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Nuovo antisemitismo Il “test Israele” a Parigi

I macroniani contro l’antisionismo, Corbyn ne mette in discussione il “diritto a esistere” . Giulio Meotti Il Foglio 4 Dicembre 2019

Lo scorso 16 febbraio, a margine di una manifestazione dei gilet gialli, il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut venne aggredito per strada: “Merda sionista” gli dissero, e lo minacciarono di morte. Pochi giorni dopo l’aggressione a Finkielkraut, Emmanuel Macron dichiarò che l’antisionismo rappresenta “una delle forme moderne dell’antisemitismo”. L’episodio ha spinto il deputato macroniano Sylvain Maillard a convincere i colleghi parlamentari a votare una proposta di risoluzione sull’antisemitismo. Il test intende affermare che “gli atti antisionisti possono talvolta nascondere realtà antisemite”.

Il deputato di Parigi propone di adottare la definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto (Ihra). Nonostante il sostegno del presidente, l’iniziativa divide la maggioranza in Assemblea. Maillard ha così riscritto la risoluzione attenuandola: l’antisionismo ora è “a volte “ e non “spesso” la maschera dell’antisemitismo. La proposta è firmata da un terzo del gruppo della République en marche, pochi considerando che il presidente del gruppo, Gilles Le Gendre, e il capo del partito, Stanislas Guerini, ne sono i firmatari. Contraria alla risoluzione la leader del Rassemblement National Marine Le Pen. “Questa definizione dovrebbe consentire di stabilire un quadro per insegnanti, magistrati e polizia”, ha detto Francis Kalifat, presidente del Consiglio delle comunità ebraiche di Francia, per il quale la negazione dell’esistenza di Israele è “uno dei fattori essenziali dell’antisemitismonel nostro paese”. I un un appello sul Monde, 127 esponenti della sinistra ebraica chiedono ai parlamentaridi non votare la risoluzione , perché inibirebbe la critica a Israele, sebbene sia stata adottata nel 2017 dal Parlamento europeo, nel 2018 dal Consiglio della Ue e sia considerata la carta fondamentale contro il nuovo antisemitismo contemporaneo.

“La risoluzione non proibisce le critiche a Israele”, dice Frédéric Potier, delegato interministeriale per la lotta al razzismo e all’antisemitismo. La discussione arriva a poche settimane dalla visita di Macron in Israele e un voto positivo da parte della Francia verrebbe accolto favorevolmente a Gerusalemme, dove il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva già assicurato al presidente francese la sua “stima” quando quest’ultimo lo aveva informato del suo desiderio che la Francia adottasse la definizione di antisemitismo.

“Possiamo criticare il confine, le colonie, ma non possiamo mettere in discussione lo stato di Israele, per noi questo è antisemita”, continua il parlamentare parigino Maillard, promotore della risoluzione. Che è proprio quello di cui, in Inghilterra, viene accusato il leader del Labour, Jeremy Corbyn.

Ieri è uscita la clip di un’intervista rilasciata da Corbyn alla tv di regime iraniano Press Tv. In un documentario che esaminava le accuse di pregiudizio della Bbc nei confronti di Israele, Corbyn, allora deputato laburista, si domandava se Israele avesse il “diritto di esistere”. “Penso che ci sia un pregiudizio nel dire che Israele è una democrazia in medio oriente, che Israele ha il diritto di esistere e che Israele ha i suoi problemi di sicurezza” ha detto Corbyn, che non a caso si era duramente opposto alla risoluzione dibattuta a Parigi.

Intanto, dall’Ihra, ci si aspetta che anche l’Italia adotti la risoluzione contro l’antisemitismo dopo che è stata già approvata da quindici paesi europei. “In data 4 ottobre 2018,la Camera dei deputati della Repubblica italiana, mediante apposite risoluzioni, ha impegnato il governo ad adottare la definizione Ihra di antisemitismo. Malgrado la convergenza di tutti i partiti su tale impegno, il governo non ha ritenuto di dargli alcun seguito”.

La volontà delle democrazie europee di combattere l’antisemitismo si misura anche dalle famose “tre D” indicate da Nathan Sharansky nel test per distinguere la critica legittima a Israele dall’attacco antisemita: la delegittimazione, ovvero negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione; il doppio standard, cioè applicare a Israele una morale differente rispetto ad altri paesi, e la demonizzazione, dove si fa dello stato ebraico l’oggetto di un complotto malvagio. Quante delle critiche a Israele oggi supererebbero questo test?

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Il presunto “antisemitismo” di Corbyn che spaventa Gad Lerner

Rosa Gilbert Contropiano 27 novembre 2019

Sono abbastanza stupita di vedere che il panico sull’antisemitismo nel Labour Party del Regno Unito si sia diffuso anche in Italia, in un modo forse più distorto e complicato anche grazie alla narrativa parziale e anche per le discussioni nate con le vicende su Liliana Segre, Chef Rubio, Meloni, il sindaco di Predappio ecc.

Provengo da una famiglia ebrea che come tante famiglie di immigranti ha quasi perso la fede dopo la Shoah – mia nonna è stata una profuga dall’Austria e la maggior parte dei suoi familiari sono finiti nei campi di concentramento. Mio nonno è nato in Inghilterra da genitori profughi per antisemitismo dell’Europa orientale e lui ha combattuto con l’esercito britannico qui in Italia durante la guerra antifascista. Come tanti dei miei parenti sono iscritta al Labour Party e vorremmo con forza un governo Corbyn per il Regno Unito.

