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Israele: da Netanyahu a Gantz, il governo che verrà

Claudi Vercelli – Joimag 23 Ottobre 2019

La situazione politica attuale e i suoi protagonisti in un’analisi dei prossimi equilibri nazionali

La politica israeliana sembra essere diventata un tavolo da ping pong. La pallina dell’incarico di governo va da una parte all’altra ma, a rigore di metafora, è possibile che presto venga fermata dalla rete divisoria. Dopo di che, se ciò dovesse succedere, e lo si saprà nel qual caso entro quattro settimane, i giocatori saranno rimandati alle urne. Con quali potenziali risultati è prevedibile il dirlo, poiché ciò che il Paese sta vivendo è uno stallo che è assai improbabile che gli elettori possano sciogliere. Il numero magico, cabalistico è 61, la quantità di deputati della Knesseth necessari per garantirsi la maggioranza parlamentare. Minima. È la soglia della speranza e del desiderio. Ma sembra un miraggio.

Benjamin Netanyahu, premier incaricato, ha resistito fino all’ultimo, cercando in qualche modo di trovare una soluzione plausibile, soprattutto a se stesso. Ma dinanzi al rifiuto dei suoi potenziali alleati, ha dovuto gettare la spugna. Ora tocca a Binyamin Gantz, leader di Kahol Lavan. Il quale dovrebbe però riuscire nel difficilissimo equilibrismo di garantirsi maggioranze mutevoli, tra la destra di Yisrael Beiteinu e la Join List dei quattro partiti arabi. In altre parole, un esecutivo di minoranza che raccolga, di volta in volta, i voti parlamentari che gli mancano, pescando tra gli schieramenti opposti. Questa è l’ipotesi prefigurata come unica chiave alternativa al governo di unità nazionale, oggi non più tra destra e sinistra (come negli anni Ottanta, quando Likud e Labur dovevano trovare dei terreni comuni di intesa) ma tra destra e centro-destra. Poiché Netanyahu e Gantz sono posizionati su quest’asse, posto che gli equilibri politici, anche in Israele, in questi ultimi vent’anni hanno trovato il loro bilanciamento sempre di più verso questa parte dello spettro politico. Dopo di che, qualora non intervenga un fattore del tutto inedito, senza quindi varare un esecutivo, i giochi si chiuderanno.

In questi ultimi giorni, un Netanyahu sempre più affannato ha accusato i suoi interlocutori di coltivare l’intento di tradire il mandato di una consistente parte degli elettori, prefigurando scenari a suo dire molto problematici per Israele: l’ipotesi di partiti arabi nella maggioranza di governo (non però con incarichi ministeriali) è presentata come una prospettiva poco o nulla gradevole, soprattutto per l’elettorato conservatore. La risposta di Yair Lapid, numero due del partito Blu e Bianco, non si è fatta attendere, avendo rimarcato che il premier incaricato «ha fallito ancora una volta; sembra essere divenuta un’abitudine». Sarcasmi a parte, la situazione è obiettivamente delicata. Perché Israele si trova in queste condizioni? Può andare avanti ancora per molto essendo entrata, almeno da aprile (in realtà già da prima), in una lunghissima fase interlocutoria, dove la vera posta in gioco sembra lo sfibrare gli avversari piuttosto che il costituire un esecutivo?

