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Mio padre Amos e l’invenzione della speranza

Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per far sgorgare la luce dell’amore

Fania Oz-Salzberger | Jan. 2, 2019 | 8:47 PM | 5

Mio padre è morto di venerdì. Se i veri giusti muoiono nel giorno dello Shabbat, solo ora capisco che gli scrittori devono morire di venerdì. La notizia è trapelata appena prima di questo sabato invernale e per tutto il lungo fine settimana, in Israele e altrove, decine di migliaia di persone hanno saputo di mio padre e hanno letto le sue parole. Uno scrittore deve morire di venerdì.

All’età di quattro anni ho scoperto la morte. Sono andata da mio padre per confidargli il mio terribile spavento. Mio padre mi disse: «Non temere, Fania, perché per quando sarai grande avrò inventato qualcosa che impedirà alla gente di morire». Disse proprio così, con queste esatte parole. Andate a vedere: il papà venticinquenne che diceva queste cose alla sua bambina era il ragazzo di Soumchi, il ragazzo di Una pantera in cantina, il ragazzo del Monte del cattivo consiglio, e di Una storia di amore e di tenebra. Quel ragazzo di colpo è diventato padre: il mio.

Alcuni sostengono, e a ragione, che non bisogna dire a un bambino spaventato dalla morte che il padre inventerà qualcosa per fermarla. Come se da sole le parole bastassero a donarci la redenzione, la guarigione completa e finale, o almeno ci consentissero di guadagnare tempo, di rimandare il timore della morte di un bambino, di un adulto o di un anziano, per cullarli in un incantesimo artificiale addolcito dal miraggio di un futuro ancora possibile. Questa critica abbraccia anche la visione politica di mio padre. Certo, voglio parlare qui della sua visione politica perché, sia per lui che per me, la politica era una questione anche personale. Non tutto ciò che è personale è politico, ovviamente, ma tutto ciò che è politico è anche personale.

Alcuni pensano che l’«ottimismo» politico che ha accompagnato Amos Oz in quasi tutta la sua vita — non negli ultimi anni, ma per quasi tutta la sua vita — sia stato una fantasia sulla pace mondiale, sulla bontà complicata ma possibile del genere umano, sulla speranza di guarire la società. Riparare e guarire con zappe e badili, con libri e penne. Costoro hanno disprezzato il suo «ottimismo», e anzi, ne erano spaventati, quasi che la sua cocciuta battaglia per la pace tra arabi e israeliani, in particolare tra Israele e la Palestina, fosse una folle illusione, una pericolosa licenza poetica, un’ombra effimera nella caverna di Platone.

Mio padre ha insistito fino alla fine, fin verso la fine, che uomini e donne diventano più buoni con il passar del tempo, più complessi e più buoni, grazie al contatto con il prossimo, e con il dolore del prossimo, per quanto lontano e straniero, attraverso la capacità di raccontare storie e di ascoltare storie, che ci permette di immedesimarci per un breve istante nell’umanità estranea di personaggi lontani e sconosciuti. Mi diceva spesso: «Possiamo condensare tutte le leggi morali, i Dieci comandamenti e tutte le virtù umane in un unico precetto: non infliggere dolore. Tutto qui. Non fare del male. E se non ci riesci, almeno sforzati di causare il minor male che puoi. Di infliggere il minor dolore possibile».

Per tutta la sua vita mio padre si è sforzato di non causare dolore, ma talvolta non ci è riuscito. So benissimo che in alcune circostanze ha causato dolore agli altri. Ma so anche che tantissime persone si sono fatte avanti nelle ultime settimane per raccontarci come mio padre avesse prestato loro ascolto, o assistenza, con pazienza e generosità. Vedete, è davvero possibile alzarsi ogni giorno alle quattro del mattino e far di tutto per causare meno dolore. Causare meno dolore e scrivere. Anche questo faceva, dalle cinque del mattino, dopo la sua camminata all’alba, con la penna nera e la penna blu, per distinguere la voce del narratore dalla voce del cittadino-oratore.

Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per far sgorgare la luce dell’amore. E tra l’amore e le tenebre, e altrettanto complicato quanto l’amore per una donna, mio padre ha trascorso la sua vita a lottare con l’amore per la sua terra e il suo paese, Israele, lo Stato che è germogliato dalle lacrime dei suoi genitori. Con l’energia del testimone davanti al trionfo del sionismo, con la fede incrollabile della generazione che ha fondato uno Stato per gli ebrei in Israele, mio padre ha continuato a esplorare le vie per realizzare la speranza più recondita del sionismo, forse l’ultima speranza sionista rimasta ancora incompiuta: la pace qui tra noi e gli arabi. Ci sono uomini e donne, mi ripeteva, che crescono in bontà e saggezza negli angoli più sperduti del Paese, e saranno loro prima o poi ad afferrare in mano il timone di Israele. Saranno le persone più inattese, forse gli ultimi arrivati — non i famosi e gli assetati di gloria — che si faranno avanti e si metteranno alla guida. Verranno da terre ignote, dove già spuntano in segreto le grandi speranze del domani.

