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Caro Primo Levi c’è bisogno di te

Cent’anni fa esatti nasceva lo scrittore testimone della Shoah. Il suo sguardo sul mondo e sulla Storia è oggi più che mai necessario

DI MARCO BELPOLITI – Repubblica 31 Luglio 2019

Caro Primo Levi,
l’altra sera sono passato sotto casa sua sperando di incontrarla. Ma era tardi e probabilmente Lei era già rientrato e stava cenando. Perciò mi sono fermato sotto l’ippocastano della sua poesia, Cuore di legno, e ho provato a guardare in su, verso le finestre del suo appartamento. Era tutto spento. Avevo varie domande da porle. Non si preoccupi, non le chiederò, come l’è capitato varie volte nelle scuole dove andava a parlare della sua esperienza nel Lager, perché Lei e i suoi compagni non siete evasi dal campo di Monowitz-Auschwitz. Dopo aver letto e riletto in questi anni Se questo è un uomo mi sembra di aver capito quale sia stato lo shock che ha subìto entrando nel campo, dove non valeva la divisione tra amici e nemici che c’era fuori: lì dentro tutti nemici di tutti.

L’ha spiegato in un libro straordinario e terribile, I sommersi e i salvati, dove ha raccontato con esempi – i Sonderkommando e Chaim Rumkowski – la forza coercitiva del potere, il modo attraverso cui corrompe l’animo umano. Quello che vorrei chiederle è come ha fatto a scrivere al ritorno dalla deportazione, a ventisette anni, che il Lager non era nient’altro che “una gigantesca esperienza biologica sociale”, come ha compreso che i nazisti non volevano solo sterminare milioni di uomini, ma cambiare la definizione stessa di uomo?

Ogni volta che rileggo il suo primo libro mi colpiscono le quattro storie dei salvati che racconta: Schepschel, Alfred L., Elias e Henri. Ma come è riuscito a catturare sulla pagina il loro carattere, la loro volontà di sopravvivere a ogni costo venendo a patti con il potere dei Kapos e delle SS? L’ha forse aiutato il suo mestiere di chimico? In un suo articolo ha scritto di essere diventato chimico per via del naso, per poterlo usare. Che sia stato proprio il fiuto a farle capire gli uomini così bene e a raccontarli in modo così efficace? Vorrei chiederle anche da cosa le deriva quella capacità di spiegare le piccole cose d’uso quotidiano, e di risalire dai dettagli, dalle minuzie, alle questioni generali. Si tratta di un aspetto che scaturisce dal suo carattere? Ha a che fare con la natura schiva che i suoi amici, ad esempio Massimo Mila, le hanno attribuito?

In un suo articolo Mila ha scritto: “Cortese, affabile; ma con quel suo fisico magro, con quella barbetta scattante, con quegli occhietti vivaci, aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma che si lascia avvicinare poco”. Ci si ritrova in questa descrizione? Non so se Lei somiglia davvero a un camoscio, ma a vedere le sue foto in montagna, arrampicato sulle rocce o sui tetti dei rifugi, lei sembra davvero un abitante delle vette. Se riuscissi a bloccarla domani all’uscita dal portone, le domanderei: se il suo primo libro, il resoconto del Lager, avesse avuto successo, avrebbe fatto solo lo scrittore? O non è stato meglio guadagnarsi da vivere come chimico, nonostante la fatica che le è costata passare la sera dalla chimica alla scrittura?

In fondo da quella attività alla Siva (Società industriale vernici e affini), come dalla deportazione ad Auschwitz, Lei ha tratto l’ispirazione per scrivere. Lo so che è difficile rispondermi, ma che scrittore sarebbe stato senza l’esperienza nel campo di sterminio? Collegato a questo c’è un’altra questione su cui vorrei un suo parere: non ha forse dovuto subire per tanto tempo il ruolo di testimone, il fatto di essere il testimone per eccellenza, prima dell’antifascismo e poi dell’Olocausto, lasciando così in secondo piano la sua identità di scrittore? Questo non l’ha limitata nella sua possibilità d’esprimersi come narratore?

Una cosa che mi sorprende sempre è il modo con cui le sembrano parlarle gli animali, cui ha prestato spesso la voce, e anche le piante, le cose, gli oggetti in generale. Ho in mente un suo articolo in cui racconta i marciapiedi di Torino e le gomme da masticare spiccicate sui selciati, le loro qualità organolettiche e cinetiche. Mentre cammina per strada cosa guarda?

