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«Israele sia una casa, non una fortezza. Ricordando Uri» di David Grossman

Di seguito pubblichiamo il discorso integrale pronunciato martedì sera dallo scrittore israeliano David Grossman alla cerimonia organizzata dal Parents Circle – Families Forum, che riunisce i parenti israeliani e palestinesi di vittime delle guerre o degli attentati.

Cari amici, buona sera. Si sono levate non poche rimostranze attorno alla nostra cerimonia, ma noi non dimentichiamo che questa è, e resta, soprattutto una commemorazione del ricordo e della condivisione. Il clamore, anche se è presente, resta a noi estraneo, perché al centro di questa serata avvertiamo una profonda quiete, la quiete del vuoto scavato dalla perdita. La mia famiglia ha perso Uri in guerra, un ragazzo dolce, allegro e in gamba. Ancora oggi, quasi dodici anni dopo, mi è difficile parlare di lui in pubblico. La morte di una persona cara è anche la morte di una cultura privata, personale e unica, con un suo linguaggio speciale e i suoi segreti. Tutto questo è svanito per sempre, e non ritornerà mai più. Confrontarsi con questo «mai più» definitivo è terribilmente doloroso. Ci sono momenti in cui questo dolore risucchia dentro di sé tutto quello che esiste e tutto quello che rappresenta il nostro «ancora».

È difficile ed estenuante combattere senza tregua contro la forza gravitazionale della perdita. È difficile separare il ricordo dal dolore. È doloroso ricordare, ma è ancor più spaventoso dimenticare. E quanto sarebbe facile, in questa situazione, cedere allo sdegno, alla rabbia, alla brama di vendetta. Ma ho scoperto che ogni volta che sono tentato dalla rabbia e dall’odio, immediatamente mi accorgo di smarrire il contatto quotidiano con mio figlio, che ancora sento vivere in me. Qualcosa si inceppa. Allora ho preso questa decisione. Ho fatto questa scelta. E credo che tutti coloro che sono qui questa sera hanno fatto anche loro la medesima scelta. E io so che persino nel dolore esiste il respiro, la creatività, la capacità di fare il bene. Il lutto non solo isola, ma sa anche unire e rafforzare. Persino i nemici storici, come gli israeliani e i palestinesi, possono stringere tra di loro un rapporto che nasce dal lutto, e a causa di questo.

In questi anni ho incontrato molte famiglie in lutto. Ho detto loro, in base alla mia esperienza, che persino nel più profondo dolore vale la pena ricordare che ciascun membro della famiglia ha il diritto di piangere la scomparsa nel modo che ritiene più opportuno, a seconda del suo carattere, a seconda della sua interiorità. Nessuno può insegnare a un altro come piangere una scomparsa. Se questo vale per le famiglie private, vale anche per la più grande «famiglia in lutto» in Israele. C’è un profondo sentimento che ci unisce, un senso di destino comune, e un dolore che solo noi conosciamo, per il quale non esistono parole per descriverlo all’esterno, alla luce del giorno. Perciò se l’espressione «famiglia in lutto» è genuina e sincera, vi preghiamo di rispettare il nostro percorso, perché merita rispetto.

Non è un cammino facile, né scontato, e non è scevro da contraddizioni interne, ma è il nostro modo di dare un senso alla morte dei nostri congiunti, e alla nostra vita dopo la loro morte. È anche il nostro modo non solo di piangere la perdita insieme, bensì anche di contemplare il fatto che non abbiamo fatto abbastanza per scongiurarla. E nel nostro modo di fare e di agire – rifiutando di abbandonarci alla disperazione e di cercare una risposta – sta la speranza che in futuro la guerra si allontanerà, e forse cesserà del tutto, e noi ricominceremo a vivere, a vivere una vita piena, non solo a sopravvivere da una guerra all’altra, da una tragedia all’altra. Noi, israeliani e palestinesi che abbiamo perso nelle nostre guerre coloro che ci erano più cari, più cari ancora della nostra stessa vita, noi siamo destinati a toccare la realtà attraverso una ferita ancora sanguinante. Chiunque abbia riportato una simile ferita sa fino a che punto la vita è fatta di grandi concessioni, di infiniti compromessi. Sono convinto che il lutto ci rende più lungimiranti, tutti noi convenuti qui stasera. Lungimiranti per quel che riguarda i limiti della forza, per quel che riguarda l’illusione che sempre accompagna colui che la esercita.. Ci sentiamo anche più sospettosi, più di quanto non lo fossimo prima della tragedia, e ci sentiamo invadere dal ribrezzo davanti allo sfoggio di futile orgoglio, alle espressioni di arroganza nazionalistica, ai discorsi vanagloriosi dei capi di governo. No, tutto questo non ci insospettisce nemmeno più: siamo diventati allergici.

Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione. Io spero che potremo celebrare ancora questa ricorrenza per molti anni a venire, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro che tutti si sentiranno ugualmente a casa propria. Come definire la casa? La casa è il luogo i cui muri – i cui confini – sono chiari e pattuiti. La cui esistenza è stabile, inoppugnabile e serena. I cui abitanti conoscono bene i suoi codici intimi. I cui rapporti con i vicini sono basati su norme concordate. Un luogo che proietta un senso di futuro. Noi israeliani, persino dopo 70 anni – a prescindere dai mille discorsi patriottici che saranno pronunciati nei prossimi giorni – non siamo ancora arrivati a quel punto. Non siamo ancora a casa. Israele è stato fondato per far sì che il popolo ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere una casa. E oggi, 70 anni dopo, malgrado tante meravigliose conquiste nei più svariati campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto a una fortezza, ma non ancora a una casa..

La strada per risolvere l’immensa complessità dei rapporti che intercorrono tra Israele e i palestinesi può riassumersi in una formuletta: se i palestinesi non hanno una casa, nemmeno gli israeliani potranno averne una. Ma anche l’opposto è vero: se Israele non ha una casa, nemmeno la Palestina sarà casa per il suo popolo. Ho due nipotine, di sei e tre anni. Per loro, Israele è un dato di fatto. È ovvio che abbiamo uno stato, che ci sono strade, scuole e ospedali, così come c’è il computer alla scuola materna, e che parliamo una lingua ebraica viva e rigogliosa. Io appartengo invece a una generazione per la quale nulla di tutto ciò era dato per scontato, e parlo da quel tempo, da quel luogo fragile e incerto che ricorda ancora il terrore esistenziale, ma anche l’intensa speranza di essere finalmente tornati a casa.

Ma quando Israele opprime un altro popolo per 51 anni, e occupa le sue terre, e mette in piedi una realtà di apartheid nei territori occupati, ecco che diventa molto meno di una casa. E quando il ministro della difesa Lieberman tenta di impedire ai palestinesi costruttori di pace di partecipare a un incontro come questo nostro, Israele non è la mia casa. E quando il governo israeliano imbastisce accordi discutibili con l’Uganda e il Ruanda, ed è pronto a mettere a rischio la vita dei richiedenti asilo e di deportarli in luoghi a loro ignoti, forse incontro alla morte, Israele è molto meno di una casa ai miei occhi. E quando il primo ministro diffama e accusa le organizzazioni per i diritti umani, quando cerca il modo di attuare leggi che aggirano la corte suprema di giustizia, e quando si crea un clima di costante opposizione alla democrazia e alla magistratura, Israele diventa ancora meno di una casa. Per tutti.

Quando Israele trascura ed emargina i residenti delle periferie, quando abbandona e svilisce gli abitanti dei quartieri sud di Tel Aviv, quando indurisce il suo cuore davanti alle difficoltà dei deboli e di coloro che non hanno voce – i sopravvissuti all’Olocausto, i bisognosi, le famiglie con un solo genitore, gli anziani, gli istituti per i bambini allontanati dalle loro famiglie, gli ospedali al collasso – Israele è meno di una casa. È una casa disfunzionale. E quando Israele discrimina e penalizza un milione e mezzo di cittadini israeliani di origine palestinese, quando trascura l’immenso potenziale che essi rappresentano per una vita condivisa nella nostra nazione, Israele è meno di una casa, sia per la maggioranza che per la minoranza. E quando Israele respinge l’ebraismo di milioni di ebrei riformati e conservatori, ecco che di nuovo diventa meno di una casa. E ogni volta che un artista deve dimostrare nella sua arte fedeltà e obbedienza, non solo allo stato, ma anche al partito di governo, Israele è meno di una casa.