Le risposte sulle ragioni dell’attuale situazione possono essere molteplici. Alcune sono strettamente endogene, legate a questioni interne alla società e alla politica nazionale. Altre, invece, si inquadrano in una dinamica molto più ampia, che sta interessando i paesi a sviluppo avanzato. Il fuoco del conflitto politico in Israele è l’estromissione di Netanyahu dal ruolo attivo che fino ad oggi ha mantenuto, quindi dal premierato. Si tratta di una volontà piuttosto diffusa, trasversale, in parte dichiarata apertamente (Kahol Lavan e Avigdor Lieberman), in parte coltivata silenziosamente (ad esempio dentro una parte del Likud). Il suo ruolo di decisore supremo piace sempre meno. Come anche alcuni lettori di questa testata hanno rilevato, l’assunzione delle deleghe di ben quattro dicasteri nella sua persona (e in quella di sua moglie, vera e propria ghostlady della politica israeliana) ha accentrato enormemente il processo decisionale, riducendo i margini di collegialità, e quindi di contrattazione tra le diverse componenti dell’esecutivo. Nel crescente malcontento, al limite della maretta, di queste ultime, dinanzi alle farraginosità, alle discrasie e al solipsismo di un «Re Bibi» che si vorrebbe ancora alla guida di un Paese che, a fronte dei molteplici risultati positivi in economia misura, però, una crescita molto marcata delle diseguaglianze interne e dei divari di trattamento retributivo. Un fenomeno peraltro in linea con gli indirizzi prevalenti nei paesi a sviluppo avanzato. Anche in ragione di ciò, ossia della netta impressione di non essere tutelati nei propri interessi materiali, è quindi derivato un silenzioso esodo di elettori, quanto meno la componente meno identitaria e radicalizzata, dal Likud verso il partito di Gantz. Laddove un altro punto di dissidio è la compiacenza che Netanyahu esprime sul piano politico (ma anche nelle scelte economiche che ha potuto determinare o avallare tramite il suo premierato) verso l’ultraortodossia e la destra più radicale, mettendo a rischio, secondo una parte cospicua dei suoi critici, il tradizionale ancoraggio laico del Likud. In realtà, per ciò che concerne quest’ultino fenomeno, più che una opzione ideologica – ossia uno spostamento della posizione politica del capo del governo uscente verso le fazioni più estreme – in tutta plausibilità è in atto un meccanismo di scambio, laddove Bibi ha cercato di fidelizzare il consenso parlamentare intorno alla sua persona, nel tentativo di ottenere l’immunità per i possibili processi a venire.

Una cosa è certa, ossia che la perdita della leadership gli comporterà l’esclusione dai giochi politici più importanti. Il che, sommato alla gragnuola di colpi giudiziari con l’incriminazione che si intravede all’orizzonte, costituirebbe la linea del fronte del suo tramonto, non solo sul piano istituzionale (governo) ma anche partitico. Lo sa benissimo e, in tutta probabilità, a questo punto lotterà con le unghie e con i denti per impedire a Gantz di raggiungere, al suo posto, l’accordo per un governo di unione nazionale tra Kahol Lavan e Likud, auspice Yisrael Beiteinu. Non potendo fare lui il capo dell’esecutivo, cercherà di escludere gli altri. In realtà, lo scenario a venire, a questo punto, poco dipenderà dalla sua volontà oppositiva e molto dalla capacità degli altri attori politici di trovare un nuovo terreno d’intesa. Quanto il Likud sia quindi disponibile ad abbandonare colui che dal 1996 ne determina l’indirizzo di fondo, è uno degli scogli con i quali i suoi avversari dovranno fare i conti. Si tratta di un transito non solo di leadership ma di indirizzo politico profondo, tutto da metabolizzare, a fronte della mancanza di una figura forte (ossia credibile) a destra che possa coprire il vuoto che altrimenti si apre.

Il Likud, in questi anni di “Bibimania”, ha subito al suo interno diverse secessioni, frutto sia del contrasto con un leader che non ammette repliche e neanche compartecipazioni ma solo patti di desistenza, sia della trasformazione di posizionamento di una parte della classe dirigente della destra (si veda, solo per citare i nomi più noti, i casi di Ariel Sharon e Tzipi Livni). Al di fuori d’Israele, un fattore che ha una sicura incidenza nelle dinamiche del Paese è la ricaduta di lungo periodo di quello che può essere definito come il ciclo populista (usiamo questo aggettivo in mancanza di altre espressioni più consone a definire una situazione caratterizzata dal messaggio diretto agli elettori, dalla leadership carismatica, dalla sostanziale diffidenza verso un sistema di pesi e contrappesi), il quale spezza la capacità coalittiva in sistemi elettorali proporzionalistici, qual è quello israeliano. E ad alimentare questo ciclo, facendosene alfiere (e potenziale beneficiario), è stato lo stesso Bibi, confidando sulla sua capacità di fare alleanze e sullo svuotamento della sinistra (cosa che nelle ultime elezioni si è verificato solo in parte).

