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Storia senza perdono

Di Walter Barberis

Dieci anni dopo l’uscita del libro “ Dopo l’ultimo testimone” di David Bidussa,  lo storico (non ebreo) Walter Barberis torna sul tema della memoria e testimonianza della Shoah con il libro “ Storia senza perdono” presentato questa sera al Memoriale della Shoah. Proprio David Bidussa  ha introdotto la presentazione mettendo in guardia da una certa tendenza di alcuni storici di diventare dei “narratori” che raccontano gli eventi senza una vera analisi che dimostri con prove documentate e che cerchi di spiegare le ragioni. La Shoah è stata raccontata quasi esclusivamente dalle vittime e dai sopravvissuti, con casi di falsi testimoni.  Rare le memorie dei testimoni “dall’altra parte”, quelli che hanno partecipato e contribuito, i carnefici.

Il rischio è che la testimonianza diventi una lezione retorica, che racconta cosa è successo, che colpisce emotivamente, ma che non aiuta a capire come e perché è successo. La Storia deve essere uno strumento di civiltà per spiegare e far comprendere che nella società i fattori contaminanti sono ancora attivi.

Così viene presentato il libro nella quarta di copertina:

La Shoah, lo sterminio degli ebrei d’Europa da parte del nazismo, è una vicenda la cui efferatezza non ha precedenti. Ma per rendere conto di questa tragedia, quanto è importante il ruolo dei testimoni e quanto quello della storiografia? È il tema di questo intenso libro di Walter Barberis. Esso inizia con una frase di Primo Levi: «La memoria è uno strumento meraviglioso, ma fallace», che subito individua l’universo concettuale del libro. Di fronte alla scomparsa, giorno dopo giorno, dei testimoni oculari, di fronte al pericolo di una caduta nell’oblio, si rende necessario un nuovo vaglio delle testimonianze acquisite e dei loro limiti. Ma soprattutto, un ricorso deciso alla storia, disciplina chiave per la trasmissione del sapere e per una solida comprensione di ciò che è stato. Il testo rende conto dei diversi aspetti della ricezione della Shoah, da un iniziale disinteresse e incredulità nei confronti dei sopravvissuti, a una successiva “ipertrofia” della memoria – l’«era del testimone» – fino a non isolati e clamorosi casi di impostura.

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Yehoshua: “Alle urne come in un referendum. Con o contro Netanyahu”

DI FRANCESCA CAFERRI 11 SETTEMBRE 2019 La Repubblica

Martedì il Paese torna alle urne per la seconda volta in un anno: al centro del dibattito le vicende del premier che rischia il processo per corruzione. Parla il grande scrittore

MANTOVA – Di fronte a uova strappazzate e caffè, Abraham Yehoshua riflette sul destino del suo Paese con tono amaro, nonostante le bustine di zucchero che una cameriera solerte sistema sui tavoli intorno. Tunnel, il suo ultimo romanzo, appena pubblicato in Italia da Einaudi, parla di un matrimonio consumato dal tempo e dalla malattia, ma anche del legame che nonostante tutto unisce i due sposi. Metafora perfetta dell’unione fra uno dei più grandi scrittori israeliani e il suo Paese: amatissimo, eppure fonte di perenne preoccupazione e amarezza.

Soprattutto alla vigilia di un voto, come quello per il rinnovo del Parlamento (Knesset) della prossima settimana, in cui in gioco c’è l’identità stessa dello Stato ebraico: laici contro ultraortodossi, la sinistra dei padri fondatori ridotta al lumicino da una destra sempre più aggressiva, il rifiuto della popolazione araba di prendere parte.

Se accetta di indossare i panni dello sposo, come va il matrimonio? Riconosce ancora il suo grande amore?
“Come potrei? Sono estremamente critico verso l’identità di Israele oggi. La maniera in cui ci siamo trasformati, il ruolo che la religione ha preso nella vita pubblica, i nostri politici: non mi riconosco in nessuna di queste cose”.

E allora perché non divorzia? Potrebbe andare a vivere ovunque…
“Io non potrei mai essere parte della diaspora ebraica. Sono un ebreo nato a Gerusalemme, vissuto a Gerusalemme: se Israele non ci fosse più non ci sarebbe più la mia identità. Resto e parlo, scrivo, critico”.