Israele ci fa soffrire, perché è la casa che vorremmo avere. Perché riconosciamo quanto sia bello per noi avere uno stato, e siamo orgogliosi delle sue scoperte e conquiste in tantissimi campi, nell’industria e nell’agricoltura, nella cultura e nell’arte, nella tecnologia e nella medicina, e in campo economico. Ma soffriamo nel vedere fino a che punto questo ideale è stato snaturato. Le persone e le organizzazioni qui riunite oggi, guidate dal Forum dei genitori e delle famiglie e dei Combattenti per la pace, e molte altre simili, saranno forse coloro che contribuiranno di più nel trasformare Israele in una casa, nel vero senso della parola.

Aggiungo che intendo donare la metà dell’ammontare del Premio di Israele che mi verrà conferito giovedì (l’Israeli Prize per la letteratura, ndr) in parti uguali al Forum dei genitori e delle famiglie e ad Elifelet, un’organizzazione che si occupa dei bambini dei richiedenti asilo, quei bambini le cui scuole d’infanzia sono chiamate “i capannoni dei bambini.” A mio avviso, queste organizzazioni svolgono un compito sacro, o per dirlo in altre parole, svolgono le azioni semplici e umane che il governo dovrebbe accollarsi. Una casa. Una casa dove vivere una vita in pace e sicurezza. Una vita limpida. Una vita non sottomessa – per mano di fanatici di ogni risma – agli scopi di qualche visione totalitaria, messianica o nazionalistica. Una casa i cui occupanti non siano strumenti per un’idea che taluni credono più grande o più nobile di loro. Una casa in cui la vita sarà misurata in standard umani. Dove un popolo potrà alzarsi la mattina e sentirsi persone. E queste persone sanno di vivere in un posto che non è degradato e corrotto, bensì davvero uguale, non insidiato da invidie e aggressività. Uno stato gestito semplicemente per favorire coloro che vi abitano, per tutti coloro che vi abitano, con comprensione e tolleranza per i molti dialetti che si rifanno all’identità israeliana. Perché “queste e quelle sono le parole di Israele vivente”, per richiamare il verso del Talmud che recita, “queste e quelle sono le parole del Dio vivente”.

Uno stato che non agisca in preda a emozione e impulsività, né in una contorsione infinita di trucchi e ammiccamenti e manipolazioni. E indagini poliziesche e altri espedienti. Mi auguro che il nostro governo saprà essere meno scaltro e più saggio. Ci è consentito sognare. Ci è anche consentito ammirare le conquiste fatte finora. Vale la pena combattere per Israele. E auguro le stesse cose anche ai nostri amici palestinesi: una vita di indipendenza, pace e libertà, nella costruzione di una nuova nazione. Spero che tra settant’anni i nostri nipoti e pronipoti saranno qui, israeliani e palestinesi, e ciascuno di loro canterà la sua versione dell’inno nazionale. Ma c’è un verso che potranno cantare insieme, in ebraico e in arabo: “Una nazione libera nella nostra terra.” E forse allora, nei giorni a venire, questo auspicio sarà finalmente una realtà per entrambi i nostri popoli.

David Grossman

18 aprile 2018 | 21:53

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Dedicati a Yitzhak Rabin i giardini di piazzale Tripoli a Milano

Il comune di Milano, accogliendo la richiesta che era stata presentata alcuni mesi fa da Sinistra per Israele in occasione del ventennale dell’assassinio del Primo Ministro e Premio Nobel per la pace Yitzhak Rabin, ha annunciato che:

 martedì 3 maggio 2016 alle ore 14,30,

i giardini di piazzale Tripoli verranno intitolati allo statista israeliano

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David Ben-Gurion 1886-1973

David Ben Gurion (in ebraico דוד בן-גוריון ascolta[?·info]Płońsk16 ottobre 1886 – Sde Boker1º dicembre 1973) è stato un politico israeliano, fondatore di Israele e prima persona a ricoprire l’incarico di Primo ministro del suo Paese.