Sullo sfondo si pongono gli Stati Uniti di Donald Trump, la crescente imprevedibilità di una presidenza che sta mutando le coordinate di presenza ed intervento in Medio Oriente, all’interno di una regione che sta a sua volta trasformandosi. Netanyahu si è fatto garante del rapporto diretto, se non privilegiato, con gli Stati Uniti di «The Duck». Ma nel momento in cui la chioma gialla sembra seguire più il corso dell’opportunità immediata che non quello della coerenza di lungo termine, il rischio di rimanere con il cerino in mano, bruciandosela elettoralmente, è sempre più pronunciato. Anche questo è un elemento che sta incidendo sul piano politico. La condotta della Washington presidenziale rispetto ai curdi siriani lascia a dire poco perplessi molti israeliani.

Vedremo quindi, nelle settimane a venire, cosa ne potrà derivare. Inseguendo la corsa della pallina sul tavolo del confronto tra i diversi national players. Finché l’arbitro Reuven Rivlin, il “buon padre di famiglia” che garantisce gli equilibri istituzionali, non interverrà in un senso (varo del nuovo esecutivo) o nell’altro (elezioni).

Claudio Vercelli

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.

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L’ultima intervista, il nuovo libro di Eshkol Nevo

Invito alla presentazione del più recente bestseller dell’autore israeliano Eshkol Nevo. L’autore incontra i lettori lunedì 21 ottobre ore 18:30 La Feltrinelli Piazza Duomo Milano

Un tempo mi alzavo felice e oggi mi alzo triste. Così comincia questo struggente e feroce romanzo in cui uno scrittore mette a nudo il suo cuore. Sulla scia di grandi autori quali Nabokov e Roth, l’acclamato autore Eshkol Nevo nel suo nuovo romanzo L’ultima Intervista (Neri Pozza), ci mostra come la vita stessa di uno scrittore possa diventare autentica letteratura. E’ un’intima confessione e, al contempo, un romanzo sorprendente, audace e assolutamente avvincente. Interviene Malcolm Pagani.

Lo scrittore Eshkol Nevo è nato a Gerusalemme nel 1971 ed è il nipote di uno dei padri della patria di Israele, Levi Eshkol, che fu il terzo Primo Ministro del Paese dal 1963 al 1969. Eshkol è cresciuto tra Gerusalemme ed Haifa e Detroit negli Stati Uniti. Dopo aver studiato Psicologia lavora come pubblicitario ma dopo qualche anno si dedica alla scrittura e all’insegnamento. Considerato allievo di Amos Oz ha scritto libri molto intensi a partire dal primo Nostalgia del 2006 , a cui hanno fatto seguito La simmetria dei desideri (2010) , Neuland (2012), Soli e perduti (2015). Nel 2017 ha pubblicato Tre piani , romanzo in cui riemergono gli studi di psicologia di Nevo: racconta infatti le vicende degli abitanti di una palazzina di tre piani che rispecchiano in realtà la dimensioni della psiche secondo la tesi freudiana Es, Ego e Super Ego. Da questo libro Nanni Moretti sta girando un film con Margherita Buy che sarà nelle sale nel 2020.

Nel 2018 ho avuto la fortuna di partecipare ad un incontro a Milano con Eshkol Nevo presso la Fondazione del Corriere della Sera. In quella occasione è stato citato e commentato un bellissimo racconto di Nevo che era stato pubblicato sulla Lettura il 25 giugno 2017, dal titolo L’abbraccio silenzioso. Il racconto parla di uno scrittore (chiaramente di sinistra) che viene invitato a parlare in un insediamento di ebrei (non chiaramente ortodossi). Alla fine dell’incontro, a causa del blocco della strada per un allarme terroristico, è costretto a trattenersi a dormire lì a casa di Iris, la bibliotecaria. Lei è vedova con tre figli, il marito pugnalato al petto a 34 anni. Nel buio della notte notte un corpo solitario scivola accanto allo scrittore e si scioglie in una stretta di calore , ma non era il corpo di Iris , era più piccolo. Era il corpo di di suo figlio Nimrod, orfano del padre pugnalato due anni prima da quelle parti, sulle colline della Samaria.

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Invito all’Evento Israele: la sfida dei due Benjamin

Confronto sulla situazione politica israeliana in memoria di Andrea Cabibbe .

Abbiamo il piacere di invitarvi al Convegno sulla situazione politica israeliana che si terrà il 28 ottobre p.v. alle ore 21 al Circolo El Salvadanee in via De Amicis 17 , Milano.