Martedì il Paese va al voto per la seconda volta in un anno. Ci racconta il clima che c’è?
“Al centro di queste elezioni c’è una scelta pro o contro Netanyahu: ha vinto le elezioni ad aprile ma non è riuscito a formare il governo. Tutto il voto è su di lui e sulle sue questioni giudiziarie: potrebbe finire in carcere. Lo sa e per questo si comporta come un animale ferito. In campagna elettorale non si è parlato di pace con i palestinesi, di due Stati, di come sarà Israele nel futuro. Stiamo decidendo se cacciare o no Netanyahu”.

Che cosa pensa accadrà?
“Posso solo sperare che perda”.

E che cosa si aspetta dal futuro se questo accadesse?
“Noi israeliani abbiamo già mandato in prigione primi ministri e presidenti: potrebbe accadere ancora. Ma se mi chiede cosa mi auguro, quello che vorrei è che fossimo in grado di rimediare all’errore che Mosè fece sul Monte Sinai, quello di legare religione e identità. Questo è ciò che rende gli ebrei unici ma anche il loro maggiore problema. In America, in Italia, ci sono ebrei, ma questo non impedisce loro di essere cittadini dei loro Stati. In Israele non accade: religione e appartenenza allo Stato sono la stessa cosa”.

Si riferisce alla legge approvata qualche mese fa che definisce Israele “Stato degli ebrei…”?
“La destra ha voluto questa legge per difendersi da ciò che sta accadendo: l’unica soluzione per israeliani e palestinesi è uno Stato bi-nazionale. Non due Stati uno accanto all’altro, come volevano gli accordi di Oslo. Per questo ha varato la legge”.

Lei sostiene l’idea dello Stato unico: ciò le ha provocato molte critiche…
“Ho litigato con tanti amici di sinistra. Anche con uno dei più cari fra loro, Amos Oz, fino alla fine. Lui diceva che dovrebbero esserci due Stati, uno ebraico e uno palestinese. Ma ormai è impossibile, è tempo di riconoscerlo. L’ho detto a Amos, lo ripeto oggi. Dovremmo dare ai palestinesi della Cisgiordania gli stessi diritti degli ebrei. E loro dovrebbero usarli per partecipare alla vita pubblica: andando a votare, per prima cosa. Non sarà un piano di pace grandioso, né una soluzione perfetta: ma è l’unica possibile”.

Perché?
“Anche se nascessero due Stati il confine sarebbe troppo frastagliato. Nessun governo si ritirerebbe da tutti gli insediamenti: quindi da una parte servirebbero connessioni, strade, servizi per garantire i coloni. E dall’altra, come si potrebbe governare una minoranza palestinese piena di rabbia e senza diritti all’interno di uno Stato ebraico? Per non parlare di Gerusalemme: non si può dividere la città e non ci sarebbe Stato palestinese senza Gerusalemme”.

Servirebbero tunnel, che poi è il titolo del suo libro…
“Non a caso: in Israele ci sono religiosi e non religiosi. Osservanti contro non osservanti. Ultraortodossi e arabi. Ogni gruppo costruisce un muro per difendere la sua identità: io vorrei invece che si costruissero tunnel”.

C’è un’altra protagonista nel suo libro: la malattia che affligge il protagonista, la demenza. Anche questa non è stata una scelta casuale…
“Volevo lanciare un messaggio simbolico a israeliani e palestinesi: dire che è tempo di iniziare a dimenticare, di guardare al futuro. Basta rivangare nelle ferite del passato: parlare sempre di Shoah e di Nakba. Il mondo va avanti veloce: dobbiamo adattarci e andare avanti. Invece spesso siamo così incastrati nel passato da non guardare a ciò che potremmo avere”.

