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Ber Borochov 1881-1917

Dov Ber Borochov (Zolotonoša3 luglio1881 – Kiev17 dicembre1917) è stato un linguista ucraino, fu un sionista marxista e uno dei fondatori del movimento sionista socialista, ma anche pioniere nello studio dello yiddish come lingua.

Dov Ber Borochov

Dov Ber Borochov (Zolotonoša3 luglio 1881 – Kiev17 dicembre 1917) è stato un linguista ucraino, fu un sionista marxista e uno dei fondatori del movimento sionista socialista, ma anche pioniere nello studio dello yiddish come lingua1

Biografia

Era nato nella città di Zolotonoša (Ucraina) sotto l’Impero Russo. Da adulto aveva aderito al Partito Operaio Socialdemocratico Russo ma era stato espulso per il suo credo sionista. Conseguentemente collaborò alla formazione del partito Poale Zion e dedicò la sua vita a promuovere il partito in Russia, in Europa e in America. Quando i socialdemocratici russi giunsero al potere, Borochov tornò in Russia nel marzo del 1917 per guidare il Poale Zion e organizzare le brigate ebraiche per Armata Rossa.[1] Si ammalò e morì di polmonite il 17 dicembre 1917.

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Setirot – Il banco vuoto

Pubblicato in Idee il ‍‍17/01/2019 – 11 שבט 5779

jesurum

“Il banco vuoto. Scuola e leggi razziali. Venezia 1938-45” è un libro che mi riguarda. Lo ha scritto, con vent’anni di studi e ricerche alle spalle, Maria Teresa Sega per Cierre edizioni. Mi riguarda innanzitutto poiché sento visceralmente giusto – dopo un 2018, ottantesimo delle leggi razziste, e il fiume di articoli, mostre, ragionamenti su quell’obbrobrio – il monito “prima le persone”. E “Il banco vuoto” ciò racconta, documenta: le persone, le piccole/grandi storie, in una città in fondo piccola, nelle calli, nei sotopòrteghi, nei campi, in un lasso di tempo definito e “visibile”. Che poi tra quelle persone, bambine e bambini, ragazzini e ragazzine, adulti, ci sia l’intera mia famiglia, parenti, amici dei nonni e dei miei genitori, nomi sentiti pronunciare di continuo durante l’infanzia – sommersi e salvati – rende le pagine strazianti e dolci insieme.
Si entra così nel vivo, come scrive in prefazione Gadi Luzzatto Voghera, della storia orale assunta come passaggio necessario, prima che anche l’ultimo dei testimoni ci lasci la responsabilità di raccontare quelle vicende compiendo altre scelte narrative e documentarie. Ed ecco davanti ai nostri occhi i bambini ebrei esclusi dallo Stato colpiti anche dalla reazione muta, silente dei compagni, se non spesso dalla aperta ostilità fatta da atti di bullismo, piaga difficilissima da estirpare nella gioventù di ogni tempo. Il bullismo, dinamica funzionale al potere – vi prego, guardate fuori dalle vostre finestre. Non a caso Luzzatto Voghera definisce “Il banco vuoto” un testo storico militante «nel senso che concepisce la ricerca – giustamente – come strumento necessario per comprendere la nostra realtà quotidiana e aiutare soprattutto le giovani generazioni a interpretarla».
Per un bizzarro gioco del caso, mentre leggo “Il banco vuoto”, la rivista online JoiMag ricorda un episodio contenuto nell’autobiografia di Giuliana Coen del 1981, “R come Roberta”. «La mattina della maturità entriamo in classe e assisto alla prima sorpresa. I banchi sono in fila, come sempre. Ma ce ne sono tre in un canto, un po’ scostati. Faccio per sedermi a caso, quando mi arriva alle spalle un professore e mi dice: “No, laggiù per favore”, e indica uno dei banchi messi da parte. Quasi nessuno si accorge di ciò che sta accadendo perché c’è il solito trambusto, gli amici cercano di stare insieme, c’è chi cambia idea all’ultimo momento, chi baratta il posto. Alla fine siamo tutti seduti. C’è un attimo di silenzio, finalmente. Ed è in quel momento che, da un banco centrale, si alza un ragazzo. Non è bianco, è mulatto. Alza la mano, per poter parlare. È figlio di una principessa eritrea e d’un generale italiano. “Volevo sapere perché quei candidati son tenuti da parte”. Il professore ha un momento d’imbarazzo. “Sono privatisti”. Il mulatto sorride. “Certo: privatisti. Perché sono ebrei, non è vero?”. Questa volta l’imbarazzo del professore è più evidente. Il giovane eritreo non gli dà nemmeno il tempo di dire una parola. “Se è per una questione di razza, nemmeno io sono ariano, come certo non vi sarà sfuggito, non è vero? Perciò, con il suo permesso…”. Prende l’ultimo banco della fila, che era vuoto, e lo spinge verso i nostri, di lato. Allora accade l’imprevedibile, davvero. Tutta la classe si alza, alcuni mi fanno alzare, prendono anche il mio banco. In un niente la classe è tornata normale: tutti i banchi tornano in tre file, noi siamo con gli altri. Il giovane mulatto, prima di sedersi a sua volta, fa un rigoroso inchino al professore…». Il suo nome era Ludovico Sprocani. E non è una commovente scena di “L’attimo fuggente”. Gesti rari, allora come oggi.
Grazie Maria Teresa Sega, ci hai reso gli sguardi e i corpi di quei nostri ragazzini e ragazze che la maggior parte degli italiani bollò come nemici degni di sputi e insulti. Degni – peggio – di indifferenza. Tutto ciò mi riguarda.