Ho letto l’articolo su Repubblica di Gad Lerner e anche quello sul Venerdí di Repubblica scritto dal corrispondente britannico, Antonello Guerrera, con rabbia e sgomento, dopo 4 anni ormai di attacchi contro il capo del partito più antirazzista mai visto nella mia vita.

Ricordo che il governo di Blair ha costruito prigioni per richiedenti asilo, che sono stati imprigionati a lungo fino al rimpatrio forzato o che dir si voglia a una deportazione, senza che questi abbiano commesso alcun reato (un governo di Corbyn chiuderebbe  queste “prigioni”).

Ad ogni modo la parte più insidiosa dell’articolo di Lerner è quest’idea che la sinistra veda gli ebrei come un “elite” economica. Mi dispiace per lui perché questo è uno spettro assolutamente inventato – ogni volta che il Labour parla dei ricchi, dei banchieri, o del sistema “truccato” un commentatore della destra accusa il partito di antisemitismo, un accusa che è essa stessa antisemitica.

L’idea che lo slogan del Labour  “per i molti, non per i pochi” possa essere interpretata contro gli ebrei (“the few”/”the Jew”) è proprio antisemitica perché è un pregiudizio.

Mio nonno é morto prima della pensione dopo una vita di lavoro in fabbrica, inalando fumi tossici. Trovo questa strumentalizzazione ripugnante. E’ vero che le dinamiche di classe sono cambiate tanto negli ultimi 40 anni, ma il discorso sugli ebrei come un elite finanziaria (già propaganda nazista) è un archetipo vecchio che esiste nella società, ma non c’entra nulla con la narrazione del partito riguardo i ricchi e i poveri.

I sondaggi dimostrano che è minore l’antisemitismo nel Labour Party rispetto agli altri. Dunque ci dobbiamo chiedere se sia utile parlare di antisemitismo come un problema del Labour/la sinistra o un problema della societá, ricordando che gli iscritti di un partito – e parlo del partito con più iscritti nell’Europa occidentale – rappresenta una parte della società.

Sarebbe più utile porsi il problema sulla società e non limitato solo ad un partito, perché dunque distrazione? E’ chiaro che sia giusto avere una disciplina forte e un’educazione politica per espellere dal partito gli antisemiti ma, senza avere una programma antirazzista da applicare ogni giorno nella societá, è evidente che il problema non è risolto.

Infatti Lerner tocca proprio questo argomento, parla dei “clandestini” per dire che i migranti di oggi sono come gli ebrei di ieri. Per esempio, qual é il partito britannico che ha fatto una campagna con una scritta su un furgone che riportava “vai a casa” nei quartieri a più alta concentrazione di migranti?

Quale partito ha deportato cittadini britannici di origini carabiche nei paesi che non conoscono (il cosidetto Windrush Scandal)?

La risposta è che sono stati i Tories, cioè il partito conservatore.

Invece, quale capo di partito é andato a incontrare i migranti a Calais, abbracciarli, e ha sempre preso parte nelle campagne in favore dei migranti e dei profughi? Solo uno, Jeremy Corbyn.

Lerner cita poi il Jewish Chronicle, un settimanale ebreo che è una delle fonti di accusa principale contro il Labour. Una volta questo giornale mi chiese di scrivere un articolo sulle vicende di mia nonna che fu costretta – per salvarsi la vita – a falsificare i suoi documenti per scappare dai nazisti ed entrare cosi nel Regno Unito. Ebbene il mio articolo verteva sui migranti fermi a Calais (2016), facendo appunto un parallelo storico con la biografia di mia nonna, cercando di far comprendere alcune similitudini in un momento storico in cui la stampa e i media della destra attaccavano continuamente queste persone accusandole di essere “clandestine”, “bugiarde” e fuori legge.

L’articolo dopo esser stato ufficialmente commissionato non vide la luce sul Jewish Chronicle probabilmente perché ho sottolineato (argomentando ampiamente) come Corbyn al tempo fosse l’unico politico che trattava e tratta i migranti come esseri umani.

Per quelli che non lo conoscono, il Jewish Chronicle si può affermare che si posiziona politicamente più che altro a destra. L’editore Stephen Pollard è un giornalista che lavorava per tabloid come il The Daily Express, simile al giornale Libero qui in Italia, forse anche peggio – spesso su questo genere di stampa vengono scritti articoli isterici proprio contro i migranti.

Per esser più chiari, nel 2006 Stephen Pollard ha scritto che esiste una battaglia per “conservare la civilizzazione occidentale” e che “la sinistra, in ogni forma riconoscibile, è il nemico”.

Quando Lerner spiega come il Jewish Chronicle interpreta – a suo modo di vedere – la posizione di Labour contro i ricchi come “antisemitismo”, avrebbe potuto citare direttamente Pollard quando ha condiviso un video di Corbyn per i 10 anni dalla crisi finanziaria, dove attaccava i banchieri che hanno contribuito alla crisi, come l’attuale ministro dell’economia Sajid Javid, ex Goldman Sachs. Invece si insinua che Corbyn, il loro nemico, si riferisca ai pochi come ad ipotetici banchieri ebrei e quindi di conseguenza accusandolo di antisemitismo.

Pollard è ben conosciuto per i suoi attacchi agli ebrei socialisti e alla sinistra in generale. Nel 2011 il Jewish Chronicle ha pubblicato un articolo su un attivista ebreo che su Twitter aveva dato consigli legali per tutelarsi ed evitare l’arresto della polizia durante manifestazioni dove potevano succedere episodi violenti.

