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Diaspora e Israele – Silenzi, coraggio, paure, conformismo

Stefano Jesurum per Limmud – Firenze, 1° giugno 2014

Israele e Galùt, un rapporto sempre più forte e sempre più complesso. Antisemitismo nella Golà, critica radicale in e a Medinàt Israèl. Il cortocircuito provocato quando quella critica radicale s’infiamma e brucia nella Diaspora dell’antisemitismo. In altre parole: che cosa sta accadendo a noi ebrei diasporici, dilaniati e insieme incatenati da un filo che si fa ogni giorno più stretto a mo’ di cappio? Stiamo per soffocare. E mentre l’ossigeno si rarefà nel cervello e nei cuori, i corpi si agitano come marionette lacerate e impazzite. Quel laccio va dunque spezzato.

            A un capo del cappio c’è il nostro rapporto con Israele, dall’altro il fantasma – europeo, ossessivo, pauroso, mortifico – di un antigiudaismo assolutamente vivo e vegeto. Tutt’intorno, un mondo, ebraico e no, travolto dalla caduta dei valori, “vivificato” da folli (spesso ridicole) fughe verso un successo/potere fatuo, fasullo, costruito su nuove Tavole di un’unica legge, la legge dell’apparenza/apparizione. Ottusamente egocentrici, non siamo capaci di confrontarci. Né “fuori” né “dentro”. Nel mondo ebraico, “dentro”, la variazione dal coro diventa di per se stessa stonatura, quindi rifiutata, demonizzata, temuta, zittita. Criminalizzata. È la solita solfa in questi giorni tanto alla ribalta per il libello di Giulio Meotti Ebrei contro Israele di cui mi scuserete se non parlo reputando sostanza e forma degne semmai di un congresso di patologia clinica. Dissentire uguale tradire, tradire uguale rinnegare. Il dissenso radicale, la critica profonda diventano aree off limits dove relegare i “nemici”, esterni e interni. Arrivando a costituire la categoria forsennata degli “ebrei odiatori di se stessi”.

            Poco, anzi nulla, importa che le medesime idee/voci dissenzienti, le medesime contestazioni profonde risuonino nelle piazze e sui giornali e nelle case d’Israele. Lì e non qui, è un dato di fatto. Lì ma non qui. Associazioni, singoli individui, giovani e anziani, uomini e donne, israeliani che, mutuando il Grossman di A un cerbiatto somiglia il mio amore, ti abitui a guardare negli occhi per scoprire che «in quasi tutti vi è una possibilità celata: quella di essere un assassino, o una vittima. O di solito entrambe». Noi, invece, camminiamo dritti per la nostra strada, al caldo delle nostre esistenze, immuni, pronti a bollare di abominio chi azzardi che «le tendenze fasciste israeliane sono contraddistinte da una serie di elementi», e giù circostanziati elenchi, a volte interi volumi come nel caso di Politicidio (Fazi Editore), dove Baruch Kimmerling mette in guardia il proprio Paese da ciò che, a lungo termine, ritiene essere un harakiri politico. Solo che Kimmerling è docente all’Università ebraica di Gerusalemme e a Toronto. Lui può.

            Una sera, anni fa, presentando a Torino il mio Israele, nonostante tutto, mentre ascoltavo i deliri della rappresentante di un gruppetto autoproclamatosi “ebrei contro l’occupazione” che sbraitava insulti anti Israele definendolo Stato fascista, ho capito che c’era un problema. Mi si accapponava la pelle: sarà stato per la violenza e l’astio espressi da quella donna?, per la sua palese ignoranza?, per l’insopportabile unilateralità dell’argomentare?, per la totale chiusura verso qualsiasi dialogo? Eppure le tesi di Kimmerling non mi erano apparse marziane. Non che le condividessi in toto, ma insomma… certamente facevano riflettere.

            E noi andiamo avanti, pronti a guardare, inerti, le nostre già fragili Comunità spaccarsi tra “buoni” e “cattivi”, tra chi considera inquietanti personaggi “gli unici, veri amici d’Israele” e chi invece li reputa “veicolatori di odio”. Non ci si capisce più. Le parole sono usate come spade, e ha ragione David Meghnagi quando denuncia il linguaggio di odio usato da una certa propaganda antisraeliana in quanto filopalestinese. Però non ha torto neppure Saree Makdisi (nato a Washington, cresciuto a Beirut, professore alla University of California, Los Angeles) quando in Palestina borderline (Isbn Edizioni) scrive: «Se la barriera che Israele sta costruendo in Cisgiordania è definita “muro” o “recinzione”; se le unità abitative israeliane nei Territori occupati sono descritte come “quartieri”, “insediamenti” o “colonie”; se diverse personalità o movimenti sono designati come “moderati” o “estremisti”; se la violenza contro i civili viene considerata “terrorismo” o “danno collaterale”: tutte queste definizioni sono sia linguistiche che politiche. Una semplice scelta lessicale esprime e soprattutto genera effetti politici. Lingua e politica sono inscindibili nel conflitto israelo-palestinese ed è praticamente impossibile capire quel che sta accadendo senza prestare particolare attenzione a come viene usato il linguaggio».

