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“Guai a voi se mi leggete sul tablet”

Il libro dei numeri di Joshua Cohen (Codice, trad. di Claudia Durastanti, pagg. 745, euro 25)

Joshua Cohen, un giovane autore che continua e ringiovanisce la migliore tradizione della letteratura ebraico americana, sulle tracce di Saul Bellow, Bernard Malamud, Philip Roth ed i più recenti Jonathan Safran Foer e Nathan Englander.

Nato ad Atlantic City nel 1980, ha pubblicato romanzi (Book of Numbers), ma anche storie brevi (Four New Messages) e saggistica per il “New York Times”, “Harper’s Magazine”, il “London Review of Books”, “n+1” e altri. Nel 2017 è stato nominato da Granta uno dei migliori romanzieri americani. Vive a New York.

Memoir, thriller, allegoria biblica, dramma, commedia: Il libro dei numeri si candida a diventare uno dei testi sacri dei nostri tempi, un’epica dell’era della rete, uno di quei rari libri capaci di spingere un po’ più in là i confini del romanzo.

Quando Joshua Cohen, scrittore newyorchese fallito, viene contattato da Joshua Cohen, il misterioso fondatore della più importante azienda tecnologica del mondo, affinché gli faccia da ghostwriter per la sua autobiografia, non sa che l’impresa in cui sta per imbarcarsi lo renderà una pedina in un gioco molto più grande di quanto immagini.
Dagli albori di internet all’11/09, passando per la Shoah, il Vietnam e l’avvento dei social network, il racconto dei due Joshua si intreccia in un alternarsi di geniali invenzioni e cocenti sconfitte, amicizie incrollabili e amori infelici, per diventare uno specchio duplice della vita ai tempi della rivoluzione digitale. In fondo, nel mondo post-Facebook, chi non può vantare almeno un avatar, un alter ego, un altro io?

Raffaella De Santis ha intervistato a settembre per Repubblica l’autore

L’americano Joshua Cohen è l’autore più originale ospite al Festival di Mantova con il suo romanzo di 700 pagine

MANTOVA – Se ci fosse un premio del Festivaletteratura per il romanzo più folle, lo vincerebbe Il libro dei numeri di Joshua Cohen, 39 anni compiuti ieri a Mantova. Il tomo – nella versione italiana oltre 700 pagine – attacca così: “Se state leggendo questa storia su uno schermo, andate a fanculo. Parlerò solo se sfogliato come si deve”. È subito chiaro quale sia il carattere dell’autore, che abbiamo avvicinato incuriositi dal seguito che avevano avuto i suoi incontri festivalieri. Cohen, nato nel 1980 in una famiglia ebraica di Atlantic City ne ha avute per tutti, a cominciare da Bruce Springsteen. Il suo libro, definito dal New York Times l'”Ulisse dell’era digitale”, narra la storia di uno scrittore fallito assoldato come ghostwriter dal capo della più importante azienda tecnologica del mondo. La particolarità è che tutti si chiamano Joshua Cohen: l’autore, il protagonista del libro e il guru hi-tech. Un gioco di specchi per dire attraverso mille rivoli che dentro la Rete ogni identità perde i confini. Il Cohen vero paradossalmente detesta i social network, non twitta, non posta, non instagramma foto. Per scrivere ha consultato più di 180 testi sulla storia di Internet, tra cui le biografie di Bill Gates, Steve Jobs, Alan Turing. È appena stato nominato da Granta uno dei migliori romanzieri americani.

Dove ha trovato il coraggio di scrivere un libro selvaggio come questo? Dentro ci si perde, ci sono mail, pezzi di interviste, blog…
“Ho sempre fatto l’opposto di quello che fanno gli altri. Incondizionatamente anche da bambino tendevo a differenziarmi. Se tutti volevano un gioco, io ne desideravo un altro. Deve trattarsi di un’attitudine psicologica, o qualcosa del genere. C’è qualcosa in me che mi spinge in altre direzioni”. 

Crede che il suo romanzo verrà letto fino alla fine? 
“Non saprei, sono partito dal domandarmi quale sia oggi la nozione di storia. Chi la scrive, che cosa è diventata? Ho voluto raccontare la nostra era tecnologica, prendendo le mosse dagli anni ’60 e arrivando ai social network e alle agenzie che controllano i nostri dati. Il modo migliore per farlo era affidarsi alla forma romanzesca. In fondo la tecnologia è il nostro nuovo subconscio, permette di trasformare la realtà in fiction e la fiction in realtà”. 

L’hanno paragonata a David Foster Wallace, le ha fatto piacere?
“Succede sempre. Quando non riescono a dire qualcosa di originale tirano in ballo uno scrittore morto. Ammiro Wallace, ma fare questi paralleli mi sembra assurdo, denota una certa pigrizia. E poi lui aveva un senso dell’ironia tutto suo e una schiettezza molto diversa dalla mia. Era un uomo del Midwest, un’altra cultura”.