L’invidio sinceramente per questa sua capacità di mettere a fuoco cose che gli altri non vedono. Non è forse proprio quest’attenzione che dà forza a ciò che ha scritto sul Lager? E poi l’attenzione rivolta agli oggetti del lavoro, come la chiave a stella, o alle mani, nostro primo strumento? E ancora: come le è venuto in mente di criticare Manzoni per i gesti sbagliati che fa Renzo nei Promessi sposi? Non era Manzoni uno dei suoi maestri insieme al sommo poeta Dante?

Già che ci sono, perché è stata così importante per lei la cultura del liceo classico, non è forse lei più un tecnico che non un umanista? Lo so che ha già risposto molte volte nelle interviste, che non sono poche (ne ho contate oltre trecento, quasi tutte negli ultimi quindici anni), tuttavia Lei ha parlato di sé come un uomo diviso, tra chimica e letteratura, tra identità ebraica e italiana. Perché ha scelto proprio la figura mitologica del Centauro per raccontare la sua natura doppia? Non è il Centauro diviso piuttosto tra natura animale e natura umana?

L’animale-uomo, come lo chiama Lei, è quello che si rivela nel Lager, quando gli sperimentatori nazisti hanno voluto capire “che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo nella lotta per la vita”. Non siamo forse noi tutti anche degli animali, e sempre in lotta, come diceva un altro suo maestro Konrad Lorenz?

Un’ultima cosa. Ho letto la lettera che ha scritto nel novembre del 1945, appena tornato da Auschwitz, ai suoi parenti rifugiatisi in Brasile nel 1938 dopo le leggi razziali, per raccontare quanto le era accaduto. C’è una parte sull’Italia che mi ha molto colpito: “Quanto all’Italia, forse qualcosa già sapete. La parte migliore della nostra generazione (nel Nord: a Sud le cose si sono svolte diversamente) ha partecipato alla resistenza contro i tedeschi e i neofascisti, poi alla guerra partigiana e all’insurrezione dell’aprile ’45.

Com’è d’uso, i migliori sono scomparsi, e a cose finite la scena è stata invasa dall’ambizione e dalla dubbia fede. Le superstiti coscienze integre sono deluse: il fascismo ha dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi ma non è morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina materiale e morale in cui esso ha indotto il popolo. Fa freddo, c’è poco da mangiare, non si lavora; fiorisce il banditismo, e mentre si parla di democrazia sociale, crescono mostruosi nuovi capitalismi nati dal traffico nero: è l’aristocrazia più antisociale”.

Fatte le debite differenze, sembra scritta oggi. Per questo, caro Levi, credo che abbiamo ancora bisogno di Lei del suo sguardo. Proverò a passare di nuovo sotto casa sua nelle prossime settimane nella speranza di intercettarla. Uno come Lei non nasce tante volte in un secolo, e noi siamo stati fortunati ad averla e possiamo continuare a leggerla ancora. Buon centenario!
Suo Marco Belpoliti

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Le Meretz, Barak et Shaffir annoncent une fusion aux prochaines élections

Par Raoul Wootliff et Times of Israel Staff 25 juillet 2019

Le président du Meretz, Nitzan Horowitz, sera à la tête de cette liste électorale de gauche, suivi de Shaffir ; Barak s’empare de la place numéro 10, à son souhait

Le parti de gauche Meretz s’associera à Ehud Barak, ancien Premier ministre, et à Stav Shaffir, qui a récemment quitté le Parti travailliste, dans une course commune pour les élections de septembre, ont annoncé les trois partenaires jeudi matin.

Nitzan Horowitz, dirigeant nouvellement élu du Meretz, figurera en tête de liste, suivi de Shaffir.

En dépit de sa place plutôt basse sur la liste, des sources du Parti démocrate israélien ont confirmé au Times of Israël que Barak aurait la garantie de pouvoir choisir le premier un poste ministériel si l’union, nommée le Camp des démocrates, entrait au gouvernement.

La plupart des dix premières places de la liste – hormis Horowitz, Shaffir et Barak – seront données à des législateurs du Meretz. Les places 7 et 9 seront réservées à des membres du Parti démocrate israélien, qui doivent encore être nommés.