            Consideriamo, considero,  “pericoloso nemico” chiunque paragoni Israele al Sud Africa che teneva in carcere Nelson Mandela. Ci dà fastidio e ci intimorisce, fino a evocare il fantasma per antonomasia, il tabù: l’antisemitismo. Tuttavia Eyal Weizman, giovane israeliano già direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College dell’Università di Londra, argomenta in Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori Editore) che «la logica della “divisione” (o, per usare il più noto termine afrikaans, apartheid) all’interno dei Territori occupati è stata estesa, su base nazionale, fino a diventare “separazione”. In alcuni momenti la politica della divisione/separazione è stata presentata come una formula per la soluzione pacifica del conflitto, in altri come un dispositivo burocratico per la governabilità del territorio, e in seguito come mezzo imposto unilateralmente per la dominazione, l’oppressione e la frammentazione del popolo palestinese e della sua terra». Ma noi, se sentiamo semplicemente nominare la parola apartheid, scattiamo per l’orrore. Quanta malafede in chi pronuncia quel termine odioso! E quanta pericolosa demente ignoranza in quegli slogan urlati nei cortei con voci strozzate dalla cieca rabbia: difficile non ri-andare con la mente e con il cuore ai periodi terribili della discriminazione, della persecuzione, della Shoà.

            Tempo fa, seduto al tavolino di un bar insieme ad Aaron Shabtai… Il poeta chiacchiera con me che, allibito e visibilmente seccato, finisco col dirgli: «Parli di Israele come se ci fosse una dittatura alla Mussolini!». Lui, tranquillo: «Non è esattamente la stessa cosa, ma quasi». Chiama Abraham B. Yehoshua, Amos Oz e David Grossman sinistra soft, «foglie di fico parte integrante del sistema». Poi declama: «Se mi chiedete, / di dare la caccia a un ragazzo / a 150 metri di distanza / con un fucile a canocchiale, / Se mi chiedete di sedermi in un tank e / dalle altezze della moralità ebraica, / fare penetrare un obice / nella finestra di una casa (…) / risponderò con fermezza: / Signor Primo Ministro, / Onorevole Generale, / Sua Eccellenza Deputato, / Sua Santità il Rabbino, / Baciatemi il culo!». Per molto meno, a casa di amici, potremmo venire alle mani con l’ospite “non-proprio-antisemita-ma-quasi”.

            Spesso mi sono domandato se queste reazioni differenti di fronte a critiche e dissensi identici non nascondessero semplicemente paura. Brutalmente: se lo dicono loro che sono israeliani io posso stare tranquillo, perfino – a volte – assentire; se lo dicono italiani, francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, ebrei o no che siano, allora è diverso, penso alle scritte sui muri, ai cori da stadio, alle svastiche per strada… Inconscio & Paura, forse. O forse banale vigliaccheria (intellettuale). Disquisendo di Filastin al-Muhtalla (Palestina occupata) ci vogliono infatti molto, molto coraggio e sangue freddo per ricordare cosa telegrafarono a fine Ottocento alcuni rabbini viennesi mandati da un comitato sionista a dare un’occhiata alla Terra dei padri: «La sposa è bella, ma è sposata a un altro uomo».