Lei è nato ad Atlantic City, la città protagonista di una delle più belle canzoni di Bruce Springsteen. 
“(Ride) Ci ho vissuto diciassette anni, ho frequentato lì scuole ebraiche, poi sono andato a New York… È una bella città, sull’Oceano Atlantico. Adoro Springsteen, potrei parlare per ore della sua musica, ma su Atlantic City si sbagliava”. 

A questo punto si ferma e si mette a recitare il refrain di Atlantic City: “Everything dies baby that’s a fact… But maybe everything that dies somedays come back…”

Che cosa c’è che non va?
“Springsteen non ha colto quel senso di grandezza che hanno gli abitanti di Atlantic City. In passato era una delle città più esclusive per le villeggiature al mare, c’erano hotel magnifici. Non era particolarmente ricca, ma era signorile. Quell’idea di decoro è rimasta nella percezione dei suoi abitanti. Springsteen canta sempre le persone comuni, lo ha fatto anche in questo caso, ma ad Atlantic City tutti si sentono speciali, sognano in grande”. 

Anche lei?
“Certo, come chiunque”.

Quale era il suo sogno giovanile?
“Come ogni provinciale andare a New York”. 

Come è la sua vita newyorchese? 
“Piuttosto normale. Scrivo ogni giorno, cambio le lampadine che si fulminano, metto a posto i calzini, lavo i piatti. Una volta alla settimana insegno alla Columbia University”.

Nel romanzo fa dire al protagonista Joshua Cohen che ama vivere nelle grandi città e odia la campagna, il verde, gli ambientalisti. È così anche per lei?
“Ora l’ambientalismo va di moda e mi chiedo perché non me ne importi proprio niente. Ma è così, non riesco a proiettarmi oltre la mia morte, oltre la scomparsa delle persone che amo”. 

Che cosa pensa di Jonathan Safran Foer ambientalista, allora?
“Un bravo ragazzo”. 

Il successo del “Racconto dell’Ancella” di Margaret Atwood testimonia però di un forte interesse per questi temi.
“Ma credo che l’attrazione delle persone per la serie televisiva abbia altre ragioni. La gente torna dal lavoro esausta, si mette sul divano, accende la tv e si lascia affascinare dalla violenza, dalle scene di stupri e torture. Fa parte delle natura umana: condanniamo le cose da cui siamo segretamente attratti. Il nostro inconscio è molto strano”.

Con 700 pagine voleva scrivere il Grande Romanzo Americano?
“Mi domando quale sia la vera storia americana: il racconto della schiavitù o quello dell’accoglienza degli immigrati? Io so che l’unica ragione per cui i miei genitori riuscirono ad approdare negli Stati Uniti dalla Germania e dalla Polonia è che avevano abbastanza soldi per farlo”. 

È stato difficile riuscire a pubblicare il suo primo libro “The Quorum”?
“Ricordo solo che mi pagarono 50 dollari e una birra”. 


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L’abisso a pochi passi

Stefano Jesurum – Setirot 7 novembre 2019

Checché ne pensi qualcuno, raramente Setirot si occupa di politica in senso stretto e/o “partitico” (sfido chi dissentisse a portare prove con testi e date). Ma dopo il fiume di parole (?) seguite alla proposta – approvata a maggioranza – di una commissione su razzismo, antisemitismo eccetera firmata da Liliana Segre non mi riesce davvero di tacere. Intanto mi domando come si sia ridotta una parte della società ebraica italiana – sempre più arduo definirci comunità dopo gli scambi sui social di questi giorni. A quale infimo livello siamo arrivati. A quanto i dettami della nostra tradizione e della nostra cultura (vissuta religiosamente, laicamente o perfino da atei poco importa) siano stati bellamente buttati a mare e sostituiti da irrazionali e sostanzialmente pagane “passioni” di incubotica paura e demonizzazione dell’Altro. A come la memoria abbia scotomizzato i fascisti che vennero ad arrestare i nostri nonni e i nostri genitori, i medesimi fascisti di cui oggi fanno l’apologia non pochi di coloro che ispirano e diffondono i vergognosi attacchi alla “senatrice ebrea”. E ancora: mi chiedo quando i nostri vertici istituzionali e morali diranno un secco, chiaro, definitivo «basta!» a chi fomenta il clima di ormai vero e proprio odio intra-ebraico. Certo, qualche voce tra i nostri Maestri si leva, ma che cosa dobbiamo ancora sopportare dopo lo sterco gettato a piene mani su Liliana e sui suoi figli? Qualcuno si rende conto che l’abisso è a pochi passi? Vogliamo veramente innalzare tra noi un muro non più scavalcabile?
A proposito, ricordo ciò che disse Pier Luigi Bersani, certamente non un pericoloso e violento sovversivo, alla trasmissione Otto e mezzo commentando le frasi mostruose, agghiaccianti gridate dagli attivisti legofascisti radunatisi per “accogliere” Carola Rackete, comandante della SeaWatch3. Affermò che era preoccupato perché il clima era tale per cui se lui fosse stato presente sarebbe “scappato il cazzotto”. Ecco, inviterei a fermarsi prima delle sberle.