Fiero sionista, fu il leader dell’Organizzazione Sionista Mondiale nel 1946. Capo dell’Agenzia Ebraica, divenne leader di fatto della comunità ebraica di Palestina (Yishuv): da questa posizione condusse la lotta del movimento sionista nel Mandato britannico della Palestina volta alla fondazione di uno stato ebraico indipendente. Il 14 maggio 1948 proclamò ufficialmente la nascita dello Stato d’Israele e fu il primo firmatario della Dichiarazione d’indipendenza israeliana, che contribuì anche a stendere.
Leader militare durante la Guerra arabo-israeliana del 1948, Ben Gurion unì le diverse milizie ebraiche costituendo le Forze di difesa israeliane. Per l’opera che ha contraddistinto l’intera sua esistenza, è ricordato come “Padre fondatore d’Israele”.

Dopo la guerra Ben Gurion ricoprì la carica di primo ministro, fornendo un prezioso contributo nella creazione delle istituzioni statali israeliane. Inoltre favorì il ritorno in Israele di molti ebrei della diaspora (Aliyah). Nelle relazioni internazionali, uno dei suoi maggiori successi riguarda i rapporti diplomatici con la Germania Ovest. Ben Gurion collaborò ottimamente con il cancelliere Konrad Adenauer. La Germania federale fornì ingenti finanziamenti in compensazione delle persecuzioni della Germania nazista contro gli ebrei (Olocausto).

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Theodor Herzl 1860-1904

Theodor Herzl (in ebraico: תאודור הרצל‎?; in unghereseTivadar HerzlPest2 maggio1860 – Edlach3 luglio1904) è stato un giornalistascrittore e avvocatoungheresenaturalizzatoaustriaco.

Ebreoungherese di lingua tedesca di origine ashkenazita, Theodor Herzl nacque a Budapest in via Dohány, nel luogo dove oggi sorgono il museo ebraico e la Sinagoga grande di Budapest. Conclusi gli studi al Ginnasio Evangelico di Budapest, si trasferì a Vienna per studiare diritto e letteratura, prendendo il dottorato in legge nel 1884.

Dal 1891 divenne corrispondente da Parigi del giornale Neue Freie Presse. A Parigi ebbe modo di seguire l’affare Dreyfus e conoscere quanto radicato fosse nella società europea l’antisemitismo; i suoi diari descrivono anche gli altri eventi che, nel corso dei suoi viaggi, contribuirono alla sua formazione culturale[1].

Nel 1896 pubblicò Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) dove propugnava ai governi europei l’idea che si creasse uno stato ebraico (in una qualsiasi colonia delle potenze europee), che sottraesse gli ebrei alle persecuzioni antisemite. Fu poi il fondatore, nel 1897[2], del movimento politico del sionismo, che si proponeva di far sorgere nei Territori Coloniali del Mandato britannico della Palestina uno Stato Ebraico.

Dopo la morte, la sua salma fu in un primo momento sepolta accanto a quella del padre a Döbling per poi essere trasferita – in ottemperanza alle sue volontà testamentarie – nel 1950 a Gerusalemme, dove fu sepolta su una collina che in suo onore venne chiamata Monte Herzl. Nell’ultimo viaggio di Papa Francesco in Israele, la tomba di Herzl è stata per la prima volta visitata da un pontefice.

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Yitzhak Rabin 1922-1995

Yitzhak Rabin, o Yitschak Rabin (in ebraico: יצחק רבין‎? ‭ascolta[?·info]Gerusalemme1º marzo 1922 – Tel Aviv4 novembre1995), è stato un politico e militare israeliano.

È stato il primo Primo ministro dello stato d’Israele ad essere nato sul territorio del proprio Stato, a Gerusalemme. Fu insignito del Premio Nobel per la pace nel 1994.

Origini e formazione

Di formazione agricolo-militare, tipica della comunità (Yishuv) israeliana negli anni del Mandato britannico, Rabin nasce da Nehemiah Rabin e Rosa Cohen. Fu tra i fondatori del Palmach (acronimo di Pelugot Machaz, “squadre d’assalto”) che contribuirono in maniera decisiva alla costituzione dell’esercito del futuro Stato di Israele (le IDF), anche se il suo sogno fin da bambino era quello di diventare ingegnere idraulico per garantire acqua al suo kibbutz. Fu comandante della brigata Harel che conquistò Gerusalemmedurante la prima guerra arabo-israeliana. Nell’estate del 1948 sposò Leah Schlossberg dalla quale ebbe due figli: Dalia e Yuval.

