Stefano Jesurum 27 febbraio 2019
Tutto inizia il 15 maggio 2018 su Rai3, una puntata di “Quante storie”, il bel programma di Corrado Augias che attraverso i libri parla di attualità, politica e cultura. Il cuore della trasmissione è “Autobiografia del Novecento. Storia di una donna che ha attraversato la Storia” (il Saggiatore). L’autrice è Vera Pegna. Per me che sono ignorante una sconosciuta. Effettivamente una lacuna poiché Pegna ha alle spalle un’esistenza abbastanza speciale. Nata ad Alessandria d’Egitto in una famiglia – ci tiene spesso a specificarlo lei stessa – “di origine ebraica” (mai capito che cosa questa definizione, per altro usatissima, significhi), si laurea a Ginevra, milita nel Pci, consigliere comunale a Caccamo, successivamente Comitato Vietnam a Milano. Apprezzata interprete, gira per conferenze in mezzo mondo, Europa, Asia e Africa. Incontra il buddismo, poi il lungo viaggio verso Palermo per conoscere Danilo Dolci, il Gandhi siciliano. E il Pci, appunto, la lotta contro la mafia, l’approdo a Milano, l’impegno contro la guerra in Vietnam, la difesa della causa palestinese sotto il vessillo del laicismo. Quindi Roma, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Karol Wojtyla, moltissimi i personaggi di spicco che incontra. E racconta. Da laica (dice lei).
Già da Augias però il suo “laicismo”, alle mie orecchie, suona qualche nota stonata, tipo l’ossessione che sovente si riscontra in quel campo radicale “difensore” della causa palestinese attraverso la criminalizzazione tout court di Israele – del suo popolo, della sua democrazia, della sua storia, della sua stessa esistenza. Insomma, per intenderci, ciò che ormai viene ufficialmente chiamato con il nome che merita: una forma di antisemitismo secondo la definizione coniata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) e adottata all’unanimità, tra gli altri, dai 28 paesi dell’Unione Europea. Fin qui – come dire? – niente di nuovo sotto il sole per chi, orgogliosamente ebreo e orgogliosamente di sinistra (chi scrive e molti altri), milita da decenni nel campo della pace, per intenderci alla Amos Oz.
Ma è il 18 febbraio di quest’anno che Vera Pegna, a mio avviso, fa un passo in più verso l’obnubilamento (cit. dizionari Corriere.it: Temporaneo ottundimento delle facoltà sensoriali o intellettive). In collegamento con la giornalista Sara Menafra che quel giorno conduce “Prima Pagina” di Rai Radio3 e si occupa dell’aggressione subita 24 ore prima a Parigi da Alain Finkielkraut per mano di un gruppo di Gilet gialli che lo assalgono al grido di «sporco ebreo, sporco sionista, viva la Palestina», Pegna non chiama mai il noto filosofo per nome – cosa che non farà per l’intero collegamento. «Quelle frasi rivolte a un signore anziano… è una cosa che non va bene comunque». E Finkielkraut, va rimarcato, rimane per i quasi sei minuti di sproloquio «un anziano signore». Tutto ciò non è antisemitismo. «Perché oggi il sionismo non è una cosa bella, è una cosa brutta, e si può dire sporco sionista». Ma il secondo passaggio “logico” – aberrante – è che «poiché Israele si vuole Stato ebraico, lo Stato di tutti gli ebrei del mondo, sporco sionismo si può dire, sarebbe come dire sporco Israele». Affermazione, per la signora Pegna, più che legittima evidentemente.
Vabbè, dai!, su Israele se ne sentono tante, sai che novità. Onestamente una “novità” Vera Pegna ce la regala. Quando dice, o meglio chiede, qualcosa che definire vergognoso è poco. «Ciò che vorremmo noi europei è che vorremmo sentire chi si considera ebreo, sempre legittimamente, protestare, condannare Israele per le sue atrocità. Vorremmo sentire gli ebrei fuori da Israele dire “Israele è Israele, è il paese dei suoi cittadini, ma non è il nostro paese”, invece questo purtroppo non viene detto». Una versione 2019 dell’eterno “Davide discolpati!”. Chiedo scusa se sarò lungo: una esegesi di quell’intervento può spiegare ben più di mille saggi su pregiudizio, razzismo, antisemitismo diffusi. E con i tempi che corrono sono profondissimamente convinto che l’ammonimento contenuto nel bellissimo “Il bambino nella neve” di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli) sia vitale, dirimente, imprescindibile: un tempo si portavano nelle miniere i canarini, sensibili ai gas avvertivano quando la catastrofe era imminente; memoria significa essere un canarino in miniera, dare l’allarme quando si sente l’acre odore del razzismo. Perché le parole di Vera Pegna interrogano chi si impegna affinché quell’acre odore di razzismo non infesti definitivamente la nostra quotidianità gialloverde.
Per spiegarmi senza troppi giri di parole, io, per esempio, non mi considero ebreo, io sono ebreo. E così tutti gli ebrei al mondo sono ebrei, non si considerano tali: religiosi e atei, osservanti e laici, di destra e di sinistra, plaudenti o combattenti il governo Netanyahu. Pegna dice «noi europei vorremmo che…». Già, evidentemente il francese Finkielkraut non è europeo, così come non lo è l’italiano Stefano Jesurum. Il pensiero va così ai Treves e ai Sereni, ai fratelli Rosselli e a Primo Levi, a Bassani, ai moltissimi che hanno fatto la nostra cultura, la nostra società, il Risorgimento e la Guerra di Liberazione – da ebrei e da italiani. E non posso non (quasi) commuovermi andando con la memoria al 1988 o giù di lì quando per “l’Europeo” intervistai l’allora ministro degli Esteri del Pci, Giorgio Napolitano, che per la prima volta sentenziò «sionismo non è una parolaccia e sionista non è un insulto». Oggi invece Pegna ci chiede non tanto e non solamente una condanna di Israele in toto (non del governo, bensì dello Stato in sé) quanto una sorta di dissociazione identitaria. Chissà se la signora ricorda l’accusa di dual loyalty, doppia fedeltà cioè infedeltà appioppata agli ebrei durante il fascismo e/o negli anni più cupi dell’URSS – con le ben note conseguenze, lager e gulag. Insiste: «La parola antisemitismo, una parola terribile se legata al passato con tutti quei morti, oggi si è evoluta perché gli ebrei fuori da Israele non condannano Israele». Se la logica ha un senso dunque, se critichi la politica di Gerusalemme non puoi che essere antisionista e quindi non puoi che essere, “giustamente”, antisemita.
Post scriptum. Nell’intero collegamento la conduttrice Sara Menafra (“Messaggero”, “Manifesto”, “Secolo XIX”, “Sole 24 Ore”, attualmente coordinatrice della redazione romana di “Open”), pure lei, non ha mai nominato Alain Finkielkraut. Praticamente non ha aperto bocca, complimenti.
Stefano Jesurum