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La sfida dei due Benjamin

Sintesi degli interventi all’Evento del 28 ottobre 2019

Poteva sembrare strano che il confronto sulla situazione politica in Israele, che lunedì 28 ottobre si è tenuto a Milano, fosse dedicato alla memoria di Andrea, un giovane di Hashomer Hatzair scomparso troppo presto. Ci ha pensato David Sonnewald , il moderatore  della serata organizzata in collaborazione con Sinistra per Israele, a spiegare il legame tra la politica e la figura di Andrea, definito dagli amici un “sionista di altri tempi” per la sua disposizione naturale verso Israele, dove si era trasferito per continuare gli studi universitari, ma anche per  l’ambizione di volerlo migliorare. Fin da piccolo Andrea aveva sviluppato un’inclinazione ed una determinazione per le tematiche politiche e sociali, come bene si è capito dal tema che a soli 10 anni aveva scritto per raccontare cosa avrebbe voluto fare da grande e che è stato letto all’inizio della serata.

Nella sala piena di giovani e meno giovani (almeno 160 persone) al concetto di “sionista di altri tempi “si è poi riallacciata Silvia Brasca nel suo intervento, facendo notare come Andrea non si sarebbe riconosciuto nell’ Israele di oggi, uscito dalla seconda tornata elettorale molto lontana dal sionismo storico. Ricordando ciò che aveva scritto Zeev Jabotinsky nel 1923 nel famoso saggio sul Muro di Ferro, riguardo alla sua “cortese indifferenza verso gli arabi”, Silvia ha commentato come la questione palestinese sia scomparsa dalla agenda politica di tutti i partiti. Il sionismo sembra un sogno di altri tempi, pensando anche alla legge, votata nell’estate 2018, che definisce Israele come Nazione Ebraica, in netto contrasto con quanto sanciva la Dichiarazione d’Indipendenza del 1948.

Molto interessante la lettura fatta da Lia Quartapelle nel suo intervento sulla situazione politica israeliana, che per certi versi appare non diversa da quella italiana per la necessità di coalizioni, compromessi e per elementi di corruzione. Due gli aspetti che secondo Lia colpiscono, il primo legato alla (probabile) fine politica di Netanyahu, che era l’erede ed il miglior allievo del più malvagio degli spin doctor, quel Arthur Finkelstein che aveva fatto di un principio della politica una dote terribile delle campagne elettorali: trova il tuo nemico, è quello il cuore della tua linea politica. Lo stesso principio utilizzato tra l’altro da Orban e da Salvini.

Il secondo aspetto è, secondo Lia, a sorpresa il ruolo di Avigdor Libermann, che si è eretto a difensore di un principio liberale di laicità e pluralità per quanto riguarda i vincoli dello Shabbat, che non vanno imposti a tutti, e per quanto riguarda la leva obbligatoria per tutti, senza esclusione degli ultraortodossi. Da questa posizione di doveri e libertà per tutti emerge la preoccupazione per la divisione e la contrapposizione tra religiosi e non religiosi.

Da questi due aspetti si conferma che Israele stupisce e lascia un segno di speranza, visto che da Israele arrivano sempre tendenze che precorrono ciò che può accadere nella nostra società.

Nel definire l’ebreo di Sinistra una razza in via di estinzione Gad Lerner ha fatto notare che in Israele,  la Sinistra è stata quasi cancellata. Nel 1977 c’era stato un rivolgimento epocale con il rovesciamento dell’establishment askenazita laburista per effetto del voto decisivo degli ebrei orientali che si sentivano sottoproletariato. Da allora il Likud ha quasi sempre prevalso ed ancora oggi la Sinistra si è autoesclusa dal dibattito sulla questione palestinese e sulla possibilità di una pace basata sul principio dei due Stati, temi impopolari dal punto di vista elettorale, rifugiandosi nella questione sociale. Secondo Gad Lerner,  Gantz non sarà in grado di formare un governo e la situazione appare bloccata. La visione politica di Netanyahu non è stata ribaltata con il secondo voto e Gad ha ricordato che ai suoi esordi politici Netanyahu aveva scritto un libro che riecheggiava la tesi del Muro di Ferro ponendo Israele al centro di un’area geopolitica con una politica di pace e stabilità basata sulla deterrenza contrapposta ad una politica di concessioni territoriali ed accordi che, secondo lui, avrebbero incentivato i vicini a minacciare lo stato. Sottomettere con la forza è tuttora l’orizzonte politico delle principali forze politiche.

Nella mancata risoluzione del conflitto tra laici e ortodossi va vista la novità più rilevante e la resistenza laica appare come positiva salvaguardia della natura democratica dello Stato.

Un altro dato interessante second Gad Lerner è stato il ritorno al voto, con un ruolo di protagonisti, degli Arabi Israeliani con la Lista Unita guidata da un leader arabo moderato e intelligente. Divenuta la terza forza politica sarebbe pronta ad un appoggio esterno ad un governo senza Netanyahu ma chiaramente nessuno li vuole.