Stefano Jesurum, giornalista

(17 gennaio 2019)

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La fine di Israele

Furio Colombo  Il saggiatore, 2007 – 127 pagine

La fine di Israele è cominciata. Si sono incrinati i pilastri che finora hanno sostenuto questo paese persino al di là delle persuasioni, intenzioni, dissensi e giudizi negativi. Quei pilastri erano l’opinione pubblica dell’Occidente, la diversità del mondo islamico, il sostegno americano, l’imminenza – o almeno la realistica speranza – di una qualche forma di pace o di convivenza con la Palestina. Opinione pubblica dell’Occidente non vuol dire sostegno e amicizia, ma constatazione e accettazione. Si fondavano principalmente sulla memoria. Il paese degli ebrei, nato legalmente con solenne proclama delle Nazioni Unite e impegno particolarmente intenso dell’Unione Sovietica (e non degli Stati Uniti, come si era sempre detto, creduto e fatto credere), non poteva essere negato, specialmente dall’Europa, in gran parte protagonista o complice della Shoah. È utile ricordare che al momento della nascita di Israele la Palestina era terra inglese, la Santa Sede negava risolutamente che in quella terra (che non era uno stato, ma un protettorato) i luoghi santi “potessero cadere in mano agli ebrei”, gli arrivi degli scampati alla persecuzione (fino alla fine della guerra e dunque durante il dominio del nazismo) venivano respinti in mare, e dopo l’apertura dei campi continuavano a essere duramente osteggiati dai militari inglesi che presidiavano quel territorio”. (Furio Colombo)

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Sinistra e Israele

La frontiera morale dell’Occidente

Di Fabio Nicolucci , libro pubblicato nel novembre 2013

Israele, la sinistra e l’occidente

Il difficile rapporto tra la sinistra e Israele

Il libro esamina dal punto di vista storico e cronologico l’intenso rapporto tra sionismo e sinistra europea

Fabio Nicolucci dimostra come i due movimenti abbiano avuto una forte radice comune, malgrado le loro strade si siano divise a partire dal 1967.  In particolare l’autore pone l’accento sul rapporto tra Israele e l’occidentalismo, approfondendo il tema dello “scontro tra civiltà’” soprattutto a partire dall’11 settembre 2001, quando il nemico diventa l’Islam.

Attraverso un excursus delle relazioni tra Israele e la destra neoconservatrice – diventata sempre più potente proprio dopo i fatti dell’11 settembre – l’autore si concentra poi sul complesso legame tra sinistra e occidentalismo e tra sinistra e Israele.