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Nel segno di Amos Oz

Pubblicato in Attualità il ‍‍26/05/2019

L’affetto e il legame del pubblico internazionale per Amos Oz continua ad essere forte, anche dopo la sua scomparsa. Un segno evidente di come le sue parole siano ancora vive. Lo ha ricordato negli scorsi giorni la figlia del grande scrittore israeliano, Fania Oz-Salzberger, protagonista di un partecipato incontro bolognese in occasione del Festival Mens-a, rassegna itinerante dedicata al pensiero ospitale e cosmopolitismo. “Il dolore per la morte di mio padre, nonostante il passare del tempo e tutto l’affetto che ricevo dalla gente di tutto il mondo, non si attenua, anzi si acuisce, tanto che incontrare il pubblico italiano come anche quello cinese o tedesco, che mantiene viva la memoria di mio padre, è una sorta di consolazione per la tristezza che sento”, le parole di Oz-Salzberger, intervistata sul palco da Sarah Kaminski, docente di ebraico all’Università di Torino e traduttrice. Dall’esperienza di crescere nel kibbutz fino alle opinioni politiche e le questioni sull’identità ebraica e democratica dello Stato di Israele, diversi i temi toccati nel corso della serata frutto del lavoro della psicanalista Beatrice Balsamo, ideatrice di Mens-a, in collaborazione con il Museo Ebraico di Bologna (nell’immagine, Fania Oz-Salzberger in visita al museo bolognese). Docente di storia delle idee all’università di Haifa, Oz-Salzeberger ha parlato dell’aspirazione di vivere in pace in Medio Oriente e del sostegno, condiviso con il padre, per l’opzione politica di due Stati per due popoli. La storica e scrittrice ha raccontato poi delle innumerevoli discussioni con il padre su ogni argomento possibile. Discussioni che hanno portato a una collaborazione molto apprezzata da pubblico critica, ovvero la scrittura a quattro mani del libro, Le parole e gli ebrei, scritto prima in inglese e poi diventato un best seller mondiale. Ad affiancare la conversazione tra l’autrice israeliana e la professoressa Kaminski, la lettura di alcuni brani di Amos Oz da parte dell’attore Alessio Vassallo.
A chiudere l’incontro, il ricordo di Fania di una breve parabola che piaceva molto al padre: “possiamo concentrare tutto l’insegnamento etico dei grandi filosofi o perfino il decalogo biblico in una sola e semplice mitzvah, ovvero, non ferire e non fare del male al nostro prossimo”.
Nel suo passaggio bolognese, Oz-Salzeberger ha inoltre ricordato un legame particolare con la città. “Ho una storia personale qui: mio suocero Maccabi Salzberger si trasferì da Gerusalemme a Bologna per studiare medicina nel 1946. Ma il suo lavoro segreto era quello di portare i sopravvissuti alla Shoah sulle navi illegali che li portavano in Terra d’Israele”.

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Nuovo referendum su Netanyahu: tutti vogliono batterlo, poi lo abbracceranno

Di Gabriele Eschenazi da Gli Stati Generali 5 Settembre 2019

Da un’elezione all’altra nello spazio di pochi mesi Israele sembra non aver altro tema da trattare che Benjamin Netanyahu. Il voto finisce per diventare soprattutto un referendum nei suoi confronti. Nessuna strategia sembra quella buona per sconfiggerlo. Eppure di nemici ne ha moltissimi: a sinistra come a destra e anche al centro. La sua indiscussa capacità oratoria, un trasformismo senza scrupoli unito a una prudenza nei fatti anche se non nelle parole lo hanno reso credibile e sempre “irresponsabile” di ogni problema. Un blocco del 25% degli elettori israeliani gli dà fiducia a priori ed è pronto a votarlo elezione dopo elezione. E il 25% dei voti significa almeno 30 seggi su 120. A questi poi se ne aggiungono facilmente altri raccolti all’ultimo dal gran calderone degli indecisi.