La présidente du parti Gesher, Orly Levy-Abekasis (à gauche), et le président du Parti travailliste, Amir Peretz, ont annoncé leur fusion aux élections de septembre, à Tel Aviv, le 18 juillet 2019. (Roy Alima / Flash90)

Shaffir, étoile montante du Parti travailliste, a critiqué avec véhémence ces derniers jours la décision du dirigeant du parti, Amir Peretz, de former une union avec un parti plus centriste, Gesher, en excluant toute fusion avec Meretz ou Barak. Un communiqué de la liste commune avec le Meretz indique que Shaffir a été une force unificatrice majeure dans les négociations.

La création d’un « ‘Camp démocrate’ est la première étape nécessaire dans la mission visant à remettre l’Etat d’Israël sur la bonne voie », ont déclaré les trois responsables dans un communiqué.

Une course commune évitera une situation dans laquelle les électeurs de gauche auraient été contraints de choisir entre le Parti travailliste, le Meretz et Barak – l’un d’eux serait potentiellement resté sous le seuil électoral de la Knesset, gaspillant ainsi des milliers de voix. Des militants avaient exhorté les partis à unir leurs forces afin de mettre à mal le Premier ministre Benjamin Netanyahu, qui a appelé à de nouvelles élections après avoir échoué à former une coalition en mai dernier.

L’annonce de cette union exercera probablement une certaine pression sur Peretz, qui a été pris pour cible par son camp et la gauche pour sa fusion avec la dirigeante de Gesher, Orly Levy-Abekasis.

Pendant plusieurs jours, Shaffir a critiqué Peretz pour avoir écarté une fusion avec d’autres partis, et laissé entendre qu’elle pourrait quitter le parti.

« Dans la situation actuelle, un parti ou même deux dans notre camp risquent de ne pas dépasser le seuil, a averti Shaffir. C’est tout simplement un danger pour ses précieux sièges que nous ne devons pas nous permettre de prendre. »

Mercredi, Itzik Shmuli, numéro 2 du Parti travailliste, a également critiqué Peretz pour son engagement, mais n’a pas précisé s’il quitterait ou non le parti.

Le Parti travailliste est en déclin depuis près de 20 ans. Son résultat aux dernières élections, où il a obtenu seulement six sièges, est le pire de ses 71 ans d’histoire.

Barak a été le dernier dirigeant travailliste à occuper le poste de Premier ministre, mais il s’est séparé du parti afin de rester dans une coalition avec le Likud de Netanyahu en 2011. Sa 10e place sur la liste remet à nouveau son avenir politique en question, et illustre son déclin politique depuis qu’ont été révélés ses liens avec le financier américain Jeffrey Epstein, accusés d’agressions sexuelles. Choisir lui-même la place de numéro 10 pourrait également calmer ses critiques, selon lesquelles il aurait repris la politique pour satisfaire son ego.

La population israélienne retournera aux urnes le 17 septembre, après l’échec de Netanyahu à former une coalition suite au dernier scrutin d’avril. Les partis de droite et de gauche explorent les possibilités de fusion afin de s’assurer de dépasser le seuil électoral de 3,75 %.

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‘My name is Sara’, la storia di una tredicenne ebrea parla ai ragazzi di oggi

ARIANNA FINOS 23 luglio 2019

Emozionante proiezione al Giffoni Film Festival del film che racconta la storia vera di Sara Goranik, ebrea polacca che, dopo aver visto la famiglia sterminata davanti agli occhi dai nazisti, fuggì in Ucraina e venne nascosta in una fattoria

Tra i film più applauditi in questo Giffoni edizione 49 c’è My name is Sara, storia vera di Sara Goranik, ebrea polacca che a 13 anni, dopo aver visto la famiglia sterminata davanti agli occhi dai nazisti, fuggì in Ucraina dove assunse l’identità di una amica cristiana, trovando ospitalità e lavoro in una fattoria. “La reazione dei giovani giurati al film, le loro domande profonde mi hanno commosso. I giovani sono il futuro, per questo è importante per noi essere qui. Ci sono tanti magnifici film sull’Olocausto ma noi volevamo portare una storia diversa, focalizzarci su nuove sfumature, parlare dei danni collaterali, le storie di chi è fuggito, si è nascosto, si è perso fuori dai campi di concentramento, ma anche il clima di sospetto e il deterioramento dei rapporti umani, qualcosa che per molti versi ricorda il presente”, racconta il regista esordiente Steven Oritt.