La strategia del futuro appare la conservazione dello status quo, con ricerca di alleanze, un tempo impensabili, con i Sunniti dell’Arabia Saudita contro gli Sciiti Iraniani, prendendo tempo, anche ritardando la formazione del governo.

Molto dettagliato sui 5 dossier d’accusa contro Netanyahu è stato l’intervento di Gabriele Eschenazi. Per la prima volta un Primo Ministro in carica è stato accusato di frode, abuso d’ufficio e corruzione. Oltre ai noti casi di regali di valore e spese pazze della sua famiglia, Gabriele ha spiegato l’ossessione del Premier verso i giornalisti ed i media in generale, con il suo continuo tentativo di condizionare in modo fazioso l’informazione, usata anche come moneta di scambio. Questo comportamento ha gettato discredito non solo sul suo destino politico ma anche sulla libertà di stampa.

In passato Israele era ricchissimo di giornali di ogni lingua, tendenza, opinione religiosa e laica. La crisi della stampa è stata acuita dal tentativo di Netanyahu di avere una stampa ed i media schierati in favore suo e della sua famiglia. Emblematico il caso del giornale gratuito Israel Hayom, di proprietà del miliardario americano Sheldon Adelson, puro esempio di propaganda politica su cui Netanyahu ha un controllo e può decidere di far pubblicare articoli contro i suoi avversari politici.

Edmondo de’Donato 8 novembre 2019

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Ben Yitzhak, che resuscitò l’ebraico: “Saremo contadini come tutti gli altri”

Stefano Jesurum – Gli Stati Generali 23 Ottobre 2019

Quando Anna Linda Callow mi regalò “Poesie” di Avraham Ben Yitzhak (nato Abraham Sonne, settembre 1883, Przemyśl, Polonia – maggio 1950, Israele) sapeva bene che i versi non sono esattamente nelle mie corde. Ma da sensibile conoscitrice dell’animo umano qual è, oltre che fine ebraista e ottima traduttrice, credo sapesse di fare centro. Non tanto perché le poche liriche che ci ha lasciato il canettiano dottor Sonne de “Il gioco degli occhi” sono piccole gemme, bensì soprattutto perché questo libriccino curato da Callow medesima e Cosimo Nicolini Coen, pubblicato da Portatori d’acqua, contiene il potente saggio di Lea Goldberg “Incontro con un poeta”. Lea Goldberg, poetessa a sua volta, scrittrice, per me e non soltanto, amata intellettuale, è, per intenderci, l’autrice di queste semplici parole che a mio avviso racchiudono l’essenza più intima delle identità plurime: «Forse solo gli uccelli migratori / sospesi tra terra e cielo conoscono / il dolore per due patrie».

Impossibile fare sintesi di quanto Lea provò, sentì, capì, e racconta di quell’uomo, raro, che visse una esistenza di semina e non di mietitura. Come per altro lui stesso comunica negli ultimi versi pubblicati: «Beati coloro che seminano e non mietono / perché vagheranno più lontano. / Beati i generosi la cui splendida giovinezza / aumentò la luce dei giorni e la loro prodigalità / e si spogliarono dei propri ornamenti – sui crocevia. / Beati i fieri la cui fierezza oltrepassò i confini della loro anima / e diventò come l’umiltà del biancore / dopo il levarsi dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole. / Beati quelli che sanno che il loro cuore griderà dal deserto / e sulle loro labbra fiorirà il silenzio. / Beati loro perché saranno raccolti nel cuore del mondo / coperti dal manto dell’oblio / e la parte loro riservata sarà il “tamid” senza parole». (Il tamid è il sacrificio quotidiano che veniva offerto nel Tempio di Gerusalemme).

Avraham Ben Yitzhak, uno di coloro che alla lingua ebraica ha letteralmente ridato la vita. Come scrivono i curatori: «L’ebraico in grado di assolvere al compito di “ascoltare le fondamenta del mondo” è una realizzazione del sionismo – una conquista politica – soltanto nella misura in cui tale ascolto non è condizionato, o non oltre una certa soglia, dai contenuti del sionismo stesso». Adesso torniamo all’Avraham di Lea, non certo ciò che si dice una personcina socievole. «Chiunque l’abbia conosciuto ne ricorda i lunghi silenzi, che a volte arrivavano all’improvviso, e a volte avevano il potere di zittire un’intera brigata di persone particolarmente esuberanti. Talvolta, se si trovava in compagnia di un individuo che non incontrava il suo favore, o se veniva espressa un’osservazione che non era di suo gusto, tutt’a un tratto sprofondava in quel silenzio duro e renitente (e come ho detto: “serrava il viso con il chiavistello”)». Poteva però essere affettuoso, umano, vicino, paziente con le persone semplici che gli erano care, in particolare con i bambini. Sì, la cifra umana del dottor Sonne è stata l’ostinato e tragico silenzio, il ripudio. Annota Goldberg che pronunciata da lui «la parola “loro” si caricava di un disprezzo profondo, sferzante. Senza fare nomi, senza rivelare a chi di fatto si riferisse, storceva un po’ la bocca, strizzava gli occhi da dietro gli occhiali e diceva: “Loro”, ovviamente questo non lo capiscono”. “Loro” era il simbolo della routine, dell’ottusità, il simbolo di quell’autocompiacimento, di quella soddisfazione spirituale e mancanza di impegno che detestava. Quel suo “loro” aveva una strana qualità: a volte avvicinava, altre allontanava. Vi erano casi in cui sentivi che ti stava parlando come a qualcuno in grado di capirlo, di seguire il suo ragionamento sino alla fine, di stare insieme a lui nel campo in cui “loro” erano estranei; e ve n’erano altri in cui finivi incluso nel “loro” e ti assaliva un senso di colpa e disperazione, mentre lui era lì, davanti a te, nella sua solitudine e inaccessibile indipendenza».