            Ed è su questo “matrimonio” indiscutibile, è sulla paura e sulla speranza, è sulla realtà nei confronti della quale non è consentito “fare sconti” che il giornalista israeliano Ari Shavit ha messo nero su bianco quello che per me è un punto a questi ragionamenti. Un libro che s’intitola La mia terra promessa (Sperlung&Kupfer). Ari ha 57 anni, e dice: «Da quando ho memoria, ricordo la paura. Una paura esistenziale. L’Israele in cui sono cresciuto, quello della metà degli anni Sessanta, era un Paese vitale, esuberante e pieno di speranza, ma avevo la costante sensazione che al di là delle belle case e dei giardini ben curati dell’alta borghesia della mia città natale si agitasse un oceano minaccioso. Temevo che un giorno quell’oceano sarebbe esondato e ci avrebbe sommersi tutti». Ari è nato nel 1957: «Da quando ho memoria, ricordo l’occupazione. Solo una settimana dopo aver chiesto a mio padre se i Paesi arabi avrebbero conquistato Israele, fu Israele a impadronirsi dei territori della Cisgiordania e di Gaza, abitati dagli arabi». Così oggi può scrivere la sua verità: «Solo qualche anno fa mi è divenuto improvvisamente chiaro che le mie paure riguardo al futuro del mio Paese e lo sdegno che provo per le politiche israeliane di occupazione e di intimidazione non sono slegate. Da una parte, Israele è l’unica nazione occidentale che occupa il territorio di un altro popolo; dall’altra, è anche l’unico Stato occidentale la cui stessa esistenza sia minacciata. Minaccia e occupazione, infatti, sono le colonne portanti della nostra esistenza». Il suo è un libro – come ha scritto Dwight Garner sul New York Times – sionista senza i paraocchi del sionismo. Ari Shavit è nato a Rehovot in una famiglia di quelle che hanno creduto a Theodor Herzl, è editorialista di Haaretz, ha servito l’esercito nei territori occupati come paracadutista, è stato poi attivista del movimento pacifista, e ha quindi deciso di sfidare progressivamente i dogmi della destra e della sinistra. Ari racconta insomma l’odissea privata di un israeliano disorientato dal dramma storico che sta inghiottendo la sua patria. Un racconto – come dicevo – senza sconti. Esiste un segreto oscuro, una sorta di peccato originale che affronta di continuo: «La nazione in cui sono nato ha cancellato la Palestina dalla faccia della terra». Eppure: «Se necessario, starò dalla parte dei dannati. Perché so che se non fosse stato per loro, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Se non fosse stato per loro, io non sarei nato. Hanno fatto lo sporco e turpe lavoro che consente al mio popolo, a me e ai miei figli di vivere». Ancora: «Mi chiedo per quanto tempo potremo mantenere la nostra miracolosa storia di sopravvivenza. Ancora una generazione? Due? Tre? Alla fine, la mano che tiene la spada dovrà allentare la presa. Alla fine la spada stessa si arrugginirà. Nessuna nazione può affrontare il mondo che la circonda per più di cento anni con una lancia sguainata».

            Suggestioni che risuonano anche nell’indefessa opera del nostro Bruno Segre alla ricerca di una Verità con la V maiuscola che lui stesso sa bene non esistere. Basta leggere il suo ultimo libro, Israele, la paura, la speranza (Wingsbert House) per rendersene conto. «Erano profonde le emozioni che HaTikvah, l’inno del movimento sionista divenuto più tardi l’inno nazionale israeliano, suscitava in me da ragazzo. Ricordo, peraltro, che nell’ascoltarlo trovavo bizzarro, quasi inspiegabile il contrasto tra il messaggio forte e felice del testo (“non è ancora persa la nostra speranza, la speranza due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme”) e le suggestioni malinconiche, dolenti, afflitte della musica, armonizzata in modalità minore (…) Poi, nei decenni successivi, mentre seguivo con partecipazione le vicende politiche e culturali di Israele e del Medio Oriente, mi sono reso conto che nella cultura politica coagulatasi attorno al progetto sionista erano presenti ab origine, e ancora oggi continuano a fronteggiarsi, due linee di pensiero e di azione ben distinte. Una di esse fa leva prevalentemente sulla speranza, l’altra sulla paura. E date le circostanze difficilissime in cui lo Stato d’Israele nacque ed è vissuto per oltre sessant’anni, entrambe tali tendenze presentano più d’una plausibile giustificazione, avendo ciascuna al proprio attivo realizzazioni e sconfitte».

            Mentre noi continuiamo a tacere imbarazzati di fronte alle accuse dei soldati di Break the Silence, sulle azioni compiute a Gaza durante l’Operazione Piombo fuso. Il nostro mutismo ci chiude lo stomaco e forse ci annebbia la vista. Poi andiamo a vedere la rassegna del cinema israeliano, guardiamo ammutoliti The Gatekeepers, di Dror Moreh, documentario costruito attorno alle interviste a sei capi dello Shabak o Shin Bet che dir si voglia, e piangiamo. Lacrime di orgoglio per un Paese il cui ministero della Cultura finanzia una pellicola così cruda. Lacrime di dolore per un Paese che si è ridotto così. Lacrime di amore e rabbia perché sappiamo che l’ammonimento di Abraham B. Yehoshua è sacrosanto: «Il comportamento da noi adottato nei confronti del nemico non resta al di fuori di Israele ma filtra al suo interno. La violazione di norme etiche nei rapporti con i palestinesi sotto occupazione àltera e stravolge quelle stesse norme anche in Israele, nei rapporti fra i suoi cittadini».