Ebbene in questo articolo furono inclusi dettagli personali su di lui e i suoi genitori, entrambi attivisti socialisti ebrei. Dopo la pubblicazione, la famiglia ha ricevuto minacce di ogni genere dalla destra estrema, così gravi che hanno dovuto mettere in sicurezza la loro casa ed avere massima attenzione, soprattutto quando su un forum neo-nazista su web è stato fatto circolare il loro indirizzo.  

Lo stesso Pollard ha rifiutato di rimuovere l’articolo, anche se questo ha messo a rischio una famiglia ebrea minacciato dai nazisti. Ed ora, candidamente, parla di Corbyn come una minaccia per gli ebrei?!

Non solo, la fonte preferita da Gad Lerner, il Jewish Chronicle, ha in precedenza attaccato la sinistra, incluso il capo del Labour prima di Corbyn, Ed Miliband, un ebreo burlato dalla stampa di destra per non essere in grado di mangiare un panino con la pancetta, e per avere un padre che era un profugo ebreo accusato di odiare la Gran Bretagna, in un articolo reazionario difeso dai giornalisti del Jewish Chronicle.

Il Jewish Chronicle e Pollard hanno attaccato Miliband per aver preso una posizione troppo radicale sul Medio Oriente cioè, criticare le azioni di Israele durante l’”Operation Protective Edge” e riconoscere lo stato di Palestina.

Più di recente, un altro giornalista del Jewish Chronicle, Lee Harpin, ha risposto al famoso poeta ebreo socialista Michael Rosen, che difende il partito e Corbyn dalle accuse come quella di essere un “cheerleader per George Soros”.

Per il Jewish Chronicle, gli ebrei socialisti sono i bersagli preferiti.

Ma veniamo ai fatti interni al partito. Probabilmente lo scandalo più grande di antisemitismo del Labour era sull’uso da parte del IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) della definizione di antisemitismo per i processi disciplinari del partito.

Il comitato nazionale del partito ha deciso di cambiare non la definizione, ma gli esempi, includendo le “illustrazioni”, in parte ci sono problemi segnalati anche da uno dei autori della definizione originale – perchè 6 su 11 di questi esempi si riferiscono ad Israele, incluso uno molto controverso che afferma che sarebbe antisemita definire Israele come “un’entità razzista”.

Uno dei rappresentanti del comitato, anche lui ebreo, ha descritto il codice istituto dal Labour come un “gold standard” – ma non sembrava essere abbastanza, ed è cominciata nell’estate del 2018 una campagna della stampa – di destra e liberale – che accusava il partito di essere antisemita per non interpretare alla lettera il codice comportamentale di IHRA.

I lettori e le lettrici più interessate possono leggere qui un articolo su questo clamore, e c’è anche un nuovo libro su questa “crisi” che spiega il ruolo della stampa sul sensazionalismo dato alla vicenda.  

Anche in Italia dove il discorso sull’antisemitismo è diventato sensazionalista; ritroviamo un dipinto parziale della scena inglese e questo è pericoloso.

Pare che Lerner voglia fare un paragone fra l’antisemitismo della destra italiana, che è indifferente all’antisemitismo nella societá europea ma sostiene Israele per essere anti-islamica, e quello del Labour che lui crede sia nato da un amicizia fra il movimento operaio e il movimento palestinese, incluso quelli che “mettono in atto pratiche terroristiche”.

Paragonare l’antisemitismo della destra italiana al partito Labour è non solo completamente sbagliato, ma non spiega con i fatti come sia possibile mettere sullo stesso piano le  idee della destra italiana con le politiche del Labour Party a maggior ragione quando lo stesso Corbyn è stato grande amico di un sopravvissuto all’Olocausto recentemente scomparso.

Curioso come un altro articolo, quello sul Venerdí scritto da Antonello Guerrera, corrispondente britannico della Repubblica,  dipinga Corbyn come un vecchio marxista amico di terroristi islamici, attingendo direttamente – anche qui – da “fonti” false e direttamente dalla stampa tabloid, dove si raffigura Corbyn come una minaccia e al tempo stesso come un incompetente.

Guerrera scrive che il problema dell’antisemitismo nel partito Labour “non è mai stato seriamente affrontato” e  questo non corrisponde alla verità. Dopo una campagna di accuse contro Corbyn da prima che fosse il capo del partito, per ogni evento pro-Palestinesi, ogni articolo che ha scritto, ogni tweet o post su social di ogni candidata del partito, il partito ha sempre preso seriamente le posizioni prese ed ha attivato un’indagine generale per verificare le accuse che erano state mosse ed eventualmente punire e censurare qualsiasi caso scoperto come antisemita.

Nel 2016 a questa indagine ha diretto un avvocato con l’aiuto di alcuni accademici, dopo alcuni commenti anti-Israele di due membri del partito in cui si affermava che i sionisti furono sostenuti da Hitler, Ken Livingstone (uno dei due) è stato sospeso ed in seguito ha rassegnato le dimissioni dal partito.

A onor del vero bisogna dire che la stampa – ostile al Labour – si dedica costantemente alla ricerca di affermazioni anche non significative mettendo in luce post su social di membri secondari del partito solo per scatenare un caso e gonfiare ad arte dei fatti che meritano certo attenzione ma vanno contestualizzati e non strumentalizzati.

Non scrivo questo per negare che c’è antisemitismo nel mio partito, perché esistono ovunque, anche sessismo, razzismo, islamofobia e omofobia. Voglio chiarire la situazione circa una campagna brutale, che strumentalizza i fatti, mettendo paura alla comunità ebraica (un giornalista della destra ha detto che Corbyn vuole riaprire Auschwitz), mentre non sono interessati a condurre una vera lotta antirazzista nella società.