“Molti ragazzi si possono immedesimare in questa storia di una giovane che lotta per sopravvivere, possiede un solo vestito e un solo paio di scarpe. Ed è un magnifico esempio di come, se sei forte, puoi sopravvivere a qualunque cosa, come è riuscita a fare Sara”. “Se fosse viva mia madre avrebbe amato il film, avrebbe pensato che la sua storia poteva aiutare gli altri”, dice il produttore Mickey Shapiro, nonché figlio della vera protagonista della storia”. Tra le difficoltà più grandi c’è stata la ricostruzione d’epoca, il film è ambientato tra Polonia e Ucraina “l’autenticità era fondamentale, fin dall’inizio abbiamo coinvolto consulenti storici in Stati Uniti, Polonia, Ucraina. E ci siamo appoggiati alla USC Shoah Foundation (creata da Steven Spielberg ai tempi di Schlinder’s list), che ci ha dato un aiuto prezioso. La prima testimonianza di Sara l’ho vista alla Foundation, ero stupefatto dai dettagli che ricordava in modo vivido, la sua struttura di racconto era già quella di un film. Poi ovviamente il nostro non è un documentario, ci siamo presi libertà narrative pur essendo sostanzialmente fedeli alla storia”.

Molto del film poggia sulla bravura della protagonista, Zuzanna Surowy: “la ricerca dell’attrice è stata imponente. Quando ci siamo incontrati chiesi a Sara ‘come fa una ragazzina di tredici anni a sopravvivere in quelle condizioni?’ Lei mi ha risposto: ‘Ascoltando senza mai parlare’. Ho capito che dovevo cercare un’attrice che potesse calarsi così tanto nel trauma da andare avanti quasi con il pilota automatico, il pensiero fisso alla sopravvivenza. Ho visto una quarantina di attrici in America, erano giuste per età ma non ero convinto. Abbiamo riempito di volantini le città polacche, sono arrivate centinaia di ragazze. Visionando i provini mi sono imbattuto in Zuzanna, ricordo esattamente quel momento perché ho capito subito che era lei”. È andato in Polonia a conoscerla, sapendo che l’esperienza del set sarebbe stata dura: “sono rimasto conquistato: è seria, determinata, disciplinata, e sostenuta da una famiglia piena di amore. Anche se non ci sono campi di concentramento nel film, ho voluto portare Zuzanna ad Auschwitz per comprendere meglio il dramma dell’Olocausto”. La vera Sara non è mai voluta tornare in quel luogo, sarebbe stato troppo doloroso per lei. Ha sofferto a lungo di stress post traumatico, è scomparsa nel 2018, il ricordo più bello lo regala il figlio maggiore: “Prima che si ammalasse di demenza facemmo una serata in onore dei sopravvissuti, vennero Spielberg e tante star di Hollywood. Il sorriso meraviglioso di mia madre, la sua gioia di quel giorno sono l’immagine di lei che mi porto dentro”.

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La difesa postuma di Oriana Fallaci? Un inno al conformismo

di Stefano Jesurum 29giugno 2019

Con le idee che propugnava Oriana Fallaci (riposi in pace) si può essere molto, un po’, per niente d’accordo. Di fronte alla sua scrittura e alla sua professionalità di giornalista e scrittrice ci si deve inchinare e basta. Ma innalzare un peana del suo andare controcorrente a testa alta, del suo sfidare continuamente il conformismo, del suo essere ribelle davanti agli stereotipi correnti si può, se si vuole, anzi in questo caso si deve fare, ma rigorosamente swimming against the current.
Il nuotare controcorrente di skakesperiana memoria messo a incipit del pezzo per commemorare i novant’anni dalla nascita di Oriana dal professor Pasquale Hamel (gli Stati generali del 28/6/2019) suona però come un ossimoro, dal momento che è un monumento ai nuovi luoghi comuni del mainstream odierno.

Bene fece, ad esempio, la scrittrice a non accettare di indossare il velo per intervistare l’ayatollah Khomeini, però da qui a esaltarsi nel 2019 per la definizione di “stupido cencio del Medioevo”, bè, insomma, anche no. Ancora (sempre tenendo ben presente di quanti anni sono passati da quando Fallaci sentenziava “assoluti” che dopo nuove verità acquisite e analizzate più approfonditamente oggi sono per lo meno discutibili): la “rilassante vacuità del politically correct”, “intellettuali della sinistra radical chic che avevano”, dice Hamel, “l’arroganza di pensare che le proprie tesi non potevano essere messe in discussione”.