            Però io mi ostino a non “dover scegliere”. Faccio mia la lezione di Theodor W. Adorno, secondo cui la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, bensì proprio nel sottrarsi a questa scelta prescritta. Non scelgo e intanto sfoglio le immagini di Atto di Stato (Bruno Mondadori Editore). Ariella Azoulay dirige la Camera obscura school of art di Tel Aviv e insegna all’Università Bar Ilan, ha selezionato oltre 700 fotografie scattate negli anni da una settantina di fotoreporter per lo più israeliani. Una sorta di archivio storico dell’Occupazione. Uno dei tanti.

            Allora che fare? Ognuno faccia la propria parte. Dice Avraham Burg in Sconfiggere Hitler – Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (Neri Pozza Editore) che «dobbiamo guardarci in faccia, combattere e annientare un nuovo razzismo ebraico che sta sorgendo dentro di noi, che ci sta per corrodere. Un nuovo ebraismo israeliano che è molto lontano da tutto quello che conosco e di cui è impregnata la mia cultura familiare».

            Eccolo, di nuovo, il cortocircuito. Lo J’accuse straziante lanciato da una fetta importante di Israele in nome, a ben vedere, dei valori della Diaspora. Un grido che nella Diaspora è problematico riprendere, se non al prezzo di passare per anti-israeliani. Buffo, no? No, non è buffo, è tragico.

            Chiedendo perdono a rav Jonathan Sacks perché uso le sue parole totalmente fuori contesto, concludo questo mio lungo e forse un poco contorto ragionamento mediando, appunto, rav Sacks sul rashà, il figlio ribelle della Haggadà di Pesach. «L’ebraismo è essere in comune. Questo è il principio che il bimbo ribelle nega. L’ebraismo si indirizza agli individui. E nemmeno si indirizza all’umanità intera. Dio ha scelto un popolo, una nazione, e al Monte Sinai gli ha chiesto di promettere fedeltà, non solo a lui, ma anche a se stessi fra di loro. Emunà, parola chiave normalmente tradotta come “fede’”, più propriamente indica lealtà – a Dio, ma anche al popolo che Egli ha scelto come portatore della Sua missione, testimone della Sua presenza. È vero, a volte gli ebrei sono esasperanti. Rashi, nel suo commento all’incarico che Mosè fa al suo successore Giosuè, scrive che egli gli disse: “Sappi che loro [ il popolo che stai per condurre ] sono importuni e contenziosi”. Ma gli ha anche detto: “Tu sei fortunato perché avrai il privilegio di condurre il popolo di Dio in persona.” In questa idea fondamentale esiste una misura di speranza. Certo, oggi non tutti gli ebrei seguono la legge ebraica. Ma molti che non la seguono, si identificano comunque con Israele ed il popolo ebraico. Perorano la sua causa. Sostengono le sue cause. Quando Israele soffre anche loro sentono dolore. Sono implicati nel destino del popolo. Sanno fin troppo bene che “Israele oggi è perseguitato e oppresso, odiato, tormentato e sopraffatto da afflizioni”, ma non voltano le spalle. Possono non essere osservanti, ma sono leali – e la lealtà è una parte essenziale (anche se solo una parte) di ciò che è la fede ebraica. Quindi, dal negativo possiamo arrivare al positivo: che un ebreo che non dice “voi” quando Israele viene attaccato, ma “noi”, ha fatto un’affermazione fondamentale – di essere parte di un popolo, condividendo le sue responsabilità, identificandosi nelle sue speranze e timori, celebrazioni e tristezze. Questo è il patto, ed ancora oggi ci chiama all’appello».

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Israele, oggi. Incontro con Yair Auron

Introduce Bruno Segre, Coordina Gabriele Eschenazi

Lunedì 16 gennaio 2017 Centro Artistico Alik Cavaliere

Yair ovvero, in ebraico, “che dà la luce”. E le parole del professor Yair Auron certamente illuminano, anche se ciò che riflettono porta con sé la cupezza e l’oscurità del pessimismo più assoluto. Auron è a Milano per intervenire oggi alla bella iniziativa che Gabriele Nissim e la sua Gariwo (La Foresta dei Giusti) organizza al Teatro Parenti con lo scopo di creare le premesse per l’elaborazione di una Carta dei valori intorno ad alcune tematiche morali del nostro tempo. Ieri sera Yair ha incontrato Sinistra per Israele per raccontare ciò che secondo lui è la realtà attuale del suo paese e del Conflitto con la C maiuscola, vale a dire quello con i palestinesi.