Sognatore, anche, Ben Yitzhak. Da poco arrivato in terra d’Israele, seduto con Lea si mise a chiacchierare del rapporto degli ebrei con la natura, del fatto che erano distaccati da quelle sensazioni di vicinanza alla terra provate da ogni popolo che lavori i propri campi da secoli. «Ma spero che la situazione cambi. Oggi ero nella Commissione agricola, e uscendo di lì ho visto un ragazzo e una ragazza che camminavano mano nella mano, proprio come una giovane coppia del Tirolo, o della Stiria, con gli stessi gesti, ed è stata una sorta di testimonianza di una vita ebraica differente, del fatto che saranno contadini come quelli di tutto il mondo».

Così ho finito di leggere “Poesie” e ho pensato una cosa sola, semplice: come si fa a non commuoversi e a non amare l’Avraham Ben Yitzhak di Lea Goldberg? E pensate che qui vi ho riportato un milionesimo delle emozioni provate…

Stefano Jesurum

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Inventarsi il passato. La Polonia, per esempio

David Bidussa Gli Stati Generali 21 Ottobre 2019

“Allora ricostruiamo quello che sappiamo per certo”. È l’invito che Anna Bikont rivolge, nell’ultimo capitolo del suo libro, al procuratore Radosław Ignatiew, dell’Istituto della memoria nazionale, incaricato dal governo polacco, all’indomani della pubblicazione di Neighbors, di Jan T. Gross il libro che nel 2000 ha rotto il silenzio sui massacri di ebrei in Polonia nell’estate 1941, in particolare nella zona orientale del paese.

Radosław Ignatiew: “Sin dalle prime ore del mattino [il10 luglio 1941, a Jedwabne, 170 km circa a NE di Varsavia, n.d.r.] gli ebrei furono trascinati fuori dalle loro case e portati nella piazza del mercato. Fu ordinato loro di strappare le erbacce che crescevano tra le pietre del selciato. Gli abitanti di Jedwabne e dei villaggi vicini erano armati di bastoni, spranghe e altro. Un gruppo numerosi di uomini fu costretto a demolire la statua di Lenin che si trovava in una piazzetta vicino al mercato. Verso mezzogiorno fu ordinato loro diportare un pezzo del monumento demolito prima nella piazza e poi in un fienile distante alcune centinaia di metri. Lo portarono usando due pali di legno. Tra loro c’era il rabbino. Vennero uccisi e i loro corpi gettati in una fossa scavata all’interno del fienile. Sui corpi furono gettati dei pezzi della statua di Lenin. La fossa probabilmente non fu ricoperta, perché nel corso dell’esumazione sono stati trovati segni di bruciature su alcuni pezzi della statua. Un secondo gruppo di ebrei, più numeroso, fu portato via dalla piazza più tardi. Tra loro c’erano donne, bambini e anziani. Furono condotti al fienile, che era di legno con il tetto di paglia. Sull’edificio venne versata della benzina, che probabilmente proveniva sa un ex magazzino sovietico di Jedwabne”

Anna Bikont: “Questo significa che prima di morire le persone del secondo gruppo videro i corpi massacrati dei propri padri, fratelli, figli?

Radosław Ignatiew: È possibile.

Anna Bikont: “Sei stato in grado di ricostruire gli ultimi passi degli ebrei di Jedwabne? Sapevano di andare incontro alla morte?

Radosław Ignatiew: “Tra i resti sono stati trovati oggetti di uso quotidiano, come una scatola con chiodi da calzolaio, ditali da sarto, cucchiai, monete d’oro e un numero sorprendente di chiavi: di cancelli, case, lucchetti, armadi. Come se le persone avessero la speranza, illusoria, di avviarsi per una strada dalla quale un giorno sarebbero tornate indietro”. [Bikont, pp.514-515]

È solo una parte dell’intervista che chiude il lungo libro di Anna Bikont, dove tutti i tasselli che lentamente la giornalista di “Gazeta Wiborcza” (il più importante quotidiano polacco fondato nel 1989 da Adam Michnik) ha raccolto intervistando (spesso con risposte offensive, porte sbattute in faccia, rifiuti, insulti) tutte le voci ancora in vita della scena di quel 10 luglio 1941, ma anche i loro figli, i loro nipoti, il parroco del paese, Edward Orłowski, il vero organizzatore del sentimento popolare.