In conclusione il testo propone una nuova e alternativa lettura della globalizzazione, delle relazioni internazionali nel delicato panorama dei rapporti tra oriente e occidente, per offrire una diversa consapevolezza sulle vere sfide nel medioriente e nel mondo.

Fabio Nicolucci  Esperto di relazioni internazionali, politica e sicurezza del medio oriente, è editorialista de Il Messaggero e Il Mattino. Autore di diverse monografie tra cui: I giochi di potere e le nuove alleanze nel Mediterraneo (2010).

SINOSSI

Il libro inizia con una analisi storica e cronologica dei fitti rapporti tra sionismo e sinistra europea dal punto di vista della cultura politica, dai prodromi del sionismo nel XVIII secolo sino ai tempi attuali. Tale analisi dimostra come i due movimenti abbiano avuto una forte radice comune e dunque anche una sorte comune, malgrado le loro strade si siano divaricate a partire dal 1967.

Il secondo capitolo è relativo al rapporto tra l’occidentalismo e la cultura politica occidentale. Analizzando il rapporto dialettico tra l’occidentalismo e l’identità occidentale, poi il medioriente come frontiera per la cultura politica occidentale e poi il peculiare apporto di Israele come“Occidente dell’Occidente”, il saggio illustra come la destra neoconservatrice e liberista ha cominciato il suo percorso come cultura politica egemone nell’Amministrazione Bush, per poi guidare l’Amministrazione Usa dopo l’11 settembre, proprio a partire dall’affermazione della destra radicale israeliana guidata da Benjamin Netanyahu, che ne costituisce uno degli organizzatori.

Il terzo capitolo indaga invece il difficile rapporto tra sinistra e occidentalismo, per prima studiarne le radici e poi elaborare una griglia metodologica capace di rifondare questo rapporto attraverso unavisione non geopolitica del medioriente basata su una lettura dinamica dei processi politici e culturali mediorientali attraverso le categorie dell’interdipendenza e della statualità, del nesso politica ed economia, sull’uso della categoria del cesarismo e della rivoluzione passiva che contraddistinguevano lo status quo crollato per effetto della “Primavera araba”. La fine del “secolo occidentale” e l’inizio del nuovo secolo – segnato anche dal rinascere, dopo l’egemonia occidentalista di destra seguita all’11 settembre, da un anticoccidentalismo di destra sia in Europa e in Italia  sia in Israele – , così come la vittoria di Obama negli Usa porgono alla sinistra europea e occidentale una straordinaria opportunità di rivedere la sua impostazione antioccidentalista – che ne faceva su tali temi ora sempre più egemonici una sorta di “oriundo in patria” – e di fondare un nuovo “occidentalismo di sinistra”. A partire dalle ragioni di questo possibile “occidentalismo di sinistra” il libro argomenta che la chiave per costruirlo è un nuovo rapporto con Israele: occorre passare da un’equidistanza ad una identificazione. Superando così un europeismo che spesso è stato anche un surrogato di un’identità occidentale non pienamente compiuta.

Le conclusioni argomentano che questa nuova cultura politica della sinistra e un suo rinnovato e completo rapporto con l’identità occidentale è la premessa per chiudere l’egemonia culturale della destra neoconservatrice nelle relazioni internazionali, basata sul paradigma dello “scontro tra civiltà”. In realtà il vero tema è infatti uno “scontro nelle civiltà”, e da esso deriva sia l’acquisizione del concetto di “limite” e dunque una nuova frontiera democratica nelle relazioni internazionali, ma anche una nuova e alternativa lettura della globalizzazione, capace di dare  consapevolezza su quali siano le vere sfide nel medioriente  e nel mondo.