Cominciamo col dire chi è: storico e accademico specializzato in studi su Shoah, genocidi, razzismo, ha insegnato in università israeliane e statunitensi ed è stato negli anni Settanta direttore dell’Education Department di Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme. Un uomo che – alla vista – rispecchia appieno le più romantiche reminiscenze dei pionieri. Viso segnato dal sole e dalle battaglie, abbigliamento e portamento rozzamente raffinati, eloquio appassionato, duro, molto duro, forse troppo per le nostre orecchie. Storia personale da manuale sionista d’altri tempi. «Sono cresciuto in una famiglia sionista socialista polacca legata all’Hashomer Hatzair. Mio padre emigrò in Palestina negli anni Trenta e l’intera sua famiglia fu sterminata dai nazisti… di questo non mi parlò mai, ricordo che andavamo a visitare lo Yad Vashem e lui non mi diceva nulla. Ho vissuto in kibbutz, sono stato nell’esercito, paracadutista, ho combattuto, ho partecipato alla conquista di Gerusalemme. Ho sofferto di un trauma post bellico perché il mio amico del cuore, il mio amico d’infanzia, è morto in battaglia». Non c’è dunque da stupirsi se Yair e famiglia abitano da tempo a Nevé Shalom / Wahat al-Salam (Oasi di Pace), un villaggio cooperativo dove convivono ebrei e palestinesi israeliani, una settantina di famiglie e una discreta richiesta di nuove entrate che per ora sono ferme per mancanza di terra.

Il tema principale dei suoi studi, l’ossessione di Auron è il genocidio, o meglio i genocidi. Da anni infatti si batte per il riconoscimento da parte di Israele e del mondo del genocidio armeno. Ed è dal genocidio che parte per (quasi) ogni sua riflessione. Iniziando dalla constatazione che troppo a lungo è durato il silenzio su quello e che a tutt’oggi solamente ventisei nazioni lo riconoscono. Continuando con la constatazione che il genocidio curdo, per esempio, così come altri hanno avuto la medesima sorte.

Ma che cosa c’entra con lo Stato di Israele oggi? «C’entra. La catastrofe israeliana consiste nel fatto che è in corso una tragedia. Una tragedia per gli ebrei, per i palestinesi, per l’umanità». E spiega che «se neghiamo il genocidio armeno noi tradiamo il genocidio ebraico». Continua: «In Israele, purtroppo, non studiamo i genocidi da un punto di vista comparativo, ma insegniamo soltanto il genocidio ebraico, la Shoah. Non insegniamo gli altri genocidi, né nei licei, né nelle università. Una situazione inaccettabile sia dal punto di vista morale che da quello accademico. Per molti anni abbiamo sviluppato la filosofia dell’unicità ed esclusività della Shoah. Io non lo accetto. La Shoah non è una categoria unica, come se ci fosse un concetto chiamato Olocausto e un altro concetto chiamato genocidio. Penso invece che la Shoah debba essere studiata nel quadro degli studi comparati sui genocidi. In questo quadro dobbiamo esaminare gli elementi comuni tra gli atti di genocidio e comprendere che cosa distingue l’Olocausto dagli altri. Certo, ci sono caratteristiche uniche come le camere a gas, tuttavia le teorie razziste sono molteplici, e in ogni atto di genocidio si sono sviluppate in vari gradi di sofisticazione. Le teorie razziste contro gli ebrei erano molto ben sviluppate e scientifiche. Un’altra caratteristica unica dell’Olocausto è il fatto che i tedeschi volevano uccidere gli ebrei ovunque ne avessero potuti trovare. La loro missione era uccidere tutti gli ebrei in Europa. Avevano nel mirino anche gli ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente».

Yair segue un suo demone che palesemente lo divora. «Dico questo perché sono un essere umano e un ebreo, e inoltre perché il genocidio ebraico ha una rilevanza per l’umanità e non solo per il popolo ebraico. Noi siamo portati a sminuire l’importanza della Shoah guardando a essa in maniera particolaristica. Invece noi in quanto vittime – ebrei, armeni, tutsi e purtroppo altri – abbiamo molto in comune. Gli atti di genocidio ai quali siamo sopravvissuti ci rendono fratelli, nel senso più profondo del termine».

Ed ecco che una platea come quella di Sinistra per Israele, pur preparata e assai critica nei confronti delle politiche della destra israeliana al governo, ammutolisce… «Sì, noi tradiamo il genocidio ebraico», quasi urla Yair Auron, «il nostro è un fallimento morale, lo stesso fallimento morale che riguarda anche i palestinesi». Perché, secondo l’uomo del kibbutz e di  Nevé Shalom / Wahat al-Salam, il genocidio non è passato, ma presente e futuro. È dal 2012 che noi sappiamo del Darfur e non facciamo niente. Noi non facciamo nulla contro i crimini di guerra e i delitti contro l’umanità di cui siamo testimoni quotidianamente. «Noi israeliani e voi italiani vendiamo armi alle fazioni in guerra nel Sud Sudan…».