L’iniziativa è promossa da un gruppo di ragazzi cresciuti nella Hashomer Hatzair, per onorare la memoria del loro compagno Andrea Cabibbe.

Ne discuteranno i giornalisti Silvia Brasca, Gabriele Eschenazi, Gad Lerner e Lia Quartapelle , Capogruppo PD alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati.

Si prega di confermare la partecipazione con un’email a: dibattitoisraeleperandrea@gmail.com

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I GIUSTI, IL PIÙ ALTO LIVELLO DI UMANITÀ” intervista a Lizzie Doron

In occasione dell’inaugurazione il 6 Ottobre 2019 del nuovo Giardino dei Giusti dopo i lavori di riqualificazione (e le polemiche che hanno accompagnato questa riqualificazione) pubblichiamo l’intervista alla scrittrice Lizzie Doron realizzata nel 2014 da Martina Landi, Redazione Gariwo

Lizzie Doron è nata in Israele da genitori sopravvissuti all’Olocausto, ed è cresciuta in un quartiere a sud di Tel Aviv, Bitzaron, popolato dai reduci dei lager nazisti. Proprio questo luogo fa da sfondo ai suoi libri, che hanno riscosso un grande successo di pubblico e di critica e hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio Buchman di Yad Vashem.
L’abbiamo incontrata durante la sua permanenza a Milano in occasione del Festival della cultura ebraica Jewish and the City, per discutere di memoria e parlare di Giusti, che lei definisce “il più alto livello di umanità”.

Lei afferma che i Giusti tra le Nazioni sono il più alto livello di umanità. Gariwo, attraverso il loro esempio, cerca di raccontare il Male parlando di storie di Bene. Secondo lei qual è il ruolo dei Giusti nell’educazione dei giovani?

Non sono molto ottimista sul fatto che noi possiamo cambiare la tendenza del mondo: il male e l’odio sono uno dei principali comportamenti dell’essere umano. Penso tuttavia che le storie dei Giusti sono uno dei modi principali per fornire ai giovani un’altra prospettiva delle opzioni dell’essere umano. Credo che raccontando le loro vicende si riesca a mostrare che, anche nei giorni più bui della storia, è sempre possibile fare una scelta. E questo è molto importante.

Seguendo l’esempio di Yad Vashem e del Giusti della Shoah, Gariwo ha istituito una Giornata europea per onorare i Giusti di tutti i genocidi. Cosa ne pensa?

Sono una grande sostenitrice dell’importanza di ricordare i Giusti, prima di tutto per un motivo che riguarda la mia esperienza personale. Pochi anni fa ho scoperto che mia madre, dopo l’Olocausto, decise di tornare in Polonia per testimoniare in favore di un ufficiale delle SS. Si recò in tribunale e chiese ai giudici di risparmiargli la vita, dal momento che l’uomo l’aveva salvata durante la guerra. Purtroppo non conosco i dettagli di questo episodio, perché mia madre non me ne ha mai parlato. Ho però ritrovato alcuni documenti relativi alla sua testimonianza grazie a un’amica. In seguito a questa vicenda alcuni sopravvissuti all’Olocausto si sono arrabbiati con mia madre, perché sostenevano che l’ufficiale avesse compiuto tante azioni negative, e che una sola cosa buona non fosse abbastanza. Mia madre tuttavia sosteneva la necessità di incoraggiare persone e comportamenti come questo, ed era davvero orgogliosa di quello che aveva fatto per salvare quell’uomo. Quando ho scoperto questa storia ho capito perché per tutta la vita lei ha insistito sull’importanza di raggiungere il più alto livello di umanità, sostenendo che la vera prova nella vita di una persona – soprattutto nei momenti più difficili – è di cercare di essere coraggiosi abbastanza per essere giusti.

Qual è il significato di “fare memoria” per lei? E quale il senso della memoria della Shoah?

La memoria di per sé è qualcosa di passivo, e può anche portarti indietro. Per me le memorie sono pietre miliari che devono servire per tornare indietro nella storia e capire cosa è successo, per poi permetterti di cercare di cambiare qualcosa, di combattere nel tempo presente e costruire un futuro diverso. Le memorie non sono solo storie, non sono solo qualcosa che deve toccare il tuo cuore, farti piangere e creare empatia, ma sono importanti strumenti per guardare avanti. Io scrivo sul passato non perché ho qualcosa di speciale da ricordare o un trauma da superare. Uso il passato per cercare di migliorare il futuro.