Alla fine, il quadro è chiaro. Ma la grande maggioranza dei polacchi di Jedwabne, a cominciare dal parroco fino al sindaco, per non dire la maggioranza dei polacchi di tutta la Polonia crede a Jedwabne gli ebrei siano stati uccisi dai tedeschi; crede che la loro morte comunque sia stata una punizione per aver collaborato con gli occupanti sovietici tra settembre 1939 e giugno 1941, e crede che quel rimestare il passato, risponda a un solo obiettivo :far pagare i polacchi per responsabilità non loro, e ricattarli per avere soldi. In breve, l’ennesimo complotto giudaico per sottomettere e schiacciare la Polonia in una condizione di servitù al fine di per impedirle di diventare “nazione libera”.

Così tra il 2001 e il 2004 (gli anni in cui Anna Bikont costruisce e raduna il materiale e da corpo a questo suo libro).

Ma così anche oggi, in questo nostro oggi, ottobre 2019.

Intorno a ciò che accade in quella parte di Polonia che a partire dal 22 giugno 1941 viene occupata dall’esercito tedesco, mentre le forze dell’Armata Rossa di ritirano confusamente e precipitosamente è abbastanza chiaro: il tipo di occupazione tra fine settembre 1939 e giugno 1941 è stata avvisata dai polacchi come invasione, come tentativo di rovesciare e cambiare radicalmente la natura della identità polacca. Per la maggior parte dei polacchi l’arrivo dell’esercito della Germania nazista non era avvisato come una minaccia dello stesso tipo. Non c’era simpatia, ma per certi aspetti i nuovi venuti erano anche percepiti come liberatori.

Dentro a questa dinamica complicata, con cui ancora molti devono fare i conti, compreso noi che da questa parte dell’Europa, guardiamo quei fatti, si collocano vari episodi di pogrom   e poi di massacro nei confronti degli ebrei locali.

Per la precisione: un pogrom è essenzialmente un attacco alle case, un furto più o meno sistematico delle proprietà e raramente, o occasionalmente, l’uccisione di persone. In altre parole, il suo obiettivo principale non è uccidere (anche se non è escluso). Un massacro, invece, è un atto che ha come obiettivo la vita delle persone e si propone la loro uccisione.

Dunque, nei giorni compresi tra l’ultima settimana di giugno e le prime due settimane di luglio 1941, avvengono vari episodi di pogrom che si trasformano in massacri. L’episodio più noto di tutti (anche se, per divenire episodio noto sono stati necessari 60 anni e che Jan T.Gross, lo raccontasse) accade a Jewadbne, tra il 10 luglio 1941.

Il libro di Anna Bikont è una paziente inchiesta intorno a quei fatti, mosso dalle reazioni che in Polonia si scatena nell’estate 2000 all’uscita del libro di Gross in polacco.

Si potrebbe leggere quel libro come un documento storico collocato in un tempo preciso (e sarebbe già significativo).

Ma il fatto è, invece, che quel libro, consente di capire molti elementi del nostro oggi, 2019.

Ovvero per dirla esplicitamente: a un lettore di oggi, quel testo non appare un’inchiesta datata intorno a un episodio di storia di circa 80 anni fa, ma assomiglia di più alla traccia archeologica del nostro tempo.

In questo senso il libro di Anna Bikont va letto come un’immersione nella “la pancia” dell’opinione pubblica in Polonia. Più precisamente è contemporaneamente, l’archeologia, ma anche la genealogia e la descrizione dei sentimenti della Polonia di oggi (ottobre 2019)

La prima edizione del libro è del 2004, ma il fatto che arrivi oggi in Italia, nel 2019 (l’edizione americana è del 2015) non lo rende un libro superato.

In breve, Anna Bikont con 15 anni di anticipo, rispetto alla nostra consapevolezza, ma in tempo reale rispetto alle dinamiche che in Polonia prendevano corpo nel primo quinquennio di questo nostro secolo, descrive stati d’animo, emozioni, convinzioni, che oggi noi riconosciamo nelle forme del linguaggio sovranista, ma che hanno radici profonde, e non sono figlie della delusione delle politiche dell’Unione Europea, della crisi economica (anche se si servono di questi riferimenti nella loro propaganda quotidiana).

Quelle parole, quelle metafore, quel linguaggio, e quell’immaginario -in breve quel sentimento diffuso e quella convinzione radicata – sono figlie ed espressione di un apparato culturale, mentale, emozionale, prima ancora che ideologico, che ha una sua lunga storia nella tradizione culturale europea tra prima Età moderna e XX secolo.

Un codice che si nutre dell’antigiudaismo cattolico e dalla convinzione che la presenza ebraica in Europa sia un elemento di disturbo, comunque sia un corpo estraneo da sottomettere e rappresenti sempre la “quinta colonna” di un potere e di un nemico, il cui fine è sottomettere gli “indigeni” (la campagna contro Soros non è che l’ultima espressione di questo paradigma politico e culturale). Un nemico che ha in animo di sottomettere i buoni “venerdì” nazionali e che di solito è collocato immediatamente al di là del confine orientale.