Ecco che il fantasma viene evocato. «La nostra occupazione di territori palestinesi dura da cinquant’anni, è la più lunga occupazione da parte di una società democratica. Noi siamo malati. È malata la leadership politica, però lo è anche la società civile. Noi siamo malati perché occupiamo, i palestinesi sono malati perché sono occupati. Per questo un uomo con la mia storia adesso si dice a-sionista. Abbiamo il nostro Stato, uno Stato forte. Nessuno può distruggere Israele, però possiamo essere sconfitti dal terrorismo. Loro e noi ci stiamo distruggendo. E la responsabilità maggiore è di chi è più forte, cioè noi. Siamo noi che dobbiamo impegnarci per arrivare all’unica soluzione possibile, due Stati per due popoli». Lo dice uno che fece la propria tesi di laurea sulla possibilità di uno Stato binazionale, la posizione che molti anni fa aveva il sionismo socialista. Adesso Yair accusa di fascismo alcuni ministri del governo Netanyahu, pare non avere speranze, appare catastrofista e – diciamolo – un po’ accecato dalla propria esperienza. Ma alla fine si addolcisce un pochino. «Voi guardate il nostro conflitto come se foste al cinema… mi scuso di aver detto cose che forse vi hanno fatto male… è quello che sento, che penso. Io dico sempre ai miei figli di andare a vivere dove pensano di trovare un po’ di felicità… a Tel Aviv, a Milano, a Parigi… o di rimanere a  Nevé Shalom / Wahat al-Salam. Io lì rimarrò per sempre, anche perché c’è uno dei cimiteri più belli del paese». E finalmente sorride. Yair, “che dà la luce”. La luce della speranza non si spegne nei suoi occhi azzurri. Anche se è una luce che illumina tragedie, errori, paure, fantasmi, orrori.

Stefano Jesurum 17 gennaio 2017

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Israele, la paura, la speranza. Dal progetto sionista al sionismo realizzato

Bruno Segre

Questo libro raccoglie una scelta di scritti di Bruno Segre composti fra il 1970 e il 2013. Il lungo arco temporale e la lucidità di analisi offrono al lettore una testimonianza preziosa di cambiamenti radicali intervenuti nel corso degli anni nella “multicultura” degli israeliani, nei rapporti tra Israele e la diaspora ebraica (in particolare la grande diaspora nordamericana) e tra Israele e il mondo.

Andrea Ruini : «Mentre seguivo con partecipazione le vicende politiche e culturali di Israele e del Medio Oriente, mi sono reso conto che nella cultura politica coagulatesi attorno al progetto sionista erano presenti ab origine, e ancora oggi continuano a fronteggiarsi, due linee di pensiero e di azione ben distinte. Una di esse fa leva prevalentemente sulla speranza, l’altra sulla paura. Israele riuscirà ad assicurarsi un futuro soltanto se saprà mettere la sordina alla paura e restituire voce e dignità alla speranza». Il volume raccoglie una scelta di scritti di Bruno Segre composti fra il 1970 e il 2013. Il lungo arco temporale e la lucidità di analisi dell’autore offrono al lettore una testimonianza preziosa dei cambiamenti radicali intervenuti nel corso degli anni nella “multi-cultura” degli israeliani, nei rapporti tra Israele e la diaspora ebraica (in particolare la grande diaspora nordamericana) e tra Israele e il mondo.

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Israele nonostante tutto

Stefano Jesurum

È portandosi dietro il bagaglio della sua personale memoria di ebreo occidentale, e di quella collettiva degli ebrei della Diaspora, che Stefano Jesurum, giornalista del Corriere della Sera e appassionato, più ancora che esperto, di questioni mediorientali, parte per Israele. Testimone profondamente partecipe, in questo “diario di viaggio” l’autore ci conduce in un mondo del quale sappiamo assai poco e sul quale abbiamo non di rado idee schematiche e preconcette. Di quel mondo ci aiuta a scoprire le mille, insospettate sfaccettature, riuscendo a farcene percepire i colori, i suoni, gli odori: dai sobborghi arabi di Gerusalemme al deserto del Neghev, dai quartieri-formicai degli ultraortodossi ai kibbutzìm dove resistono gli ultimi eredi dei pionieri che trasformarono in giardini la sabbia e le rocce.

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Israele: visita Salvini e pericolose alleanze con destra europea

18 Gen 2019 – Giorgio Gomel

La visita del ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini in Israele nello scorso dicembre ha indotto un numero rilevante di ebrei italiani, sia residenti in Italia che immigrati di lunga data in Israele, ad assumere una posizione ferma, resa pubblica in un documento, su un tema più generale che concerne i rapporti del governo di Israele con partiti e movimenti di destra in Europa e nel mondo. Dall’Austria alla Polonia, dall’Ungheria al Brasile, l’appoggio, pur strumentale e provvisorio, di partiti di destra ‘inquinati’ dall’antisemitismo ma ostili all’Islam è una seduttiva lusinga. Per il popolo d’Israele e per gli ebrei di tutto il mondo si tratta però di un’illusione autodistruttiva.