Oggi ci sono leggi che istituiscono Giornate della Memoria, celebrate in molti Paesi. Cosa pensa di queste ricorrenze? Possono essere uno strumento utile per i giovani, o possono portare al rischio di banalizzare la memoria?

Credo che entrambe le opzioni siano rilevanti, e dobbiamo combattere contro questa celebrazione e “banalizzazione della memoria”. Dobbiamo anche essere molto creativi: forse mettere in risalto le storie dei Giusti lasciando il male alle nostre spalle può servire a cambiare qualcosa.

Secondo lei esiste un solo modo per parlare della Shoah?

Per risponderle voglio raccontarle un episodio veramente molto interessante che mi è capitato in Italia. Era il 27 gennaio dell’anno scorso. Io ero a Forlì, per le celebrazioni della Giornata della Memoria, e ho visto tantissimi cittadini sfilare dalla casa ebraica al comune per giurare che “mai più” si dovesse verificare una cosa del genere a causa di una religione, di un gruppo etnico o di altri motivi. Ho trovato che questo fosse uno dei modi migliori per commemorare la Giornata, con una promessa per il futuro e non solo con il ricordo del passato. Credo infatti in un modo innovativo di fare memoria, che deve essere creativo e stimolante per i giovani, e avere dentro di sé il seme della speranza di poter cambiare qualcosa.

Durante la Giornata della Memoria spesso sentiamo ripetere le parole “mai più”…

Credo che queste parole siano diventate degli slogan vuoti. E se ci sono solo slogan, ci si ricorda di quanto è avvenuto solo durante le ricorrenze, e poi la memoria scompare. Non amo questo tipo di discorso perché penso agli slogan come a qualcosa che tende a coprire, che spesso può far sentire bene ma che in realtà non serve per costruire un futuro diverso.

Pensa che la memoria della Shoah possa essere utile nella prevenzione di altri genocidi?

Credo che, in generale, per essere attratti da qualcosa si ha bisogno di un lieto fine, di una bella storia, di credere o sperare di poter fare la stessa cosa. I Giusti quindi sono buoni esempi da seguire. Ritengo che rappresentino il massimo livello dell’umanità, perché insegnano l’importanza del compiere una scelta e, non limitandosi a predicare di non fare il male, mettono in evidenza valori alternativi. Possiamo quindi usare i Giusti come esempio per noi, ma anche come “strumento”. Di fronte al male, infatti, ci si sente confusi, si pensa di non poter far nulla, si vuole solo scappare, e in questo contesto i Giusti possono essere la luce che indica la via.

Nei suoi libri le donne – e in particolare sua madre – hanno un ruolo centrale. Può spiegarci il motivo?

Sicuramente questo deriva dalla mia esperienza personale. Sono cresciuta in un quartiere di sopravvissuti alla Shoah, e quello che mi colpiva era che tutte le donne erano più forti degli uomini. Gli uomini andavano a lavorare, ma erano le donne ad insegnare ai bambini i valori della vita. Mia madre poi era una persona davvero forte, sapeva che avrei capito quello che mi insegnava e mi diceva. Non parlava mai dell’Olocausto, e credeva davvero che i Giusti fossero uno degli esempi che io avrei dovuto comprendere profondamente. Mi diceva che, anche se comportava il rischio della vita, era quello il modo in cui gli esseri umani dovrebbero comportarsi.
Un altro aspetto interessante è legato al coraggio delle donne del quartiere dove sono cresciuta. Israele doveva combattere per la propria libertà come nazione, e per farlo avevamo bisogno di soldati e potere. Tuttavia nel mio quartiere nessuno dei sopravvissuti all’Olocausto, specialmente le donne, accettava questa idea che essere forti significasse necessariamente essere il vincitore. È molto interessante questa presa di posizione, perché era una sorta di ribellione contro il pensiero canonico della nazione israeliana. Io stessa ne ero sorpresa a quei tempi, ma quando sono cresciuta ho realizzato di aver avuto leader eccezionali in quel piccolo quartiere il Tel Aviv.