Un nemico da cui occorre proteggersi erigendo muri e il cui fine è distruggere l’Europa cristiana.

Una convinzione fondata sul panico che vede nemici ovunque e la cui matrice originaria è una visione autoassolutoria della storia.

Anche questa una scena già vista molte volte nella storia d’Europa, non solo in Polonia.

David Bidussa

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Israele: da Netanyahu a Gantz, il governo che verrà

Claudi Vercelli – Joimag 23 Ottobre 2019

La situazione politica attuale e i suoi protagonisti in un’analisi dei prossimi equilibri nazionali

La politica israeliana sembra essere diventata un tavolo da ping pong. La pallina dell’incarico di governo va da una parte all’altra ma, a rigore di metafora, è possibile che presto venga fermata dalla rete divisoria. Dopo di che, se ciò dovesse succedere, e lo si saprà nel qual caso entro quattro settimane, i giocatori saranno rimandati alle urne. Con quali potenziali risultati è prevedibile il dirlo, poiché ciò che il Paese sta vivendo è uno stallo che è assai improbabile che gli elettori possano sciogliere. Il numero magico, cabalistico è 61, la quantità di deputati della Knesseth necessari per garantirsi la maggioranza parlamentare. Minima. È la soglia della speranza e del desiderio. Ma sembra un miraggio.

Benjamin Netanyahu, premier incaricato, ha resistito fino all’ultimo, cercando in qualche modo di trovare una soluzione plausibile, soprattutto a se stesso. Ma dinanzi al rifiuto dei suoi potenziali alleati, ha dovuto gettare la spugna. Ora tocca a Binyamin Gantz, leader di Kahol Lavan. Il quale dovrebbe però riuscire nel difficilissimo equilibrismo di garantirsi maggioranze mutevoli, tra la destra di Yisrael Beiteinu e la Join List dei quattro partiti arabi. In altre parole, un esecutivo di minoranza che raccolga, di volta in volta, i voti parlamentari che gli mancano, pescando tra gli schieramenti opposti. Questa è l’ipotesi prefigurata come unica chiave alternativa al governo di unità nazionale, oggi non più tra destra e sinistra (come negli anni Ottanta, quando Likud e Labur dovevano trovare dei terreni comuni di intesa) ma tra destra e centro-destra. Poiché Netanyahu e Gantz sono posizionati su quest’asse, posto che gli equilibri politici, anche in Israele, in questi ultimi vent’anni hanno trovato il loro bilanciamento sempre di più verso questa parte dello spettro politico. Dopo di che, qualora non intervenga un fattore del tutto inedito, senza quindi varare un esecutivo, i giochi si chiuderanno.

In questi ultimi giorni, un Netanyahu sempre più affannato ha accusato i suoi interlocutori di coltivare l’intento di tradire il mandato di una consistente parte degli elettori, prefigurando scenari a suo dire molto problematici per Israele: l’ipotesi di partiti arabi nella maggioranza di governo (non però con incarichi ministeriali) è presentata come una prospettiva poco o nulla gradevole, soprattutto per l’elettorato conservatore. La risposta di Yair Lapid, numero due del partito Blu e Bianco, non si è fatta attendere, avendo rimarcato che il premier incaricato «ha fallito ancora una volta; sembra essere divenuta un’abitudine». Sarcasmi a parte, la situazione è obiettivamente delicata. Perché Israele si trova in queste condizioni? Può andare avanti ancora per molto essendo entrata, almeno da aprile (in realtà già da prima), in una lunghissima fase interlocutoria, dove la vera posta in gioco sembra lo sfibrare gli avversari piuttosto che il costituire un esecutivo?