METODOLOGIA

il saggio si basa sull’analisi di fonti non italiane, se si esclude la parte dei rapporti della sinistra italiana con il sionismo ed Israele. Per questa parte le fonti sono state i quotidiani La Repubblica, Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore, quasi tutta la bibliografia saggistica relativa alla sinistra e Israele, più una inedita ricerca su fonti web sulla destra estrema filoislamica italiana ed europea. La principale base di questo lavoro, cominciato nel 2008 ed ultimato nel 2012, sono però fonti e saggi di provenienza israeliana o statunitense. Particolarmente innovativa ed inedita è la parte di analisi delle strutture e dei centri e dei think tank neoconservatori israeliani, compresi le pubblicazioni Azure e Hebraic Political Studies, del tutto inedita non solo in Italia ma in Europa. Così come la relazione tra la destra neoconservatrice israeliana e quella statunitense. Il testo è corredato da un ampio corpo di note; si tratta infatti di un’analisi di tipo scientifico che si avvale di numerose fonti in forma di saggio, web o giornalistiche. Tra i saggi si conta la lettura integrale delle opere di e su Benjamin Netanyahu, oltre a numerosi saggi israeliani e anglosassoni non tradotti in italiano sulla cultura politica ebraica ed occidentale. Tra le fonti giornalistiche vi sono The New York Times, The Wall Street Journal, The New York Review of Books, The Guardian, YNet, Haaretz, The Jerusalem Post, The Jerusalem Report, Foreign Policy, The New Republic, The New Yorker, The Atlantic e le pubblicazioni più importanti del mondo ebraico statunitense, tra cui The Forward, The Jewish Telegraphic Agency, Jewish Ideas Daily, The Jewish Journal, Tablet Magazine, The Daily Beast, The Commentary. Tra le fonti web vi sono quelle ufficiali del governo israeliano e statunitense, dei think tank Usa in particolare di provenienza neoconservatrice, di analisti indipendenti, dello Shalem Center – in particolare le sue Jerusalem Letters – e del JCPA israeliani, di blogger israeliani e statunitensi, di massmedia arabi.

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«Israele sia una casa, non una fortezza. Ricordando Uri» di David Grossman

Di seguito pubblichiamo il discorso integrale pronunciato martedì sera dallo scrittore israeliano David Grossman alla cerimonia organizzata dal Parents Circle – Families Forum, che riunisce i parenti israeliani e palestinesi di vittime delle guerre o degli attentati.

Cari amici, buona sera. Si sono levate non poche rimostranze attorno alla nostra cerimonia, ma noi non dimentichiamo che questa è, e resta, soprattutto una commemorazione del ricordo e della condivisione. Il clamore, anche se è presente, resta a noi estraneo, perché al centro di questa serata avvertiamo una profonda quiete, la quiete del vuoto scavato dalla perdita. La mia famiglia ha perso Uri in guerra, un ragazzo dolce, allegro e in gamba. Ancora oggi, quasi dodici anni dopo, mi è difficile parlare di lui in pubblico. La morte di una persona cara è anche la morte di una cultura privata, personale e unica, con un suo linguaggio speciale e i suoi segreti. Tutto questo è svanito per sempre, e non ritornerà mai più. Confrontarsi con questo «mai più» definitivo è terribilmente doloroso. Ci sono momenti in cui questo dolore risucchia dentro di sé tutto quello che esiste e tutto quello che rappresenta il nostro «ancora».

È difficile ed estenuante combattere senza tregua contro la forza gravitazionale della perdita. È difficile separare il ricordo dal dolore. È doloroso ricordare, ma è ancor più spaventoso dimenticare. E quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. Ma ho scoperto che ogni volta che sono tentato dalla rabbia e dall’odio, immediatamente mi accorgo di smarrire il contatto quotidiano con mio figlio, che ancora sento vivere in me. Qualcosa si inceppa. Allora ho preso questa decisione. Ho fatto questa scelta. E credo che tutti coloro che sono qui questa sera hanno fatto anche loro la medesima scelta. E io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare. Persino i nemici storici, come gli israeliani e i palestinesi, possono stringere tra di loro un rapporto che nasce dal lutto, e a causa di questo.

In questi anni ho incontrato molte famiglie in lutto. Ho detto loro, in base alla mia esperienza, che persino nel più profondo dolore vale la pena ricordare che ciascun membro della famiglia ha il diritto di piangere la scomparsa nel modo che ritiene più opportuno, a seconda del suo carattere, a seconda della sua interiorità. Nessuno può insegnare a un altro come piangere una scomparsa. Se questo vale per le famiglie private, vale anche per la più grande «famiglia in lutto» in Israele. C’è un profondo sentimento che ci unisce, un senso di destino comune, e un dolore che solo noi conosciamo, per il quale non esistono parole per descriverlo all’esterno, alla luce del giorno. Perciò se l’espressione «famiglia in lutto» è genuina e sincera, vi preghiamo di rispettare il nostro percorso, perché merita rispetto.