La simpatia di Netanyahu per la destra anti-europeista
Il governo di Israele persegue i propri interessi politici; fra questi è manifesto il proposito di volere dividere e disarticolare l’Ue circa le posizioni che essa assume sul conflitto israelo-palestinese e sui rapporti con l’Iran ‘corteggiando’ i Paesi del gruppo di Visegrad e altri retti da governi nazional-populisti come l’Austria e l’Italia. Ma vi è anche un’affinità elettiva sul piano ideologico fra il partito di Netanyahu e alcuni di questi movimenti che esaltano l’identità etnica, il rifiuto degli immigrati, l’intolleranza del diverso.

L’attrazione per tali movimenti nazionalisti e anti-europei è però autodistruttiva per Israele: l’Europa resta il primo partner commerciale e il principale finanziatore nel settore della ricerca per università e imprese israeliane. Un’Europa attraversata da nazionalismi e dominata dal Fronte nazionale di Le Pen, da Fidesz di Orban e dalla Lega di Salvini non sarebbe di certo benefica per Israele.

La distorsione della memoria dell’Olocausto
Anche sulla banalizzazione della memoria della Shoah e sulla negazione delle nefaste forme di collaborazionismo di alcuni Paesi europei con la macchina genocida del nazismo vi è oggi un atteggiamento ambiguo di Israele che, alla ricerca di alleanze con alcuni di quei Paesi, cede a lusinghe revisioniste. Clamorosi negli ultimi mesi a questo proposito i contrasti fra l’istituto di ricerca israeliano Yad Vashem e il governo Netanyahu circa gli atti assolutori di quest’ultimo nei confronti di Polonia e Ungheria.

Gli storici di Yad Vashem hanno condannato il documento congiunto firmato da Netanyahu e dal primo ministro polacco Mateusz Morawiecki in quanto contiene “gravi errori e distorsioni” circa gli atti di cittadini polacchi collaborazionisti con i nazisti e, per simili motivi, il progettato Museo di Budapest che esonera del tutto il regime fascista di Horthy dalle sue colpe nello sterminio degli ebrei ungheresi.

Il presidente israeliano Reuven Rivlin, in forte dissenso con gli atti del governo, ha affermato in una recente intervista che “il neofascismo è assolutamente incompatibile con i principi e i valori che sono i fondamenti dello Stato di Israele”. Il fatto che il presidente d’Israele dica ai movimenti neo fascisti “siete persona non grata nello Stato d’Israele” è un’affermazione che combatte in maniera concreta l’antisemitismo.”

L’imperativo etico per gli ebrei di schierarsi contro le discriminazioni
Molto netto è stato anche il presidente della Conferenza dei Rabbini europei Pinchas Goldschmidt, che in un’audizione al Parlamento israeliano ha chiesto a Israele di interrompere le relazioni con partiti di estrema destra in Europa, indipendentemente dalle posizioni che essi assumono sullo Stato ebraico. Ha aggiunto che “Se un partito è razzista, ostile a segmenti rilevanti della società e intollerante rispetto alle minoranze, gli ebrei, pur non essendo oggetto di violenza oggi, lo saranno in un prossimo futuro.”

Per la difesa del futuro degli ebrei è più efficace combattere il razzismo e le discriminazioni rivolte oggi contro altri soggetti deboli o emarginati, non solo in virtù dei valori universalistici dell’ebraismo e dell’imperativo etico che viene dall’essere ebrei testimoni e portatori primigeni della memoria della persecuzione, ma anche perché vi è un interesse oggettivo degli ebrei nel lottare contro forme di intolleranza. Anche se queste forme di intolleranza non li colpiscono direttamente e immediatamente. Ed è interesse degli ebrei anche vivere in società plurali e aperte, in cui le identità, soprattutto di minoranza, siano riconosciute come legittime e rispettate. Ne è una prova la travagliata storia degli ebrei, in cui troppe volte razzismo, esclusione sociale e discriminazione religiosa si sono riflessi in odio anti-ebraico.

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Enzo Sereni

Enzo Sereni (Roma17 aprile1905 – Campo di concentramento di Dachau18 novembre1944) è stato un attivistapartigianoscrittore, sionista italiano, cofondatore del kibbutzGivat Brenner, letterato, sostenitore della coesistenza tra ebrei e arabi. Combattente della Resistenza, fu paracadutato nell’Italia occupata dai Nazisti durante la seconda guerra mondiale; catturato dai tedeschi, fu successivamente ucciso nel campo di concentramento di Dachau.