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Amos Oz: “Vivo spiando la gente”

Nel libro che raccoglie le sue ultime riflessioni, che qui anticipiamo, il grande scrittore scomparso racconta come le storie ascoltate per caso lo abbiano sempre ispirato: “La curiosità è la più grande virtù”

DI AMOS OZ da Repubblica 28 Settembre 2019

Nel cortile del liceo Rechavia, a Gerusalemme, c’era un albero di eucalipto su cui qualcuno aveva inciso un cuore trafitto da una freccia. Sul cuore trafitto, ai due lati della freccia, stava scritto: Gadi-Ruti. Ricordo che già a quell’epoca, avrò avuto tredici anni, pensavo: L’avrà fatto Gadi, quel cuore, non Ruti. Perché l’aveva fatto? Non lo sapeva che amava Ruti? O lei non sapeva che lui l’amava? Se ben ricordo, già a quell’epoca dicevo a me stesso: Forse qualcosa dentro di lui sa che passerà, che tutto passa, che quell’amore finirà. Così, voleva lasciare qualcosa. Voleva che di quell’amore restasse memoria anche dopo, una volta passato. Il che somiglia molto all’impulso che porta a raccontare storie, a scrivere libri: mettere qualcosa in salvo dalle grinfie del tempo e dell’oblio. Questo, e anche il desiderio di dare una seconda occasione a ciò che un’altra occasione non avrà mai più. Anche questo. Le forze che spingono questa mano a scrivere sono anche il desiderio che quel qualcosa non sparisca, che non sia come se non fosse mai stato – e non intendo solo cose successe a me. (…)

Ogni tanto mi chiedo da dove vengano le storie, e non sono poi così capace di rispondere. Vedi, per un verso lo so, sì, perché è tutta la vita che faccio la spia. L’ho scritto in Una storia di amore e di tenebra. Ascolto conversazioni altrui, osservo gli estranei, e quando mi trovo in coda dal dottore, alla stazione o all’aeroporto, non leggo mai il giornale. Preferisco ascoltare la gente che parla, rubare sprazzi di conversazioni, completarle con le parti mancanti. Oppure osservo i vestiti, lancio un’occhiata alle scarpe – le scarpe hanno sempre un mucchio di cose da raccontare. Studio la gente. Ascolto. 

Il mio vicino di casa al kibbutz Hulda, Meir Sibahi, diceva: Ogni volta che passo davanti alla finestra della stanza dove Amos scrive, mi fermo un momento, tiro fuori un pettine e mi pettino, perché se mai dovessi entrare in una sua storia almeno ci entrerei pettinato. Il ragionamento non fa una piega, ma da me non funziona cosi. Prendiamo come esempio una mela. Di che cosa è fatta una mela? Acqua, terra, sole, un albero di mele e un po’ di concime. Eppure non somiglia a nessuna di queste cose. È fatta di questo, ma non somiglia a niente. E cosi è una storia, né più né meno di un impasto di incontri, esperienze, ascolti.

Il mio impulso primario è quello di provare a indovinare come mi sentirei se fossi lui, se fossi lei: che cosa penserei? Che cosa desidererei? Di che cosa mi vergognerei, se fossi lei? Che cosa, per esempio, non vorrei che nessuno al mondo sapesse di me? Come mi vestirei? Che cosa mangerei, se fossi lei? Ciò mi accompagna da sempre, da ancor prima che cominciassi a scrivere delle storie, sin da quando ero bambino. Ero figlio unico, non avevo amici. I miei genitori mi portavano al caffè di via Ben Yehudah a Gerusalemme, promettendomi il gelato se stavo buono mentre loro parlavano con gli amici. A Gerusalemme in quell’epoca il gelato era una rarità. Non perché costasse molto, ma perché le nostre madri, religiose e laiche, sefardite o ashkenazite che fossero, erano tutte senza eccezione fermamente convinte che il gelato fosse sinonimo di gola rossa, di infiammazione, di influenza, di angina, di bronchite, di polmonite, di tubercolosi. In poche parole: o gelato o bambino. 