Carriera militare

nell’esercito dopo la costituzione dello Stato, divenne Capo di Stato Maggiore dell’esercito nel periodo della guerra dei sei giorni, e si deve a lui, assieme a Moshe Dayan, la concezione di attacco che portò alla distruzione a terra dell’intera forza aerea egiziana e siriana. Lasciato l’esercito nel 1968, fu nominato ambasciatore di Israele negli Stati Uniti d’America durante i quali rafforzò la solida alleanza tra gli Stati Uniti e Israele.

Carriera politica

File:Channel2 - Yitzhak Rabin.webm

Video corto su Yitzhak Rabin dalla Israeli News Company

Scaduti i termini della missione, rientrò in patria facendo il suo ingresso alla Knesset alle elezioni del dicembre 1973 come membro del partito Partito Laburista Israeliano e successivamente, nel marzo 1974, venne nominato ministro del lavoro. A seguito delle dimissioni di Golda Meir, Rabin sconfisse Shimon Peres alle elezioni per la leadership del partito e nel giugno 1974 venne eletto primo ministro. Con Peres ebbe una forte antipatia politica e personale per due decenni. Fu sua la decisione di autorizzare la missione di salvataggio di Entebbe, il cui successo fece salire la popolarità di Rabin alle stelle.

Tuttavia nell’aprile 1977 uno scandalo giornalistico rivelò l’esistenza di un conto corrente che Leah Rabin aveva mantenuto illegalmente su una banca americana, sin da quando il marito era ambasciatore negli Stati Uniti, violando le norme valutarie del tempo. Nonostante non fosse coinvolto, Rabin rimase al fianco della moglie e diede le dimissioni. Lasciò la guida del partito a Shimon Peres, il quale venne sconfitto alle elezioni del 1977 dal leader della destra Menachem Begin. Rimase nella Knesset per i successivi otto anni senza ricoprire cariche pubbliche. Rientrò come ministro della Difesa nel governo di unità nazionale del 1984.

Nel 1992 il Partito Laburista Israeliano decise di puntare su Rabin. La scelta si rivelò azzeccata e Rabin, che col tempo si era guadagnato il soprannome di “Mister Sicurezza”, tornò a coprire la carica di Primo ministro e anche quella di Ministro della Difesa. Chiamò al ministero degli affari esteri il suo compagno-rivale Shimon Peres con il quale aveva appianato le vecchie divergenze. Nell’agosto del 1993 venne resa pubblica la notizia che israeliani e palestinesi avevano trattenuto negoziati diretti per otto mesi. La notizia fece scalpore in tutto il mondo. In Israele suscitò una forte opposizione da parte della destra religiosa che non perse occasione per organizzare manifestazioni contro Rabin e la sua politica di pace.

Nonostante ciò, il 13 settembre del 1993 firmò, insieme al leader dell’OLP, gli accordi di Oslo. L’accordo prevedeva il riconoscimento da parte di Israele dell’OLP come rappresentante del popolo palestinese e da parte dell’OLP il riconoscimento a Israele del diritto ad esistere. L’anno dopo fu insignito al Premio Nobel per la pace insieme a Shimon Peres, e al presidente della futura Autorità Nazionale PalestineseYāser ʿArafāt

Lo stesso argomento in dettaglio: Assassinio di Yitzhak Rabin.

La sera del 4 novembre 1995, dopo aver preso parte a un comizio in difesa della pace a Tel Aviv, fu assassinato da Ygal Amir, un colono ebreo estremista. Ai suoi funerali a Gerusalemme parteciparono circa un milione di israeliani e molti esponenti di rilievo della politica mondiale.[1] Parteciparono anche molti leader arabi i quali non erano mai stati in Israele prima d’allora.

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Shimon Peres 1923 -2016

Shimon Peres, nato con il nome di Szymon Perski (in ebraicoשמעון פרס ascolta[?·info]Višneva2 agosto 1923 – Ramat Gan28 settembre 2016), è stato un politico israeliano, di origini polacchePresidente di Israele dal 2007 al 2014.