Biografia : Nato a Roma, i genitori Samuele Sereni e Alfonsa Pontecorvo erano esponenti dell’alta borghesia ebraica romana. Suo padre era il medico del Re d’Italia, suo zio Angelo presidente della comunità ebraica romana. Enzo era il secondo di tre fratelli: il primo, Enrico, uno scienziato legato ai movimenti antifascisti di “Giustizia e Libertà” e morto suicida in giovane età, il terzo Emilio, senatore della Repubblica italiana, partigiano e militante comunista. Le vicende della famiglia Sereni sono rievocate nel romanzo Il gioco dei regni di Clara Sereni (Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1993), terzogenita di Emilio.

Sereni era diventato sionista da ragazzo, e fu uno dei primi sionisti italiani.[1] Sereni sposò Ada Ascarelli, anch’essa di famiglia ebraica benestante, a Roma, dove nacque la primogenita Hana. Dopo avere conseguito la laurea all’Università di Roma, fece aliyah verso il Mandato britannico della Palestina nel 1927. Lavorò nell’aranceto a Rehovot e prestò aiuto a costruire il kibbutz di Givat Brenner dove nacquero la secondogenita Hagar e il terzo figlio Daniel. Già un entusiasta socialista, Sereni fu anche attivo nel sindacato dell’Histadrut. Era un pacifista che sostenne la co-esistenza con gli arabi e l’integrazione delle società ebraiche e arabe.

Sereni fu mandato in Europa negli anni dal 1931 al 1934 per aiutare a portare la gente in Palestina attraverso la aliyah e fu arrestato per breve tempo dalla Gestapo. Aiutò a organizzare il movimento Hechalutz nella Germania nazista ed anche a contrabbandare persone e denaro fuori dalla Germania. Si recò anche negli Stati Uniti d’America per aiutare ad organizzare il locale movimento sionista. Durante la seconda guerra mondiale, fece parte delle British Army e avviò propaganda anti-fascista in Egitto. Fu quindi incaricato dagli inglesi in Iraq, ove passò parte del suo tempo ad organizzare aliyah clandestine. Ebbe problemi con i superiori della British Army per i suoi piani sionistici e fu imprigionato per poco tempo per la contraffazione di passaporti.

Successivamente aiutò ad organizzare le unità paracadutistiche della britannica Special Operations Executive (SOE), che inviava agenti nell’Europa occupata. In particolare, Sereni ispirò – a Bari, dal gennaio 1944 – la creazione di un’unità dell’Agenzia ebraica che aveva lo scopo di aiutare ed eventualmente salvare gli ebrei che si trovavano nei territori occupati dai nazisti. Di circa 250 reclute volontarie circa 110 furono selezionate per addestrarsi e 33 furono paracadutate in Europa, compreso Sereni, malgrado la sua età relativamente avanzata. Il 15 maggio del 1944 fu paracadutato nell’Italia settentrionale sotto il falso nome di Samuel Barda ma fu catturato immediatamente a Maggiano di Lucca. Condotto a Verona, fu torturato e rinchiuso nelle celle ricavate nei sotterranei del palazzo dell’INA, diventato sede del SD (il servizio segreto delle SS). Fu trasferito al campo di transito di Bolzano il 25 agosto 1944 e detenuto nel blocco E, recintato col filo spinato perché riservato ai prigionieri politici considerati più pericolosi, come riportato da Vittore Bocchetta in 1940-1945 Quinquennio Infame, Verona, Edizioni Gielle, 1991. Fu quindi deportato al Dachau il 5 ottobre 1944 dove fu sottoposto a uno speciale regime di rigore. Un sopravvissuto facente parte dello stesso trasporto, Raffaele Capuozzo, in una testimonianza filmata rilasciata all’archivio storico della città di Bolzano, ha raccontato la tempra di Sereni a Dachau: “Il capo-lager venne con un elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Parlò in tedesco, non so cosa disse. Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia e questo capitano, che sarà stato alto un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze”. Immatricolato a Dachau con il nome Shmuel Barda e con il numero 113160, Sereni fu condotto il 17 novembre 1944 in una cella speciale di punizione per essere interrogato e, secondo la documentazione, fucilato il 18 novembre 1944.

Altri martiri famosi che furono paracadutati in Europa con l’unità dell’Agenzia ebraica furono Hannah Szenes e Haviva Reik. Il kibbutz Netzer Sereni porta il suo nome.

Un capitolo del saggio sulla storia dei sionisti italiani Una terra per rinascere. Gli ebrei italiani e l’emigrazione in Palestina prima della Guerra (1920-1940), di Arturo Marzano, Milano, Marietti, 2003, è dedicato a Sereni.

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