Non so come si ponga il professor Hamel di fronte alla deriva illiberale imboccata dal nostro paese. Certo è che l’Italia non è più quella conosciuta da Oriana Fallaci. Alla quale spero nessuno vorrà mettere in bocca neo sciocchezze tipo l’aggettivo buonista oppure imprecazioni razziste e fasciste come quelle urlate dal “popolo” di Lampedusa nei confronti della capitana Carola Rackete.

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La rebetsin Perele

Di Stefano Jesurum 4 luglio 2019

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Per chi come me si appassionò a Isaac B. Singer prima che vincesse il Nobel nel 1978, e sull’onda di quella passione intraprese la strada piena di meraviglie della letteratura yiddish, oggi la pubblicazione da parte di Giuntina de La moglie del rabbino di Chaim Grade è stata, giustappunto, l’ultima, ennesima meraviglia. Non soltanto perché la storia si dipana in maniera divertente e insieme profondissima tra intrighi familiari e di shtetl, intrighi che ruotano attorno a una donna di potere, la rebetsin Perele, moglie e madre perennemente delusa e incattivita, personaggio odioso e tuttavia ispiratore per taluni versi di ammirazione. Gradevolissima lettura quindi. Come dicevo, non solamente di evasione però.
Parola dopo parola, gesto dopo gesto, “sentire” dopo “sentire”, nella mirabile traduzione di Anna Linda Callow si coglie la sostanziale differenza (che Callow medesima ben ci spiega e erudisce nella postfazione) tra ultraortodossia chassidica di matrice sostanzialmente polacca (e dintorni) e haredismo (si può dire?, non so, ci provo) lituano. Più semplicemente: manca, anzi è osteggiato e criticato, l’aspetto mistico tanto presente nella più conosciuta letteratura yiddish mitteleuropea. Grade quindi grande cantore di una particolare fetta di Mondo Scomparso, la fetta cresciuta intorno a Vilna, Gerusalemme di Lituania, Yerushalaim de-Lita. Con le dovute differenze legate al passare del tempo, una atmosfera haredi lituana la si trova a B’ne Brak, grande sobborgo satellite di Tel Aviv o in precise zone di Gerusalemme, nulla a che vedere appunto con il chassidico Mea Shearim.
Dice bene Anna Linda quando sostiene che quello di Grade è un libro “che si può leggere in molti modi, non da ultimo per capire qualcosa, da un’angolazione diversa dal solito, di un settore importante e anche molto contestato dell’Israele odierna che, grazie soprattutto al suo sviluppo demografico, sta acquistando un’influenza crescente sulla società”. Il mondo dei grandi rabbini dai molti seguaci, dei giovani che studiano nelle yeshivot, delle dispute roventi su questioni politiche e/o di principio, dei religiosi sionisti e antisionisti, delle lotte per la successione alla guida delle varie comunità…

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Tra gli ortodossi d’Israele che ora dettano legge. E il Mossad li vuole 007

Di Davide Lerner 21 luglio 2019

Cappotto nero, rigidi rituali, sussidi: presto saranno il 30% della popolazione. Sempre più decisivi in politica, invisi ai laici: così cambiano il volto del Paese.

BNEI BRAK (Israele). «Tel Aviv è a dieci minuti da qui ma non ci metto piede, per carità, là le donne vanno in giro mezze nude. Chi si espone a quel mondo lì poi torna in yeshivà e non capisce più niente degli studi religiosi» dice Elad Kuper, ultraortodosso israeliano di 27 anni, passeggiando nell’enclave haredi di Bnei Brak.

Kuper abita con la moglie e i suoi primi tre figli (la media per gli ultraortodossi è di circa sette) in una stanza e mezza affittata in uno stabile sgangherato e circondato di spazzatura, vicino alla sovraffollata arteria di “Rabbi Akiva”. Vive del sussidio della yeshivà, la scuola religiosa, che ammonta a 2.000 shekel al mese (490 euro), in buona parte prelevati direttamente dalle casse dello stato. Studia di notte – «solo col buio si raggiunge la massima concentrazione secondo l’importante rabbino Shimon Bar Yochai» – e durante il giorno aiuta un vecchio per raggranellare qualche altro shekel.