E’ una delle campagne di diffamazione più intense mai viste –  anche oggi 24-11-19 su un giornale domenicale l’ex capo di MI6 (uno che ha affermato falsamente che c’erano le “armi di distruzione massa” in Iraq) ha detto che Corbyn sarebbe una minaccia alla sicurezza del paese; è per questo che la campagna anti-Corbyn non finirá mai – è una minaccia agli interessi consolidati dell’imperialismo e del capitalismo britannico.

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Antisemitismo, l’ambigua sinistra inglese

Tra i laburisti casi di minacce, aggressioni, accuse al leader Corbyn e anche la denuncia pubblica di 67 esponenti del partito

Paolo Mieli Corriere della Sera 2 Dicembre 2019

Impossibile valutare quanto influirà sulle imminenti elezioni inglesi l’atto terroristico compiuto da Usman Khan venerdì scorso sul London Bridge. Poco, secondo la maggior parte degli osservatori e per quel poco a vantaggio di Boris Johnson che i sondaggi danno in ogni caso come vincitore. Del resto il partito di Nigel Farage ha deciso di facilitare il partito di Johnson non presentando propri candidati nei seggi in cui i conservatori prevalsero nel giugno 2017. Ma è vero altresì che proprio nel giugno 2017 Theresa May, data per iperfavorita dalle rilevazioni demoscopiche, perse inaspettatamente tredici seggi e con essi la maggioranza assoluta nel Parlamento inglese. Un identico passo falso — quello di provocare le elezioni sicuro di vincerle — lo aveva fatto nel 1974 il conservatore Edward Heath a tutto vantaggio del laburista Harold Wilson. La Gran Bretagna ci ha abituato a questo genere di sorprese. Anche grandi. Il laburista Jeremy Corbyn si mostra perciò ottimista anche in virtù di un programma davvero ambizioso: tassazione super per le imprese — a cominciare dalle multinazionali come Amazon, Google e Facebook — e per coloro che guadagnano più di ottantamila sterline l’anno (il 5% degli inglesi); nazionalizzazione di ferrovie, acqua, energia e poste (rimborsando le società mediante titoli di Stato, come fece tra il 1946 e il 1948 Clement Attlee. E non solo.

Jeremy Corbyn prevede anche un aumento della spesa pubblica di 83 miliardi, settimana lavorativa accorciata a 32 ore, aumento del 5% dei salari, controlli odontoiatrici gratuiti una volta l’anno, abolizione delle tasse universitarie, 150 mila nuove case popolari, banda larga per tutti entro il 2030. L’insieme in una visione della politica internazionale dai forti connotati antiatlantici corroborati da una più che decisa simpatia per organizzazioni come Hamas e Hezbollah (definite «amiche») e di spiccata antipatia nei confronti «delle politiche dello Stato di Israele». A tal punto evidente che in molti, anche dall’interno del Partito laburista, hanno identificato in essa i caratteri di un’ostilità a Israele tout court, sconfinante per di più in un (magari involontario) sentimento antisemita. Ne ha parlato in un editoriale sul Times (in termini assai più decisi di quelli che ho testé usato), il rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth Ephraim Mirvis domandandosi e domandando ai lettori: «Che ne sarà degli ebrei e dell’ebraismo britannico se il Labour formerà il prossimo governo?». Ma ancor più clamoroso è che l’appello di Mirvis sia stato fatto proprio e rilanciato – con parole ugualmente impegnative – dall’arcivescovo di Canterbury Justin Welby.

Corbyn, alla guida dei laburisti inglesi dal 2015, non è nuovo a questo genere di rilievi. Non si contano, nella sua biografia, episodi che anche in Italia avrebbero sollevato (immaginiamo) commenti aspri non soltanto da parte ebraica: la partecipazione, nel 2012 a Tunisi, a una cerimonia in onore di uno dei terroristi che nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco avevano sequestrato e ucciso atleti israeliani; l’amichevole incontro con il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina alla vigilia di un attentato a una sinagoga di Gerusalemme in cui sarebbero rimasti uccisi quattro rabbini (uno dei quali inglese: Avraham Shmuel Goldberg); la conferenza con Khaled Meshaal, il leader di Hamas già sulla «lista nera» del Regno Unito; la protesta contro il sindaco di Londra reo di aver fatto cancellare un dipinto murale di Mear One – un nome d’arte – da lui, non a torto, ritenuto antisemita; la prefazione a sua firma alla ristampa di un libro del 1902 in cui John Atkinson Hobson sosteneva essere il capitalismo internazionale «controllato da uomini di una singola razza particolare» (analisi «corretta e lungimirante» l’ha definita Corbyn); il capo laburista ha altresì chiamato «fratello» Abdud Aziz Umar condannato a sette ergastoli per aver fatto esplodere a Gerusalemme un ristorante, provocando la morte di sette persone. E si potrebbe continuare…

Intendiamoci presi uno per uno tutti questi casi (alcuni più, alcuni meno)potrebbero trovare delle giustificazioni. Ma nel loro insieme non possono non suscitare perplessità. Del resto Corbyn non è stato certo il primo nel mondo laburista a manifestare sentimenti del genere. L’ex sindaco di Londra Ken Livingstone provocò un grande trambusto allorché sostenne l’ardita tesi secondo cui «quando Hitler vinse le elezioni, la sua politica era che gli ebrei dovessero spostarsi in Israele… Hitler era di fatto un sostenitore del sionismo prima che perdesse la testa e finisse per uccidere sei milioni di ebrei». Un candidato alle amministrative di Peterborough, Alan Bull, aveva poi più sbrigativamente sostenuto essere l’Olocausto «una bufala».