Inutili i tentativi dell’opposizione di attribuirgli responsabilità su crisi a Gaza o in Cisgiordania, su disparità sociali sempre più ampie, sulle concessioni ai partiti religiosi. A trasformarlo in una semplice voce dei libri storia potrebbero provvedere i giudici se il consigliere legale del governo, Avishai Mandelblit, deciderà di farlo incriminare per corruzione, frode e violazione di fiducia. Ma anche in questo caso Netanyahu ha pronta la contromisura: una nuova legge sull’immunità parlamentare, che lo protegga dalle inchieste. Dovrà, però,  farla approvare in fretta prima dell’incriminazione e per questo conta sui suoi futuri e possibili alleati di governo. Ma proprio da destra è uscito l’uomo, che potrebbe fargli saltare il piano, Avigdor Lieberman, un tempo direttore del suo ufficio governativo, poi fedele alleato e aspirante “erede al trono”. Lieberman è stato colui che ha impedito a maggio a Bibi di formare il suo governo spingendolo a nuove elezioni. È colui che ha trovato una nuova chiave per sconfiggere l’invincibile leader, colpirlo da destra sul tema della laicità. Proclamandosi paladino dello stato liberale in un paese dove la modernizzazione è frenata dai partiti religiosi ha fatto breccia. I sondaggi gli danno stabilmente il doppio dei seggi attuali: da cinque a dieci e forse oltre. La matematica dei sondaggi dice che senza Lieberman non si fa un governo di destra né tanto meno di centrosinistra. E lui abilmente si è posizionato al centro riprendendo un tradizionale mantra della politica israeliana: “il governo di unità nazionale”, che tanto piaceva a leader storici come Begin, Shamir e Peres, Ha proposto una coalizione laica tra i partiti Blu e Bianco)di Benny Ganz, il Likud e il suo partito Israele Casa Nostra. La soluzione di Lieberman mira a neutralizzare Netanyahu in una coalizione dove non abbia più la maggioranza e spinga il suo partito a sostituirlo.

Ma la strategia dell’alleanza non è patrimonio solo dell’ex-ministro della Difesa. Anche altri leader israeliani sembrano pensarla allo stesso modo. Lo stesso Ganz dopo aver toccato con mano in aprile l’impossibilità di sostituirsi a Netanyahu sulla poltrona di primo ministro continua a ventilare la possibilità di entrare in coalizione con chi voleva sostituire, ma non riesce a sconfiggere. E il motivo è da ricercarsi nello stesso partito e nella sua incapacità di proporsi come vera alternativa. Le critiche di Blu e Bianco al governo si concentrano sulla difesa del potere giudiziario e le istituzioni di garanzia come l’ufficio del “Controllore dello Stato” a capo del quale BIbi ha da poco messo Matanyahu Englman. Non un giudice come era tradizione bensì un amministratore vicino al partito di maggioranza e che è già al lavoro per indebolire il ruolo di garanzia del suo ufficio e sembra concordi le sue scelte di nascosto col primo ministrro. Occuparsi di questo tema non basta per definire i contenuti di una politica di opposizione come ha scritto Guy Rolnik su The Marker, quotidiano economico edito da Haaretz. Servirebbe avere una soluzione per Gaza, piani per eliminare la dipendenza della politica dai capitali dei gruppi d’interesse, per smantellare i monopoli e ridurre la crescente disuguaglianza economica, spiega Rolnik. A queste mancanze del principale partito di opposizione si aggiunge la sua indisponibilità a legittimare la “Lista Comune Araba” come possibile partner di governo. Oggi i cittadini arabi d’Israele costituiscono il 18% della popolazione (9 milioni di abitanti) e non è possibile escluderli a priori da un governo col pretesto che non accettano l’ebraicità dello stato. Ayman Odeh, a capo della Lista Comune si è dichiarato disponibile a valutare l’ingresso nel governo della sua lista, ma la sua offerta non è stata per ora raccolta. E Bibi ne ha subito approfittato per lanciare lo slogan “O Bibi, o Tibi”, riferendosi ad Ahmed Tibi, rappresentante dell’al più estrema del partito arabo unito. Rinunciare a priori ad un’alleanza con questo partito per l’opposizione significa fare a meno di 10/11 seggi e quindi diminuire, se non azzerare le possibilità di costituire un governo di alternativa.

Il sospetto di voler abbracciare Netanyahu dopo le elezioni alleggia anche sui  laboristi di Amir Perez alleati di Ponte, il partito di Orli Levy Abecassis, figlia di David Levy, noto uomo politico del Likud, più volte ministro degli Esteri. Perez ha dichiarato di voler rafforzare il suo partito prendendo voti a destra e questa scelta unita a una certa ambiguità ha lasciato pensare che proprio i laboristi con 6/8 seggi potrebbero essere dopo le elezioni la stampella ideale per un nuovo governo del Likud. Non una novità per i laburisti storicamente inclini a cadere in tentazione con governi di centrodestra.