Ma nella comunità ultraortodossa sono piuttosto le mogli che, non “obbligate” a studiare le scritture ininterrottamente, sono autorizzate a fare qualche lavoro: in molte, come la ventiquattrenne Avigail, moglie di Kuper, fanno le maestre a scuola o negli asili part-time. Agli sforzi del governo per cerare di spingere più ultraortodossi a integrarsi nella società “mondana” si è di recente aggiunto niente meno che il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana.

«Abbiamo cominciato ad assumere personale ultraortodosso dopo lunghi percorsi propedeutici specializzati», ha detto il direttore del Mossad Yossi Cohen all’inizio del mese, citando una collaborazione con la Ong Pardes che si pone l’obiettivo di conciliare la vita religiosa degli haredim con quella lavorativa, finanche nel settore della difesa.

Kuper è un caso particolare nella comunità ultraortodossa: è un hoser leteshuva’ (colui che ritorna alla chiamata), cioè ha vissuto da laico fino a circa vent’anni, compreso il servizio militare, prima di scegliere il lungo cappotto nero e il cappello a larghe tese dei religiosi.

Ma per i suoi figli la strada è segnata. Kuper scandisce: «Dai 3 ai 13 anni talmud torah, poi yeshivà fino al matrimonio, che verrà organizzato da un “shachdan” o agente matrimoniale e approvato dai genitori, poi continueranno a studiare al kollel, la scuola religiosa per uomini sposati. Qui le vite sono semplici, è tutto pre-ordinato: non bisogna mai prendere decisioni», dice. «Ovviamente useranno cellulari kasher, che possono fare solo telefonate. E quando a 18 anni arriverà lo “zav rishon”, la chiamata dall’esercito, ci faremo dare un certificato d’esenzione dalla yeshivà», spiega.

Proprio sul risentimento verso i super-religiosi, visti come parassiti che eludono il servizio militare e vivono di sussidi statali da molti israeliani, si sono incagliati i negoziati per formare il quinto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ed è probabile che la stessa impasse si riproponga dopo le nuove elezioni del prossimo settembre: Avigdor Lieberman, che ha impugnato la causa dei laici, ha già detto che non farà sconti per andare in coalizione coi religiosi. E, secondo recenti sondaggi della televisione israeliana, senza Lieberman Netanyahu, ancora una volta, non sarà in grado di formare un governo.

Secondo l’Ocse, entro pochi decenni la componente haredi della società israeliana (attualmente circa un milione) potrebbe raggiungere il 30 per cento della popolazione, con gravi conseguenze su economia e politica del Paese. «È fondamentale che vengano rivisti i curriculum delle scuole haredi inserendo materie più classiche, dalla matematica alle scienze all’inglese, se si vuole favorire la loro integrazione nel mercato del lavoro», ha detto Peter Jarrett dell’Ocse al giornale economico israeliano The Marker. «È una battaglia contro il tempo», ha aggiunto.

C’è anche chi, come il noto scrittore israeliano Yuval Noah Harari, autore del bestseller “Sapiens,” interpreta la questione degli ultra-ortodossi in chiave positiva. In un mondo in cui l’automazione rendesse i mestieri dell’uomo sempre meno utili, teorizza nel suo ultimo libro “21 lezioni per il XXI secolo” (Bompiani editore), le persone godranno di un reddito di cittadinanza e dovranno realizzarsi facendo a meno del lavoro. Ecco allora che gli ultraortodossi, secondo diverse ricerche appagati da una vita fatta di soli rituali, sarebbero un’avanguardia da imitare invece che una zavorra di cui disfarsi, relegandola al passato remoto. Ma, per ora, la preoccupazione principale in Israele rimane quella di come favorire una loro integrazione alla luce del crescente peso demografico ed elettorale.

Al contrario della minoranza araba, anch’essa poco emancipata nella società israeliana, le autorità religiose haredi mandano i propri discepoli a votare come soldati. «Sappiamo che avere peso politico conta parecchio, anche se la nostra società vive separata», spiega Kuper.

Per misurare il peso politico degli ultraortodossi basta prendere in mano le prime pagine goliardicamente distopiche dei giornali “haredi” all’alba dell’ultima consultazione elettorale: “Matrimoni civili in arrivo,” “Trasporti pubblici di Shabbat (sabato) nella maggior parte delle città del Paese,” e ancora “Coscrizione obbligatoria per tutti”. Nessuno di questi scenari, con 16 deputati ultra-ortodossi alla Knesset, si possono realizzare.



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