Ciononostante, loro promettevano che mi avrebbero comprato il gelato se non li avessi disturbati durante la conversazione. Con quei loro amici loro chiacchieravano a dir poco settantasette ore filate. E io, per non impazzire di solitudine, decidevo di spiare le persone sedute ai tavoli vicini. Rubavo frammenti di conversazioni, osservavo, chi invita chi? Chi paga? Cercavo di indovinare in che rapporti fossero le persone sedute al tavolo accanto, e provavo persino a immaginare da dove venissero, come fosse casa loro, studiandone l’aspetto, il linguaggio corporeo. Faccio lo stesso, ancora oggi. Non intendo dire che scatto delle fotografie, torno a casa, le sviluppo e mi ritrovo con una storia. Strada facendo si attraversa una marea di trasformazioni.

Ne La scatola nera, per esempio, c’è un ragazzo che ha la mania di grattarsi l’orecchio destro con la mano sinistra, passandosela dietro la testa. Una volta una donna mi ha chiesto: Dove l’hai presa, questa cosa? Perché anche lei conosceva un tizio che si grattava l’orecchio con la mano sinistra, passandola dietro la testa. Le ho risposto che ero quasi sicuro di averlo visto fare, una volta, e lei mi ha incalzato: Dove, dove l’hai visto? Con tutta la buona volontà, proprio non lo so. Veniva da un ricordo dimenticato, non era una cosa campata per aria, ma non ho proprio idea di dove l’avessi presa. Sai una cosa? Te la dico così: quando scrivo un articolo, di solito lo faccio perché sono arrabbiato. La spinta principale è che sono arrabbiato per qualche motivo. 

Ma quando scrivo una storia, una delle cose che muovono questa mano e la curiosità. Una curiosità tale che non riesco a saziarla. Mi incuriosisce da matti mettermi nei panni degli altri. Credo che la curiosità non sia soltanto una condizione indispensabile per qualunque opera intellettuale, ma anche una virtù morale. Forse proprio la dimensione morale della letteratura. Ne discuto sempre con A.B. Yehoshua, che pone la questione morale a monte della creazione letteraria: delitto e castigo. Io credo che ci sia, sì, una questione morale, ma in altri termini: mettere te stesso per qualche ora nei panni di un’altra persona, o dentro le scarpe di qualcun altro. Il che ha un peso morale implicito, non troppo grande.

Senza esagerare. Ma credo davvero che una persona curiosa sia un partner un po’ migliore di quanto non lo sia una che non lo è, e anche un genitore un poco migliore. Non ridere di me, ma credo che una persona curiosa sia anche un automobilista un po’ migliore di chi non lo è, perché si domanda che cosa sarebbe capace di fare quello che guida sulla corsia parallela. E ho l’impressione che una persona curiosa sappia perfino amare meglio. (…)

Una volta c’era una donna a una finestra illuminata, alle quattro e mezzo del mattino, che guardava verso il buio. Mi sono fermato a guardarla io, dal buio. Non per il motivo che credi tu. Comunque non solo per quello. L’ho guardata dall’oscurità e mi sono chiesto che cosa poteva esserle successo, in quelle ore. Poi si è allontanata dalla finestra e ha spento la luce, o forse è rimasta lì a guardare verso il buio, io ho proseguito per la mia strada, ma mi sono portato via con me il primo nucleo di una storia. Che non ho ancora scritto. Forse un giorno la scriverò, forse mai.

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UN UOMO SI GIUDICA DAI SUOI SOGNI. L’INSEGNAMENTO DI SHIMON PERES

Gabriele Nissim , pubblicato su Gariwo News 13 Settembre 2019

Un essere umano, ma direi anche un Paese, si giudica anche dai suoi sogni, non solo quando gli eventi vanno in una buona direzione, ma anche quando tutto sembra andare storto. La filosofa Agnes Heller, che ci ha appena lasciato, scriveva che la bella persona è quella che accetta il proprio destino, ma che ambisce per tutta la vita ad essere buona, anche se non raggiungerà mai la meta, come essere parziale e fragile, ma ci proverà comunque.
Etty Hillesum viveva l’inferno nel campo di concentramento, ma sognava che dopo la fine della guerra potesse nascere un mondo senza odio e senza nemici.