Le risposte sulle ragioni dell’attuale situazione possono essere molteplici. Alcune sono strettamente endogene, legate a questioni interne alla società e alla politica nazionale. Altre, invece, si inquadrano in una dinamica molto più ampia, che sta interessando i paesi a sviluppo avanzato. Il fuoco del conflitto politico in Israele è l’estromissione di Netanyahu dal ruolo attivo che fino ad oggi ha mantenuto, quindi dal premierato. Si tratta di una volontà piuttosto diffusa, trasversale, in parte dichiarata apertamente (Kahol Lavan e Avigdor Lieberman), in parte coltivata silenziosamente (ad esempio dentro una parte del Likud). Il suo ruolo di decisore supremo piace sempre meno. Come anche alcuni lettori di questa testata hanno rilevato, l’assunzione delle deleghe di ben quattro dicasteri nella sua persona (e in quella di sua moglie, vera e propria ghostlady della politica israeliana) ha accentrato enormemente il processo decisionale, riducendo i margini di collegialità, e quindi di contrattazione tra le diverse componenti dell’esecutivo. Nel crescente malcontento, al limite della maretta, di queste ultime, dinanzi alle farraginosità, alle discrasie e al solipsismo di un «Re Bibi» che si vorrebbe ancora alla guida di un Paese che, a fronte dei molteplici risultati positivi in economia misura, però, una crescita molto marcata delle diseguaglianze interne e dei divari di trattamento retributivo. Un fenomeno peraltro in linea con gli indirizzi prevalenti nei paesi a sviluppo avanzato. Anche in ragione di ciò, ossia della netta impressione di non essere tutelati nei propri interessi materiali, è quindi derivato un silenzioso esodo di elettori, quanto meno la componente meno identitaria e radicalizzata, dal Likud verso il partito di Gantz. Laddove un altro punto di dissidio è la compiacenza che Netanyahu esprime sul piano politico (ma anche nelle scelte economiche che ha potuto determinare o avallare tramite il suo premierato) verso l’ultraortodossia e la destra più radicale, mettendo a rischio, secondo una parte cospicua dei suoi critici, il tradizionale ancoraggio laico del Likud. In realtà, per ciò che concerne quest’ultino fenomeno, più che una opzione ideologica – ossia uno spostamento della posizione politica del capo del governo uscente verso le fazioni più estreme – in tutta plausibilità è in atto un meccanismo di scambio, laddove Bibi ha cercato di fidelizzare il consenso parlamentare intorno alla sua persona, nel tentativo di ottenere l’immunità per i possibili processi a venire.

Una cosa è certa, ossia che la perdita della leadership gli comporterà l’esclusione dai giochi politici più importanti. Il che, sommato alla gragnuola di colpi giudiziari con l’incriminazione che si intravede all’orizzonte, costituirebbe la linea del fronte del suo tramonto, non solo sul piano istituzionale (governo) ma anche partitico. Lo sa benissimo e, in tutta probabilità, a questo punto lotterà con le unghie e con i denti per impedire a Gantz di raggiungere, al suo posto, l’accordo per un governo di unione nazionale tra Kahol Lavan e Likud, auspice Yisrael Beiteinu. Non potendo fare lui il capo dell’esecutivo, cercherà di escludere gli altri. In realtà, lo scenario a venire, a questo punto, poco dipenderà dalla sua volontà oppositiva e molto dalla capacità degli altri attori politici di trovare un nuovo terreno d’intesa. Quanto il Likud sia quindi disponibile ad abbandonare colui che dal 1996 ne determina l’indirizzo di fondo, è uno degli scogli con i quali i suoi avversari dovranno fare i conti. Si tratta di un transito non solo di leadership ma di indirizzo politico profondo, tutto da metabolizzare, a fronte della mancanza di una figura forte (ossia credibile) a destra che possa coprire il vuoto che altrimenti si apre.

Il Likud, in questi anni di “Bibimania”, ha subito al suo interno diverse secessioni, frutto sia del contrasto con un leader che non ammette repliche e neanche compartecipazioni ma solo patti di desistenza, sia della trasformazione di posizionamento di una parte della classe dirigente della destra (si veda, solo per citare i nomi più noti, i casi di Ariel Sharon e Tzipi Livni). Al di fuori d’Israele, un fattore che ha una sicura incidenza nelle dinamiche del Paese è la ricaduta di lungo periodo di quello che può essere definito come il ciclo populista (usiamo questo aggettivo in mancanza di altre espressioni più consone a definire una situazione caratterizzata dal messaggio diretto agli elettori, dalla leadership carismatica, dalla sostanziale diffidenza verso un sistema di pesi e contrappesi), il quale spezza la capacità coalittiva in sistemi elettorali proporzionalistici, qual è quello israeliano. E ad alimentare questo ciclo, facendosene alfiere (e potenziale beneficiario), è stato lo stesso Bibi, confidando sulla sua capacità di fare alleanze e sullo svuotamento della sinistra (cosa che nelle ultime elezioni si è verificato solo in parte).

Sullo sfondo si pongono gli Stati Uniti di Donald Trump, la crescente imprevedibilità di una presidenza che sta mutando le coordinate di presenza ed intervento in Medio Oriente, all’interno di una regione che sta a sua volta trasformandosi. Netanyahu si è fatto garante del rapporto diretto, se non privilegiato, con gli Stati Uniti di «The Duck». Ma nel momento in cui la chioma gialla sembra seguire più il corso dell’opportunità immediata che non quello della coerenza di lungo termine, il rischio di rimanere con il cerino in mano, bruciandosela elettoralmente, è sempre più pronunciato. Anche questo è un elemento che sta incidendo sul piano politico. La condotta della Washington presidenziale rispetto ai curdi siriani lascia a dire poco perplessi molti israeliani.

Vedremo quindi, nelle settimane a venire, cosa ne potrà derivare. Inseguendo la corsa della pallina sul tavolo del confronto tra i diversi national players. Finché l’arbitro Reuven Rivlin, il “buon padre di famiglia” che garantisce gli equilibri istituzionali, non interverrà in un senso (varo del nuovo esecutivo) o nell’altro (elezioni).

Claudio Vercelli

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.

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