzo scritto all’età di 27 anni, pubblicato nel 1968, Michael mio in cui racconta la storia di una donna afflitta da una sorta di mal dell’anima, depressa, instabile, insoddisfatta della vita, con sullo sfondo un marito buono ma incapace di far fronte alla situazione, in una Gerusalemme divisa tra Israele e Giordania. Era contento quando sentiva dire che quello era il suo libro migliore; perché il più profondo nella ricerca della verità interiore. Della Gerusalemme degli anni Cinquanta e primi Sessanta, città degli intellettuali, laica, un po’ sonnolenta, ha avuto sempre nostalgia, mentre dal kibbutz si trasferiva ad Arad nel deserto del Negev e poi a Tel Aviv, per stare vicino ai nipoti. Quando abitava ad Arad, ogni mattina, prestissimo (si alzava alle cinque) andava a camminare, fuori dalla cittadina. Diceva che guardare il deserto con le sue pietre e i suoi spazi, un’immagine che racchiude l’eternità, gli faceva capire quanto fossero ridicole le espressioni “per sempre” o “mai” in bocca ai politici. E ad Arad (cambiando il nome del luogo in Tel Ilan) ambientò un delizioso romanzo, Scene della vita di un villaggio, in cui descrive le piccole vite di piccoli uomini e donne; e ad Arad (questa volta sotto il nome Tel Kedar) è ambientato Non dire notte.
Oz era un gigante perché come pochissimi scrittori al mondo sapeva narrare le più recondite emozioni delle persone comuni, e basti pensare a Una pace perfetta, o a Lo stesso mare: un modo di indagare il mondo, proprio dei grandissimi russi, come Cechov o Gogol. Quando, una volta sentì dire che era un autore russo che scriveva in ebraico, la faccia gli si illuminò (aveva una faccia bellissima): era felice.
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