Recentemente l’atmosfera si è fatta ancora più calda. In febbraio la deputata Luciana Berger ha strappato la tessera dopo che a un congresso del Labour aveva subito minacce e aggressioni fisiche a seguito delle quali le era stata assegnata una scorta. Joshua Garfield ha lamentato di essere stato qualificato come «sporco sionista». La deputata laburista Margaret Hodge si è ribellata e ha accusato il leader del suo partito di essere un «fottuto antisemita». Dopo di lei 67 esponenti del Labour hanno acquistato una pagina sul Guardian per rilanciarne le denunce. In maggio la Commissione per l’eguaglianza e i diritti umani ha aperto un’inchiesta sul Labour Party per «aver illecitamente discriminato, importunato e perseguitato persone appartenenti alla comunità ebraica». Appresa questa notizia, il celebre autore britannico di spy story John le Carré (nome d’arte di David John Moore Cornwell) ha annunciato che non voterà più per i laburisti: una sorpresa dal momento che le Carré è un convinto anti-Brexit, anti-Trump e un protagonista del suo ultimo libro, «La spia corre sul campo», definisce Boris Johnson un «maiale ignorante». In molti si sono uniti a le Carré tra i quali un altro grande scrittore, Frederick Forsyth, nonché l’attrice Joanna Lumley. Alan Sugar, tradizionale finanziatore del partito della sinistra britannica, ha annunciato che non darà più un soldo.

In luglio un documentario della Bbc ha reso pubbliche otto testimonianze che dall’interno del Labour denunciavano in modo circostanziato alcuni casi di cui si è detto. Corbyn ha replicato sostenendo che gli episodi accertati vedevano coinvolti lo 0,06 degli iscritti, che lui stesso aveva ordinato l’inchiesta interna per esaminare trecento denunce in merito a episodi di ostilità nei confronti degli ebrei, provvedendo all’espulsione dei colpevoli (la metà degli indagati). L’indagine era stata condotta dall’avvocatessa Shami Chakrabarti secondo la quale il partito soffriva soltanto di una «occasionale atmosfera tossica». Gideon Levy un celebre giornalista della sinistra israeliana ha poi difeso su Haaretz il leader laburista. Ma Corbyn è rimasto sotto tiro.

L’Anti-Defamation League, in una rilevazione quinquennale sull’antisemitismo compiuta in diciotto Paesi, ha denunciato l’aumento vertiginoso del fenomeno in Europa orientale – con punte record in Russia, Polonia e Ucraina – e la consistente diminuzione in Italia (–11 punti) ma anche, sia pure meno vistosa, nel Regno Unito in cui hanno fin qui dominato i conservatori (–1 punto). Stupisce che la sinistra politica e culturale del nostro Paese (con alcune – purtroppo poche – lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell’arcivescovo di Canterbury.

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Antisemitismo, quel pregiudizio firmato Corbyn

Gad Lerner – Repubblica 20 Novembre 2019

La vicenda inglese pone una questione spinosa anche alla sinistra: è mai possibile che per sintonizzarsi con il sentimento di esclusione delle classi subalterne, sia inevitabile introiettare anche il pregiudizio antisemita e antisionista?

Mentre la destra italiana, dopo il caso Segre, rifiuta categoricamente di ammettere la presenza nelle sue file di posizioni antisemite – e a riprova esibisce il suo sostegno incondizionato al governo d’Israele, ammirato baluardo occidentale contro la “minaccia islamica” – il Regno Unito sembra vivere una situazione rovesciata: è il partito laburista di Corbyn a subire, non senza buone ragioni, l’infamante accusa di antisemitismo.

Come vedremo, l’apparenza inganna. Le argomentazioni della rinascente ostilità antiebraica mantengono significativi tratti comuni, di per sé non etichettabili come di destra o di sinistra, e proprio per questo sono ancor più insidiose. Semmai va rilevato che, a differenza della destra italiana, il Labour rifugge un atteggiamento di mero negazionismo: “Prendiamo molto seriamente le accuse di antisemitismo, siamo impegnati a sradicarlo nel partito e nella società”, ha dichiarato il portavoce di Corbyn replicando alla lettera pubblicata sul Guardian da John le Carré e altri intellettuali che definiscono il Labour invotabile alle elezioni del prossimo 12 dicembre dagli ebrei, angosciati dalla “prospettiva di un primo ministro associato con l’antisemitismo”.



Dopo l’istituzione di una Commissione d’indagine all’interno del partito, ancora di recente due candidati sono stati esclusi dalle liste laburiste. Kate Ramsden, ad esempio, che aveva dichiarato: “Israele mi ricorda il caso di quei bambini vittime di abusi che divenuti adulti si mettono a replicarli”. L’adesione alla causa nazionale palestinese e la simpatia manifestata ai movimenti arabi di matrice islamica, anche quando essi mettono in atto pratiche terroristiche, contraddistinguono effettivamente la componente della sinistra inglese a cui lo stesso Corbyn da sempre è legato. Questa è l’unica vera differenza rispetto alle posizioni della destra che, nel mentre le addita, occulta i veleni di cui è intrisa la sua propaganda. Fino a sostenere che oggi l’unico vero antisemitismo pericoloso sarebbe l’antisionismo fomentato dagli integralisti islamici che vogliono distruggere Israele e per estensione colpiscono gli ebrei anche in Europa.