L’unico partito, a parte la lista araba, che sembra immune da ogni tentazione di governo è L’Unione Democratica di Nizan Horowitz, Stav Shafir fuoriuscita dai laboristi, Ehud Barak, l’unico che ha sconfitto Netanyahu alle elezioni nel 1999. Questa forza politica dopo una partenza carica di aspettative è accreditata dai sondaggi di  7/8 seggi. È l’unico partito che, per bocca di Ehud Barak, ha presentato delle proposte per risolvere il conflitto con i palestinesi. Il suo piano prevede un accordo di pace regionale che affronti i temi della minaccia iraniana, del terrorismo islamico radicale, di un progetto di sviluppo delle infrastrutture e della questione palestinese secondo il principio dei due stati o comunque di una forma di di separazione tra i due popoli. Il laborista Amir Perez invece si è limitato a dire che appoggerà Netanyahu dall’esterno se quest’ultimo deciderà di aderire al piano Trump, ancora mai presentato.

Tutt’altro che disponibili a restare fuori dalle stanze del potere sono i partiti religiosi, che si rivolgono a un elettorato piuttosto variegato e ricco di sfumature. Fino a pochi anni fa i cosiddetti ortodossi erano rigidi sul clericalismo, ma flessibili sul piano politico. Al contrario, invece, i nazional religiosi erano intransigenti sul concetto della “Grande Israele”, mentre erano più aperti al dialogo con i laici e soprattutto mandavano i loro giovani, maschi e femmine, ad arruolarsi. Oggi, invece, ci sono ortodossi nazionalisti, nazional religiosi semiortodossi, religiosi light, religiosi pacifisti e democratici. Con questi ultimi, però, in netta minoranza. I maggiori pericoli derivano da personaggi come Betzalel Smotric del partito A Destra, capeggiato da una donna laica, Ayelet Shaked. Smotric vorrebbe un paese, dove le uniche leggi fossero quelle bibliche, senza donne nell’esercito e con i territori occupati annessi allo stato d’Israele. Smotric, attualmente al dicastero dei Trasporti, è col suo partito contemporaneamente un alleato e una minaccia per Netanyahu, che non si fida di alleati troppo intraprendenti a destra. A voler salire sul treno del prossimo governo sono in tanti, forse troppi, almeno 100 deputati sui 120, che compongono la Knesset. E anche a voler sostituire Netanyahu sono in molti, soprattutto nel suo stesso partito, ma al momento non sembra ci sia nessuno con il suo carisma e la sua esperienza che lo possa sfidare davvero. E allora tanto vale abbracciarlo.

Gabriele Eschenazi

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Israele, la politica non c’è più Così Netanyahu ha svuotato la contrapposizione destra-sinistra