Uno dei politici del nostro tempo che ha legato il suo percorso all’idea del sogno è stato il premio Nobel per la pace Shimon Peres.
Domenica nella sinagoga di Milano parlerò di lui, a poche ore dalle prossime elezioni israeliane, con Nadav Tamir, il direttore del centro Peres che è stato in tanti anni il suo più fedele collaboratore.
Mi capita così l’occasione di rivisitare una prospettiva politica ed esistenziale che non vale solo per il passato, ma che è molto attuale nei nostri tempi.
Mi sono riletto l’intervento che Shimon Peres fece ad Oslo il 10 dicembre del 1994 nel momento in cui sembrava che la pace definitiva nel Medio Oriente fosse a portata di mano.
Allora il Ministro degli esteri israeliano fece anche una riflessione sulla sua vita.
Un uomo, raccontò, non può fermare il corso dei suoi anni, ma ha sempre la possibilità di rimanere giovane con i suoi sogni. Le leggi della biologia non si applicano alle proprie aspirazioni, sono indice della vitalità dell’essere umano e gli allungano la vita. La sua famiglia riuscì infatti a superare il dramma della persecuzione e della guerra con il sogno di uno Stato ebraico. Se lui e i suoi genitori non avessero avuto questo sogno non sarebbero forse sopravvissuti e non sarebbero mai sbarcati nel porto di Jaffa.
Ma neanche quella terra conquistata in tante guerre poteva bastare se non si immaginavano nuovi sogni.

Le guerre per l’indipendenza gli avevano fatto capire due cose importanti. Si può anche vincere con le armi, ma poi non necessariamente ottenere la pace. La guerra gli aveva fatto comprendere che per ottenere la pace non bastano le armi più sofisticate, ma bisogna prima di tutto creare degli uomini migliori in tutto il Medio Oriente. È questa la garanzia che determina la vittoria.
Shimon Peres immaginava due grandi sogni, uno per l’Israele del futuro e uno per i popoli di tutta l’area mediorientale.
Dopo la conquista territoriale non era tanto importante il numero degli ebrei che sarebbero andati a vivere in Israele, quanto il carattere morale dello Stato che avrebbe dovuto diventare un centro spirituale e tecnologico al servizio del mondo intero. Il carattere particolare degli ebrei e degli israeliani avrebbe dovuto aspirare ad avere sempre una dimensione universale. Si era ebrei veri quando ci si sentiva cittadini del mondo. Il particolare e l’universale dovevano essere l’anima dell’identità ebraica.
E anche il Medio Oriente doveva cambiare. Il luogo da cui erano nate le tre religioni monoteiste doveva diventare un riferimento morale per il mondo intero. Pungete la sua battuta: “ Qui da noi tutti si vantano di essere stati la culla della civiltà, ma è ora che la finiamo di essere soltanto dei bambini per tutta la vita.” Era tempo di diventare uomini maturi.

Come Etty Hillesum lanciava una grande sfida.
Tutti i popoli del Medio Oriente dovevano sentirsi impegnati per superare nel linguaggio politico l’idea del nemico, l’idea più obsoleta e pericolosa per il genere umano.
Di fronte a chi divideva il mondo, gli Stati e le religioni in entità contrapposte era tempo di dire che l’umanità intera si doveva unire contro i veri nemici che mettono in pericolo la nostra sopravvivenza: la povertà, la fame, la radicalizzazione religiosa, le droghe, la proliferazione nucleare, la desertificazione, i cambiamenti climatici.
Era tempo di costruire un Medio Oriente senza guerre, senza nemici, senza missili balistici, senza testate nucleari, senza dogane, dove tutti potessero circolare liberamente, dove ognuno avesse la libertà di pregare liberamente e senza censure nella propria lingua, in arabo, ebraico, latino, dove la massima aspirazione fosse l’istruzione per tutti e la cooperazione scientifica e tecnologica.

Oggi, 25 anni dopo,  sembrano forse i sogni di un ingenuo, di fronte ad un moltiplicarsi delle guerre, dei fanatismi e dei nazionalismi in tutta l’area.
Qualcuno lo chiamerà buonista e dirà che la sua profezia ha fallito e che la forza delle armi deciderà ancora una volta il futuro.
Come però aveva capito Shimon Peres, la prospettiva della pace è l’unica speranza realista perché senza cooperazione e condivisione i popoli del Medio Oriente minacciati più degli altri dai cambiamenti climatici e dalla siccità, possono soltanto affondare.
Peres li aveva invitati a sognare per dare un senso al destino di tutti e per insegnare loro il segreto della giovinezza. 
La decadenza comincia quando si smette di sognare.

Analisi di Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

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