Purtroppo c’è dell’altro in sottofondo, nel Regno Unito così come in Italia e negli altri Paesi del vecchio continente: la riproposizione dello stereotipo dell’ebreo come appartenente alla superclasse cosmopolita detentrice del potere finanziario che si arricchisce depredando i ceti popolari. Una favola che accompagna la storia del capitalismo e che fa presa tra gli sprovveduti, fin da quando, invano, prima August Bebel e poi Lenin definirono l’antisemitismo come “il socialismo degli imbecilli”. E che ha ripreso vigore negli ultimi decenni di retrocessione dei redditi e delle tutele del lavoro dipendente. L’Europa ha cancellato, tramite lo sterminio di milioni di persone, la presenza secolare del suo proletariato ebraico. E ora vede la residua, esigua, superstite presenza di ebrei sovrarappresentata nelle cosiddette élite, cioè nelle professioni liberali, nell’industria culturale e nella finanza.

The Jewish Chronicle, il più antico settimanale ebraico in lingua inglese, ha storpiato lo slogan laburista For the many, not for the few (Per i molti, non per i pochi) in For the many, not for the jews (per i molti, non per gli ebrei). In quella assonanza tra few e jews, cioè fra “pochi” ed “ebrei”, è racchiuso il messaggio subliminale che va per la maggiore: chi sta con il popolo, ma anche chi si professa anticapitalista, non può che vedere l’ebreo come appartenente alla classe predatrice. È un argomento che serpeggia tra una parte dei militanti del Labour, infastiditi dalle accuse di antisemitismo: “Ma cosa avete da lamentarvi, proprio voi, non siete vittime, siete ricchi”.

Tale insidiosa argomentazione dovrebbe suonare familiare a noi italiani. Anche se proviene dalla sponda opposta. Avete presente? L’usuraio Soros e i De Benedetti che finanziano e propagano il “verbo immigrazionista” al solo scopo di lucrare sul “genocidio del popolo italiano”. E poi i comunisti col Rolex che lanciano falsi allarmi sul ritorno del fascismo, accomodati nelle lussuose dimore di Capalbio dove non ospiterebbero mai i profughi di cui si riempiono la bocca. Non occorre ricordare a chi appartiene questo vocabolario.

Si badi bene. Anche il fastidio suscitato dalla nomina a senatrice a vita di Liliana Segre trae alimento dal modo in cui l’ex deportata ebrea ha scelto di interpretare la sua funzione. Invece di limitarsi a testimoniare le sofferenze patite settantacinque anni fa – per le quali a parole tutti esprimono rispetto – Liliana Segre si è permessa di trarne insegnamenti per il presente: “Anch’io sono stata clandestina, so cosa vuol dire”. “Anch’io fui respinta a una frontiera, altrimenti non sarei stata deportata con mio padre”. “Mi hanno insegnato che chi salva una vita salva il mondo intero, non certo che soccorrere dei naufraghi sia reato”. Così l’ebrea torna fastidiosa, ingombrante, faziosa. Cosa vuole ancora, col lauto stipendio che incassa a spese nostre? È desolante leggere con quale compiacimento i giornali della destra sostengono che le ingiurie minacciose contro Liliana Segre fossero solo una montatura. E che, anzi, gli “ebrei perbene” condividono la loro tesi secondo cui l’unico pericolo verrebbe dagli islamici.

La destra italiana, per quanto filoisraeliana si autoproclami, abbina gli eterni cliché sui perfidi dominatori del pianeta all’indulgenza con cui minimizza le colpe del fascismo e ne ospita i nostalgici nei suoi ranghi. Ma la vicenda inglese pone una questione spinosa anche alla sinistra: è mai possibile che per tornare a sintonizzarsi con il sentimento di esclusione e con le rivendicazioni anticapitaliste delle classi subalterne, come ha cercato di fare Corbyn, sia inevitabile introiettare anche il pregiudizio antisemita e antisionista?

Gad Lerner

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ISRAELE: SCACCO AL RE

L’incriminazione di Benjamin Nethanyahu irrompe sulla scena politica israeliana già in piena paralisi istituzionale. ‘Re Bibi’ rilancia e accusa la magistratura di “golpe”. Ma nel Likud già parte la fronda. Dovrà dimettersi? Gli alleati lo molleranno? Per ora nulla è certo, se non che il voto, il terzo in un anno, appare sempre più vicino.

ISPI 22 novembre 2019

La notizia era nell’aria. Eppure l’incriminazione di Benjamin Netanyahu per frode, corruzione e annunciata dal procuratore generale Avichai Mandelblit si è abbattuta sulla scena politica israeliana con la potenza di un uragano. La reazione di Netanyahu non si è fatta attendere: in conferenza stampa , ‘King Bibi’ – così soprannominato per la sua longevità politica – ha denunciato un “colpo di stato” basato su “accuse politicamente motivate” in un “momento politico delicato per il paese”. Una scelta di parole tutt’altro che casuale: il paese si trova senza un governo e in uno stallo politico che si trascina da mesi. L’incriminazione arriva subito dopo la remissione del mandato esplorativo da parte di Benny Gantz, ma prima dello scadere dei 21 giorni per lo scioglimento della Knesset, il parlamento israeliano. Con Ganz dimissionario e Netanyahu alla sbarra, si ha la quasi certezza di dover tornare alle urne per la terza volta in un anno.