di ABRAHAM B. YEHOSHUA

La Stampa 8 agosto alle ore 05:26 ·

di ABRAHAM B. YEHOSHUA
Come ho già detto nel mio ultimo articolo nel corso dei miei ottantadue anni, ho assistito a molti eventi politici, tra cui aspri scontri ideologici e manifestazioni turbolente. Molti di quegli scontri erano ovviamente tra rappresentanti della destra e della sinistra, ma anche tra gruppi laici e religiosi.
Ricordo che da ragazzo, nel 1952, l’allora leader della destra Menachem Begin (divenuto in seguito primo ministro di Israele) organizzò una violenta manifestazione a Gerusalemme contro l’accordo per le riparazioni di guerra firmato con la Germania Ovest. Begin esortò a ribellarsi all’accordo e i suoi sostenitori lanciarono pietre contro il parlamento, ubicato all’epoca nel centro di Gerusalemme.
Ricordo bene le manifestazioni di destra e di sinistra del 1974, dopo la guerra dello Yom Kippur, che pretendevano le dimissioni dell’allora primo ministro Golda Meir e del celeberrimo ministro della Difesa Moshe Dayan dopo il fallimento dell’Intelligence e la prova di debolezza data dell’esercito nei primi giorni dell’attacco egiziano e siriano. In seguito a quelle proteste i due leader rassegnarono le dimissioni nonostante il loro partito, il partito laburista, avesse vinto le elezioni poche settimane dopo la fine della guerra.
Libano, 1982
Ricordo le manifestazioni e l’enorme amarezza di molti sostenitori della pace in seguito agli insuccessi della guerra del Libano nel 1982, soprattutto dopo la strage perpetrata dai cristiani con il tacito assenso degli israeliani nei campi profughi di Sabra e Shatila. Durante una di quelle dimostrazioni l’attivista di sinistra Emil Grünzweig rimase ucciso da una granata lanciata da un militante di destra. E in effetti, in seguito a quelle contestazioni, il primo ministro Menachem Begin, divorato dai sensi di colpa, rassegnò le dimissioni e si rinchiuse in casa fino alla morte.
E come non ricordare le violente proteste e le sedizioni della destra contro il governo dopo gli accordi di Oslo firmati nel 1993 alle quali presero parte anche Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, entrambi divenuti in seguito primo ministro? Quelle terribili incitazioni ad opporsi agli accordi di Oslo sfociarono nell’omicidio dell’allora capo del governo Yitzhak Rabin.
Gaza, 2006
Ricordo bene anche le manifestazioni contro Ariel Sharon, primo ministro di Israele durante il ritiro e l’evacuazione dei coloni dalla Striscia di Gaza nel 2006. Contestazioni della destra nazionalista religiosa a detrimento di un primo ministro che era stato lui stesso un estremista di destra ma che, con l’evacuazione degli insediamenti, andava a colpire il Sancta Sanctorum dei conservatori.
Questi e altri eventi, per quanto dolorosi e violenti, erano il risultato di prese di posizioni ideologiche ed etiche. Gli schieramenti che si fronteggiavano si esprimevano con toni forti ma nessuno metteva in dubbio che, dietro l’estremismo, ci fosse una chiara posizione politica che voleva, in base a concezioni diverse, il bene del paese e teneva conto del suo futuro.
Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nessuna soluzione
Il dibattito ideologico è da tempo congelato e si è dissolto. Nel nuovo partito «Blu e bianco», fondato prima delle ultime elezioni, ci sono esponenti indiscutibilmente di destra, come l’ex ministro della Difesa Moshe Ya’alon che ha servito nell’esecutivo di Netanyahu, ma niente serve a risparmiarli dell’appellativo di «sinistroidi» con il quale i sostenitori di Netanyahu li bollano con profondo biasimo e disprezzo.
Nell’Israele di oggi vi è una paralisi ideologica perché nessuno, di fatto, ha una soluzione possibile al problema principale: cercare di raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese. Tutta l’energia politica si disperde perciò in piccole soluzioni localizzate, dirette a cambiare il comportamento di poliziotti e soldati o a fare qualche concessione ai checkpoint.
Fintanto che il dibattito pubblico si è svolto in una specie di palude ideologica e di impasse politico si riusciva ancora mantenere un minimo senso di solidarietà, malgrado il lento processo di apartheid in atto nei territori e il crescente nazionalismo dei religiosi. Ma quando sull’ordinamento istituzionale si è abbattuta la richiesta di incriminazione di Benjamin Netanyahu e il suo astuto tentativo di eludere un processo calpestandole norme dell’attuale regime legale e amministrativo, si è scoperto che dietro un leader di notevole abilità in campo estero, attento a non lanciarsi in avventure militari e politiche e che gestisce con relativo successo l’economia, c’è un uomo corrotto che un apparato legale da lui stesso nominato vorrebbe portare a giudizio. Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi.
Solidarietà addio
Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il Primo Ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico.
Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale.
Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi? — Traduzione di Alessandra Shomroni ®

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Primo Levi e Philip Roth nelle parole di Marco Belpoliti

Storia e storie di un’amicizia fondata sulla stima reciproca, in forma di intervista. Di Micol De Pas – Joimag 31 Luglio 2019

Un incontro speciale, quello tra Primo Levi e Philip Roth. Per lo scrittore americano, Levi era forse l’autore che apprezzava maggiormente, almeno tra quelli non americani. Per Levi, Roth era uno scrittore famoso dall’ineguagliabile capacità di ascoltare gli altri. Anzi, come precisa Marco Belpoliti, quella dell’ascolto era una capacità reciproca, così importante da consentire ai due protagonisti di costruire tra loro un rapporto di quasi fratellanza. Belpoliti ha curato per Einaudi anche il terzo volume delle Opere Complete dello scrittore torinese, che ha come sottotitolo Conversazioni, interviste e dichiarazioni e che contiene anche l’intervista (anzie, le interviste) che Roth fece a Levi. Ne abbiamo parlato con lui.