File:Channel2 - Shimon Peres.webm

A lungo esponente di primo piano del Partito Laburista Israeliano, del quale è stato leader ininterrottamente dal 1977 al 1992 e successivamente a più riprese sino al 2005, sin dagli anni settanta ha assunto diversi incarichi di rilievo in seno alle istituzioni di Israele, operando come primo ministro nei periodi 19841986 e 19951996, nonché come ministro degli Esteri (1986198819921995 e 20012002), della difesa, dei trasporti, delle finanze.

Nel 1994 a Peres è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat per gli sforzi nel processo di pace nel Vicino Oriente, culminati con gli Accordi di Oslo. Nel 2005 è diventato vicepremier nel governo di coalizione guidato da Ariel Sharon che gli ha affidato il ministero per lo sviluppo del Negev, della Galilea e dell’economia regionale. Nello stesso anno ha lasciato a sorpresa il Partito Laburista per aderire al partito centrista Kadima fondato dallo stesso Sharon. Eletto presidente d’Israele il 13 giugno 2007, è entrato in carica dal successivo 15 luglio sino al 24 luglio 2014. A partire dal 1º gennaio 2013 è stato il capo di Stato più anziano del mondo.[1]

ADDIO A PERES, UNA VITA PER LA PACE

 Molto più di altri giganti di quel sionismo “costruttivista” e di stampo socialista che ha fatto Israele, Shimon Peres incarnava quasi fisicamente la naturale tensione politica ed etica alla pace. Di quel sionismo infatti Peres prendeva d’istinto e senza remore la primazia della politica, la duttilità pragmatica  e l’ispirazione socialista. Al contrario di quasi tutti quei giovani e futuri grandi d’Israele che alla fine degli anni ‘40 fecero parte come lui della ristretta cerchia attorno al padre della patria David Ben Gurion, Peres non era un militare e un soldato. Era un politico. Non partiva dall’esercizio delle armi per poi inquadrarle in una superiore visione e pratica politica- come fecero molti altri del gruppo come Ytzhak Rabin e Moshe Dayan – bensì, al contrario, partiva dalla Politica per eventualmente arrivare alla sua traduzione pratica anche con le armi. Per lui era la politica la sola arte che poteva assicurare la sopravvivenza di quel fragile miracolo costituito dalla fondazione dello Stato d’Israele. Per questo, oltre che per il fatto di non essere un “sabra” perché era nato nel 1923 nell’allora Polonia  – il termine significa “fico d’india” in ebraico ed è usato per gli ebrei nati in Israele, come Rabin – Peres è stato il vero erede di Ben Gurion. E come Ben Gurion, Shimon Peres sentiva nelle sue corde la dottrina della mamlachiut – il primato della Nazione e la preminenza dello Stato sulla società civile. Ma proprio come il suo maestro – che lo storico israeliano Zeev Sternhell non a caso ha definito “il profeta armato” – non era affatto un pacifista. Semplicemente le armi non le usava in prima persona, ma le organizzava con la politica. Quando entrò nell’Haganà – il nucleo del futuro esercito d’Israele – nel 1947, il suo incarico fu infatti di responsabile del personale e dell’acquisto delle armi. Dimostrò subito un talento conseguente. Tanto che nella prima guerra d’indipendenza nel 1948, quando il neonato – per un voto dell’Onu, unico caso della Storia – Israele viene assaltato subito da ogni parte dagli eserciti di 5 paesi arabi e dalle milizie “volontarie” di altri 3, diviene capo della marina israeliana. E poi nel 1953 direttore generale del Ministero della Difesa. Qui l’idea di Peres che le armi fossero uno strumento della politica e non il contrario, che occorresse prima vedere dove e come colpire, e poi eventualmente tradurre tale visione in piani strategici e operativi, dispiegò tutto il suo potenziale. Ed è proprio in questo strategico ma oscuro ruolo che Peres comincia a diventare quello statista che poi avrà il suo massimo fulgore 40 anni più tardi come architetto del processo di pace di Oslo, con il conseguente Nobel per la Pace, e nel suo mandato di Presidente della Repubblica, dal 2007 al 2014. Perché è da questa postazione che Peres, figlio askenazita di un’Europa matrigna ma che conosceva ed amava, riesce ad instaurare un fecondo e profondo legame con la Francia. Riuscendo a far arrivare da quel paese le armi che servivano: sia quelle di piccolo taglio, necessarie per difendersi dai continui attacchi e infiltrazioni dal Libano, dalla Siria, dalla Giordania e dall’Egitto, sia quelle più potenti per la difesa aerea, come il moderno caccia Mirage, sia quelle “esistenziali” e di ultima difesa, come quelle nucleari. Peres è infatti il padre del programma atomico israeliano, e del reattore di Dimona che ne diviene la base dal 1957.