Per la prima volta dalla creazione dello Stato di Israele, i leader dei due partiti maggioritari, il Likud e la coalizione Blu e bianco, non sono stati in grado di formare un governo di coalizione. Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro uscente e Benny Ganz, hanno rimesso uno dopo l’altro a distanza di un mese il mandato esplorativo nelle mani del presidente Reuven Rivlin, ammettendo di non aver saputo dar vita a un governo di unità nazionale. Nessuno dei due è infatti riuscito ad ottenere il sostegno di Yisrael Beitenu, partito laico e ultranazionalista guidato da Avigdor Lieberman che con i suoi 8 seggi è diventato l’ago della bilancia parlamentare. Secondo la giurisprudenza, ora i deputati della Knesset hanno tempo fino all’11 dicembre per designare un qualsiasi deputato in grado di formare il governo. Se anche in questo caso tutto finisse con un buco nell’acqua, si tornerà al voto entro 90 giorni, al più tardi nel marzo 2020.

A complicare ulteriormente la situazione, nel tardo pomeriggio del 21 novembre, il procuratore generale Avichai Mandelblit ha rinviato a giudizio Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Anche questo è un caso inedito: nessun primo ministro israeliano in carica, prima d’ora, aveva mai dovuto difendersi in tribunale. Le accuse rivolte al premier uscente sono tre. Il “Caso 1000” che vede Netanyahu accusato di aver accettato champagne, sigari e altri regali da facoltosi imprenditori (Arnon Milchan e James Packer) in cambio di favori. Il “Caso 2000” relativo all’intesa con Arnon Mozes, editore del quotidiano Yediot Ahronot, per una copertura giornalistica benevola, in cambio di una riduzione delle tirature di Yisrael Hayom, un giornale rivale. E il “Caso 4000”: il più delicato, sull’operato di Netanyahu come ministro delle Telecomunicazioni, e le presunte agevolazioni a Shaul Elovitch, tycoon dei media e del colosso di Internet, Bezeq. Per ottenere coperture favorevoli da parte del sito web Walla News, di proprietà della società di Elovitch – sostiene l’accusa – Netanyahu avrebbe disposto leggi e norme a beneficio economico del magnate. Ma econdo la legge israeliana, un primo ministro è tenuto a dimettersi solo se viene condannato in via definitiva. Quindi Netanyahu potrà rimanere in carica durante tutto il procedimento legale, ricorsi inclusi.

È un’immagine quasi “trumpiana” quella che vien fuori dagli atti dell’indagine, e di un premier che manipola, corrompe e piega le persone e l’interesse nazionale, per il suo tornaconto. Inoltre reazioni dei due leader “sono così simili – osserva Ishaan Tharoor sul Washington Post – che si è tentati di supporre che Trump e Netanyahu si stiano consigliando a vicenda o stiano prendendo spunti da uno stesso spin-off de “le regole del delitto perfetto”. In teoria, la differenza tra i due paesi sta nel fatto che gli Stati Uniti sono nel pieno della campagna elettorale. Ma in Israele sono in pochi a dubitare che il conto alla rovescia per un nuovo appuntamento con le urne non sia già cominciato. E che la campagna elettorale che sta per aprirsi non sarà la più velenosa e vendicativa nella storia del paese. Al punto che nel Likud già volano gli stracci: Gideon Saar, il principale avversario di Netanyahu nel partito, ha annunciato che chiederà le primarie. Sulla sua strada, Saar troverà un primo ministro ferito ma non “abbattuto” dall’incriminazione e pronto a parare i colpi in arrivo. Tra questi, anche quelli dei partiti della destra nazionalista e religiosa che da dieci anni compongono la sua coalizione, sempre più tentati di sganciarsi da un leader alla sbarra per corruzione. Nelle ultime 48 ore è accaduto di tutto. E di tutto può ancora accadere. Di sicuro, come sottolinea oggi Haaretz, “Netanyahu non se ne andrà senza prima aver dato battaglia”.

Il commento di Ugo Tramballi, senior Advisor ISPI

“L’incriminazione di Netanyahu e la paralisi politica in Israele, sono due facce della stessa medaglia. Era l’elefante nella stanza di cui fino a ieri nessuno parlava. In questi mesi, l’incertezza sulla sorte dell’attuale primo ministro è diventata l’incertezza di tutti”. “La reazione del premier mette in crisi la democrazia Israeliana. Come il suo alleato americano Donald Trump, più che a governare il paese, il premier è impegnato a garantire la sua sopravvivenza politica”.

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ISPI Daily Focus 19 Novembre 2019

Con una storica e radicale inversione di rotta, gli Stati Uniti legittimano gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Il Segretario di Stato Mike Pompeo sancisce la fine del sostegno americano alla soluzione dei due stati. Ma il “Piano del secolo” per la pace in Medio Oriente ancora non si vede…

La decisione rimette in discussione 40 anni di politica estera americana, ma Mike Pompeo l’annuncia quasi en passant. Da oggi gli Stati uniti non ritengono più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, ha detto il capo della diplomazia americana, aggiungendo che “non ci sarà mai una soluzione giudiziaria al conflitto” e che i dibattiti su “chi ha ragione e chi ha torto, ai sensi del diritto internazionale, non favoriranno la pace”. Apriti cielo. Considerati illegali dall’Onu, dalla Corte Internazionale di Giustizia e dalla Quarta convenzione di Ginevra, gli insediamenti sono uno dei temi più ‘caldi’ del conflitto in Medio Oriente e uno dei principali ostacoli alla pace tra Israeliani e Palestinesi. Se in Israele la svolta americana è stata elogiata come “il ristabilimento di una verità storica” e “il riconoscimento di una realtà di fatto”, la reazione palestinese è quasi di sgomento: “Inaccettabile” è il commento della presidenza palestinese, per cui “Gli Stati Uniti non hanno nessun titolo per legittimare insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale”. 