Non è un cammino facile, né scontato, e non è scevro da contraddizioni interne, ma è il nostro modo di dare un senso alla morte dei nostri congiunti, e alla nostra vita dopo la loro morte. È anche il nostro modo non solo di piangere la perdita insieme, bensì anche di contemplare il fatto che non abbiamo fatto abbastanza per scongiurarla. E nel nostro modo di fare e di agire – rifiutando di abbandonarci alla disperazione e di cercare una risposta – sta la speranza che in futuro la guerra si allontanerà, e forse cesserà del tutto, e noi ricominceremo a vivere, a vivere una vita piena, non solo a sopravvivere da una guerra all’altra, da una tragedia all’altra. Noi, israeliani e palestinesi che abbiamo perso nelle nostre guerre coloro che ci erano più cari, più cari ancora della nostra stessa vita, noi siamo destinati a toccare la realtà attraverso una ferita ancora sanguinante. Chiunque abbia riportato una simile ferita sa fino a che punto la vita è fatta di grandi concessioni, di infiniti compromessi. Sono convinto che il lutto ci rende più lungimiranti, tutti noi convenuti qui stasera. Lungimiranti per quel che riguarda i limiti della forza, per quel che riguarda l’illusione che sempre accompagna colui che la esercita.. Ci sentiamo anche più sospettosi, più di quanto non lo fossimo prima della tragedia, e ci sentiamo invadere dal ribrezzo davanti allo sfoggio di futile orgoglio, alle espressioni di arroganza nazionalistica, ai discorsi vanagloriosi dei capi di governo. No, tutto questo non ci insospettisce nemmeno più: siamo diventati allergici.

Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione. Io spero che potremo celebrare ancora questa ricorrenza per molti anni a venire, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro che tutti si sentiranno ugualmente a casa propria. Come definire la casa? La casa è il luogo i cui muri – i cui confini – sono chiari e pattuiti. La cui esistenza è stabile, inoppugnabile e serena. I cui abitanti conoscono bene i suoi codici intimi. I cui rapporti con i vicini sono basati su norme concordate. Un luogo che proietta un senso di futuro. Noi israeliani, persino dopo 70 anni – a prescindere dai mille discorsi patriottici che saranno pronunciati nei prossimi giorni – non siamo ancora arrivati a quel punto. Non siamo ancora a casa. Israele è stato fondato per far sì che il popolo ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere una casa. E oggi, 70 anni dopo, malgrado tante meravigliose conquiste nei più svariati campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto a una fortezza, ma non ancora a una casa..

La strada per risolvere l’immensa complessità dei rapporti che intercorrono tra Israele e i palestinesi può riassumersi in una formuletta: se i palestinesi non hanno una casa, nemmeno gli israeliani potranno averne una. Ma anche l’opposto è vero: se Israele non ha una casa, nemmeno la Palestina sarà casa per il suo popolo. Ho due nipotine, di sei e tre anni. Per loro, Israele è un dato di fatto. È ovvio che abbiamo uno stato, che ci sono strade, scuole e ospedali, così come c’è il computer alla scuola materna, e che parliamo una lingua ebraica viva e rigogliosa. Io appartengo invece a una generazione per la quale nulla di tutto ciò era dato per scontato, e parlo da quel tempo, da quel luogo fragile e incerto che ricorda ancora il terrore esistenziale, ma anche l’intensa speranza di essere finalmente tornati a casa.

Ma quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni, e occupa le sue terre, e mette in piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una casa. E quando il ministro della difesa Lieberman tenta di impedire ai palestinesi costruttori di pace di partecipare a un incontro come questo nostro, Israele non è la mia casa. E quando il governo israeliano imbastisce accordi discutibili con l’Uganda e il Ruanda, ed è pronto a mettere a rischio la vita dei richiedenti asilo e di deportarli in luoghi a loro ignoti, forse incontro alla morte, Israele è molto meno di una casa ai miei occhi. E quando il primo ministro diffama e accusa le organizzazioni per i diritti umani, quando cerca il modo di attuare leggi che aggirano la corte suprema di giustizia, e quando si crea un clima di costante opposizione alla democrazia e alla magistratura, Israele diventa ancora meno di una casa. Per tutti.