La sua pure quasi cinquantennale carriera parlamentare e politica nel laburismo, che comincia nel 1959 con il primo mandato alla Knesset per il Mapai, è in realtà nel bene e nel male già tutta in questo Peres architetto politico della sicurezza d’Israele. Un profilo che politicamente ne segnò per sempre il corso. Perché se Peres fosse stato un leader politico in un paese non minacciato esistenzialmente, il cui popolo aveva oltre tutto sofferto del terribile trauma della Shoà, egli avrebbe avuto onori e favore popolare pari alla sua competenza. Ma Peres era un politico e non un soldato, in un paese però necessariamente in armi. E così non sarà.


Verrà sempre guardato di sottecchi, come a verificarne la capacità di leadership, eternamente messa in dubbio, a tratti ridicolizzata a destra, a volte irrisa a sinistra dai suoi stessi compagni laburisti. La sua competenza politica lo porta ad essere molte volte ministro, dei Trasporti e delle Telecomunicazioni (1970-1974), della Difesa (1974-1977 e 1995-1996), delle Finanze (1988-1990), degli Affari Esteri (1986-1988 e 1992-1995 e2001-2002) ma Premier solo ad Interim (1984 -1986 e 1995-1996) e mai eletto. Perché il partito laburista lo scelse come proprio leader due volte – alle elezioni del 1977 e a quelle dopo l’omicidio di Rabin nel 1996 – ma Peres quelle elezioni le perse. Competente ma privo del necessario profilo militare per la prima linea da capofazione, Peres si rivelò infatti anche sfortunato, perché sia le elezioni politiche del 1977 (vinte da Menachem Begin) sia quelle del 1996 (vinte da Benjamin Netanyahu) furono elezioni periodizzanti nella svolta a destra del paese. Nel 1977 si interruppe un’egemonia politica del laburismo che durava dagli anni Trenta. Nel 1996 vince per la prima volta quel Netanyahu che poi rivinse altre tre volte, unico nella storia di Israele. Dopo quella anche umanamente terribile sconfitta da parte di colui che nelle piazze incitava all’odio per il premier Rabin e poi ne riuscì a prender il posto nelle elezioni che seguirono, Shimon Peres decide di rassegnarsi e di fare un passo indietro. Ed è proprio questo passo indietro che gli permetterà in realtà di farne due avanti. Guardandosi allo specchio capì che non era un generale, e dunque non sarebbe stato mai amato dal popolo come un eroico fratello maggiore. Però continuando a guardare vide uno statista e un saggio padre della Patria, conscio che la sua visione politica era l’unica che poteva garantire alla lunga la sicurezza di Israele.

Una visione politica e non messianica, che dunque vede al centro il Popolo e non la Terra, al contrario di quello che pensa quella destra israeliana oggi al potere, impegnata a riaprire una lotta sul sionismo che con Jabotinski la vide invece  perdente negli anni Trenta rispetto a Ben Gurion. Per questo scrisse anche “Ben Gurion, a Political Life” nel 2011, che è il suo vero testamento politico. Con lui se ne va anche la sua creatura, quel processo di Pace di Oslo che tanto ha fatto sperare. Ma il fatto che Peres statista per la prima volta sia accompagnato da quel favore popolare che da capofazione non ha mai ottenuto,  è segno non solo della serenità finale della sua straordinaria vita, ma anche delle risorse morali di cui Israele ancora dispone per reinventare e quindi costruire quella pace che Peres riteneva – a ragione – esiziale per la sopravvivenza del suo amato paese.  

Fabio Nicolucci

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