Gli insediamenti sono comunità abitate da civili israeliani e costruite nei territori conquistati da Israele dopo la guerra del giugno 1967, detta “Guerra dei sei giorni”. Nel 1979, dopo aver firmato l’accordo di pace con l’Egitto, Israele si ritirò dalle colonie in Sinai. Nel 2005 l’allora premier israeliano Ariel Sharon ordinò di smantellare quelle presenti nella Striscia di Gaza. Oggi, negli insediamenti israeliani a Gerusalemme Est e in Cisgiordania vivono circa 600.000 persone. Sono considerati illegali da tutti i maggiori organismi internazionali e contravvengono alla Quarta Convenzione di Ginevra. Nonostante le condanne internazionali, Israele ne rivendica la legittimità, negando che sia in atto un’occupazione e definendo i territori “contesi”. I Palestinesi ne chiedono a gran voce lo smantellamento poiché, argomentano mappe alla mano, le colonie creano discontinuità territoriale rendendo impossibile la creazione di due stati, uno palestinese l’altro israeliano. 

La posizione degli Stati Uniti sull’argomento si era finora allineata alla comunità internazionale, nella direzione indicata nel 1978 dall’allora presidente Jimmy Carter. Nel 1981 il primo a scalfire questa visione fu Ronald Regan, dicendo di non ritenere le colonie “del tutto illegali”. Da allora, gli Usa hanno adottato un registro intermedio, definendole “illegittime” ma non “illegali” e soprattutto, opponendo il veto alle risoluzioni di condanna in sede Onu. Nel suo discorso, Pompeo va oltre: non solo definisce gli insediamenti “non in contrasto con il diritto internazionale”, ma suggerisce che la questione della legittimità debba essere affrontata dai giudici israeliani, tagliando fuori la comunità internazionale. La stessa linea usata per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico nel dicembre 2017.

Il riconoscimento, di fatto, delle colonie israeliane, offre un assist politico a Benjamin Netanyahu. Proprio l’ex premier, lo scorso settembre in piena campagna elettorale, aveva avanzato l’ipotesi di annettere le colonie allo Stato di Israele, nel tentativo di conquistare i voti della destra nazionalista. Oggi l’annuncio giunge mentre la politica israeliana è in fermento: dallo spoglio non è emerso un vincitore netto e il primo ministro incaricato, Benny Gantz, ha le ore contate per cercare di formare un esecutivo. In caso di fallimento, si ritornerà alle urne per la terza volta in un anno.

Ma la tempistica dell’ennesima apertura di Trump verso Netanyahu non si spiega solo con le turbolenze interne alla politica israeliana . Anche per il presidente americano, tra le audizioni alla Camera per l’impeachment e la vittoria dei Democratici in Louisiana, quella che si è aperta ieri è una brutta settimana. La svolta repentina sulle colonie, suggerisce Ha’aretz, strizza l’occhio alla base conservatrice dei Repubblicani e agli elettori evangelici, parte fondamentale del “sionismo cristiano”.
 
Inoltre, nelle prossime settimane, il presidente dovrebbe presentare il suo piano di pace per il Medio Oriente, di cui l’amministrazione parla da mesi con riferimento agli investimenti economici, ma finora rinviato per ben due volte. “L’accordo del secolo” ha promesso Trump, “consentirà di superare i dibattiti sterili che finora non hanno portato la pace in Medio Oriente”. Vedremo se il riconoscimento di Gerusalemme e delle colonie sortirà risultati migliori

“Questo endorsement appare decisamente fuori tempo rispetto alle dinamiche della politica israeliana, oggi alle prese con un difficile stallo post-elettorale. Ma risponde invece bene alle esigenze interne all’amministrazione Usa, che deve distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle audizioni in corso per l’Impeachment e raccogliere consensi tra l’elettorato conservatore”.
 
“Le dichiarazioni di Pompeo chiariscono comunque quale è la scelta di campo fatta da Washington riguardo alla soluzione dei due Stati. Proseguendo su questa linea Trump demolisce ogni clima di fiducia con i Palestinesi e mette una pesante ipoteca — forse pietra tombale — sulla sua ambizione, più volte sbandierata, di risolvere la questione mediorientale”.
Gianluca Pastori, docente Università Cattolica, Ispi
 
 
“È preoccupante che la superpotenza che – a torto o a ragione – in passato si è sempre dichiarata paladina del diritto internazionale abbia in poco tempo preso due decisioni in aperta violazione di quest’ultimo, prima sul Golan e ora sulle colonie. Sia l’occupazione delle alture del Golan sia la colonie in Cisgiordania sono infatti in aperta e universalmente riconosciuta violazione del diritto internazionale. Inoltre, negli anni passati, gli Stati Uniti facevano molte pressioni su Israele per evitare l’espansione delle colonie. Con Trump ogni stretta sull’argomento si è interrotta”.
 
“I dettagli del piano di pace dell’amministrazione Trump per il Medio Oriente stanno emergendo alla spicciolata, anche se rimane poco chiaro quando verrà ufficialmente presentato. Prima il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan e di Gerusalemme Est. Ora quello delle colonie. E poi, le promesse di ingenti investimenti nei Territori e nei paesi della regione che ospitano più profughi come Libano, Giordania ed Egitto. La percezione è che con quest’ultimo atto Trump stia cercando di rilanciare il suo piano per il conflitto Israelo-palestinese che molti credevano ormai cestinato. Facile pensare che giochi un ruolo anche l’intenzione di usare questi atti roboanti per distrarre dalle gravi difficoltà interne dell’Amministrazione ”.
Eugenio Dacrema, ricercatore Ispi Medio Oriente e Nord Africa
 

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