Come ha lavorato sul carteggio Levi/Roth e quale ruolo ha nella comprensione dell’opera di Primo Levi?

Devo dire che non ho lavorato sul carteggio tra i due scrittori, ma solo sulla intervista che Roth ha fatto a Levi. Ne esistono diverse versioni. Intanto bisogna dire che quando Roth si recò a trovare Levi nel 1986 a Torino non fece nessuna intervista. O meglio; parlarono insieme di molte cose, visitarono la fabbrica di vernici SIVA in cui aveva lavorato Levi (era in pensione da dieci anni), parlarono in casa dello scrittore torinese, andarono a cena insieme. Poi una volta tornato a Londra, come ho raccontato in un lungo articolo su doppiozero, Roth mandò a Levi delle domande in inglese, cui Levi risposte per iscritto. Da quelle domande Roth ricavò l’intervista che pubblicò sulla NYRB. Levi successivamente all’uscita di quella intervista pubblicò in due puntate su “La Stampa” la versione che aveva inviato a Roth e che differiva da quella apparsa nella rivista americana. Poi vi furono altre versioni fatte da Roth con correzione e vari cambiamenti, dal giornale a un primo volume da lui pubblicato (Chiacchiere di bottega, Einaudi, e poi successivamente). La cosa più importante per me è che Roth colse molti aspetti della personalità umana e intellettuale di Levi. Riconobbe in lui un artista.

Quali sono stati gli elementi che hanno permesso la costruzione di un rapporto speciale tra i due scrittori?

La capacità di Roth di ascoltare. Basta leggere le interviste di quel volume, le conversazioni con autori a lui decisamente simpatetici. Quasi tutti ebrei. Levi si sentì ascoltato e compreso come non gli era mai accaduto prima di allora da uno scrittore. Roth era più noto di Levi come scrittore e questo fu per Levi importante. E a Roth Levi apparve come un fratello maggiore. Una sintonia particolare da quello che traspare dal testo di Roth e dalle testimonianze di chi li vide insieme in quel fine settimana.

Quanto si sono reciprocamente influenzati (nello scrivere successivo e anche nel carteggio che si sono scambiati)?

Non credo che ci siano influenze successive. Si trattò di un riconoscersi reciproco. Levi però non ha lasciato nulla di scritto su questo, almeno di pubblicato. Forse esistono lettere che si sono scambiate. Ma di questo non sono al corrente. Bisognerebbe cercare tra le carte di Roth, se sono accessibili. Le carte di Levi non lo sono, per ora.

Levi sottolinea un parallelismo tra Svevo e Roth, in particolare nei personaggi Zeno Cosini e Zuckerman: quali sono gli elementi comuni?

Probabilmente l’aspetto caratteriale. Ma sono personaggi letterari, forse l’aspetto psicoanalitico che per Roth ha avuto un ruolo nella sua narrativa; così anche per Italo Svevo. Levi è estraneo a tutto questo, lui non aveva simpatia per la psicoanalisi. Ha detto in alcune interviste di avere letto Freud, e lo ha anche scritto. Ma non mi pare che questo possa essere un terreno comune tra i due scrittori, Levi e Roth.

Come (e perché) Levi ha definito la propria identità ebraica e il suo ruolo nell’ebraismo italiano?

Levi si è dichiarato italiano per due terzi e ebreo per un terzo, ma questa parte minore era per lui fondamentale. Ma Levi è un laico, non credente, iscritto alla comunità ebraica di Torino. Su questo aspetto del suo rapporto con il “divino” ne ho scritto di recente su Vita & Pensiero, la rivista della Cattolica.

Il suicidio di Levi è mai stato commentato da Roth pubblicamente?

Non mi risulta. Forse in qualche lettera, ma non ne ho alcuna certezza.

E quali sono state le sue reazioni davanti a questa perdita?

Di sconcerto, di dolore. Una perdita irrimediabile, perché avevamo bisogno della intelligenza e della curiosità di Primo Levi. Negli ultimi anni si era interessato ai temi ecologici, oggi di nuovo importantissimi. Ma ci ha lasciato un’opera importante e vasta su cui riflettere.

Lei, da studioso di Levi, come vorrebbe ricordarlo in questo centenario?

Come un uomo di buona memoria. Come uno scrittore. Come un uomo problematico. Come un uomo.

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