Quando Israele trascura ed emargina i residenti delle periferie, quando abbandona e svilisce gli abitanti dei quartieri sud di Tel Aviv, quando indurisce il suo cuore davanti alle difficoltà dei deboli e di coloro che non hanno voce – i sopravvissuti all’Olocausto, i bisognosi, le famiglie con un solo genitore, gli anziani, gli istituti per i bambini allontanati dalle loro famiglie, gli ospedali al collasso – Israele è meno di una casa. È una casa disfunzionale. E quando Israele discrimina e penalizza un milione e mezzo di cittadini israeliani di origine palestinese, quando trascura l’immenso potenziale che essi rappresentano per una vita condivisa nella nostra nazione, Israele è meno di una casa, sia per la maggioranza che per la minoranza. E quando Israele respinge l’ebraismo di milioni di ebrei riformati e conservatori, ecco che di nuovo diventa meno di una casa. E ogni volta che un artista deve dimostrare nella sua arte fedeltà e obbedienza, non solo allo stato, ma anche al partito di governo, Israele è meno di una casa.

Israele ci fa soffrire, perché è la casa che vorremmo avere. Perché riconosciamo quanto sia bello per noi avere uno stato, e siamo orgogliosi delle sue scoperte e conquiste in tantissimi campi, nell’industria e nell’agricoltura, nella cultura e nell’arte, nella tecnologia e nella medicina, e in campo economico. Ma soffriamo nel vedere fino a che punto questo ideale è stato snaturato. Le persone e le organizzazioni qui riunite oggi, guidate dal Forum dei genitori e delle famiglie e dei Combattenti per la pace, e molte altre simili, saranno forse coloro che contribuiranno di più nel trasformare Israele in una casa, nel vero senso della parola.

Aggiungo che intendo donare la metà dell’ammontare del Premio di Israele che mi verrà conferito giovedì (l’Israeli Prize per la letteratura, ndr) in parti uguali al Forum dei genitori e delle famiglie e ad Elifelet, un’organizzazione che si occupa dei bambini dei richiedenti asilo, quei bambini le cui scuole d’infanzia sono chiamate “i capannoni dei bambini.” A mio avviso, queste organizzazioni svolgono un compito sacro, o per dirlo in altre parole, svolgono le azioni semplici e umane che il governo dovrebbe accollarsi. Una casa. Una casa dove vivere una vita in pace e sicurezza. Una vita limpida. Una vita non sottomessa – per mano di fanatici di ogni risma – agli scopi di qualche visione totalitaria, messianica o nazionalistica. Una casa i cui occupanti non siano strumenti per un’idea che taluni credono più grande o più nobile di loro. Una casa in cui la vita sarà misurata in standard umani. Dove un popolo potrà alzarsi la mattina e sentirsi persone. E queste persone sanno di vivere in un posto che non è degradato e corrotto, bensì davvero uguale, non insidiato da invidie e aggressività. Uno stato gestito semplicemente per favorire coloro che vi abitano, per tutti coloro che vi abitano, con comprensione e tolleranza per i molti dialetti che si rifanno all’identità israeliana. Perché “queste e quelle sono le parole di Israele vivente”, per richiamare il verso del Talmud che recita, “queste e quelle sono le parole del Dio vivente”.

Uno stato che non agisca in preda a emozione e impulsività, né in una contorsione infinita di trucchi e ammiccamenti e manipolazioni. E indagini poliziesche e altri espedienti. Mi auguro che il nostro governo saprà essere meno scaltro e più saggio. Ci è consentito sognare. Ci è anche consentito ammirare le conquiste fatte finora. Vale la pena combattere per Israele. E auguro le stesse cose anche ai nostri amici palestinesi: una vita di indipendenza, pace e libertà, nella costruzione di una nuova nazione. Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: “Una nazione libera nella nostra terra.” E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli.

David Grossman

18 aprile 2018 | 21:53

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