Non ottimismo, ma speranza. L’ottimismo è il colore della previsione; la speranza è la consapevolezza di un valore profondo, o figlia di un’immaginazione sovrumana. La speranza è l’opposto del fanatismo e del suo cugino germano, la disperazione, e di quell’altro parente, il cinismo. Tutti coloro che sbarrano le porte sono nemici della speranza. Parlo nella speranza che un giorno avremo anche noi pace e giustizia, quella giustizia sollecita e benevola che governa una società solidale e matura, non avida né zelante per qualche grande teorema, bensì capace di condividere in ogni cosa il rispetto e l’affetto per gli esseri umani così come sono. È la speranza per una società israeliana capace di nutrire giudaismo e umanesimo, le parole gemelle incise sulla porta di casa di nostro zio, Joseph Klausner. Quella stessa ebraicità i cui ingranaggi segreti, pur nell’assenza di fede in Dio, sono i figli, i libri e il dialogo. E per noi, nella nostra casa e nella nostra cultura, il dialogo con chiunque è sempre benvenuto, e il dibattito è accolto con gioia, infervorato e assordante quanto si voglia, purché non causi dolore a nessuno.

Così radicata e solida è questa grande speranza, che sebbene oggi taluni la respingano nel timore che potrebbe indebolirci e consegnarci nelle mani dei nostri nemici, un’infinità di persone ne sanno cogliere la grandezza. È una speranza che si annida nel centro stesso del sionismo, nel centro stesso dell’umanesimo. La speranza fa bene al cuore, lo allarga, spalanca gli orizzonti e spinge all’azione. Rappresenta l’arena e l’eredità per i nipoti che vivono in questa terra. E per i nipoti che vivono in qualunque parte del mondo.

Mio padre è morto, e chiunque pensi che una speranza come questa sia morta in Israele con la morte di Amos Oz non conosceva bene mio padre, perché lui sapeva che avremmo proseguito su questa strada. Aveva escogitato un’invenzione per non far spegnere la speranza. I suoi figli e nipoti, amici, studenti, lettori e interlocutori, persino i suoi degni oppositori, noi tutti faremo sì che non si estingua. Che sia chiaro: mi riferisco alla speranza di una vera pace qui tra un Israele democratico, uno Stato degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, uno Stato fondato sul diritto e sulla giustizia sociale, uno Stato in cui la lingua della Torah possa fiorire, al pari della cultura giudaica ed ebraica, a fianco delle culture arabe e mondiali. (…)

Abbiamo già cambiato la storia una volta. I genitori di mio padre, e i genitori della mia amatissima madre, i pionieri del Kibbutz Hulda e gli ebrei che sono approdati fin qui per vie di mare e di terra, da ogni angolo della diaspora, con un unico scopo nella mente, sospinti da un’immane catastrofe, tutti costoro hanno cambiato la storia. Sfuggiti alle fauci del demonio, hanno cambiato la storia. E noi, non possiamo anche noi, qui e ora, sperare e agire? Non credo che mio padre possa sentire quello sto dicendo. Era un ebreo profondamente laico. Lo sono anch’io. Eppure io sono certa, fermamente certa, che in questo momento egli stia accennando di sì con il capo.

Pertanto è possibile inventare qualcosa per far in modo che la nostra speranza umana e israeliana non muoia. È una speranza saggia e misurata, molto ebraica in un certo senso, una speranza che abbraccia tutti gli uomini e il mondo intero. La speranza che sia concessa a tutti una buona vita sulla terra, e che tutti, o quasi tutti, siano capaci di narrare storie e di ascoltare storie, ma con grande attenzione. La speranza che tutti allora possano cominciare, uno dopo l’altro, a non causare più dolore a nessun altro essere umano, o perlomeno a causare meno dolore.

Ho amato profondamente mio padre e la mia anima era vicina alla sua. Pensavo di venire qui oggi e di non riuscire ad aprir bocca, ma vedo che non mi sono mancate le parole. Abbiamo le parole. Le parole di mio padre e le parole degli altri, e tutte le parole buone che aspettano ancora di essere pronunciate. Queste parole ravvivano l’amore, incarnano i sogni e talvolta cambiano il mondo. Queste parole non moriranno, e presto qualche speranza si trasformerà in realtà anche qui da noi.

Grazie, abba (papà, ndt).>

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Il lascito di Rabin, vent’anni dopo

Di Gabriele Eschenazi

 Itzhak Rabin

Yitzhak Rabin

Sono trascorsi vent’anni dall’omicidio di Yitzhak Rabin per mano di Yigal Amir, estremista ebreo religioso, e ancora in Israele si avverte la necessità di interrogarsi sul significato e le conseguenze di quell’evento traumatico. Ci fu un’eredità politica da gestire, un sistema democratico da difendere, un apparato di sicurezza da mettere sotto esame.

“Abbiamo deciso di dare un’opportunità alla pace. Una pace che risolverà gran parte dei problemi dello stato d’Israele”, disse Rabin quella sera a Tel Aviv. Questo messaggio politico fondamentale è stato raccolto solo parzialmente dai leader, che si sono succeduti dopo di lui.

Il primo fu l’inossidabile Shimon Peres, anche lui, premio nobel a Oslo, ma perdente di natura tanto da non essere mai capace di vincere le elezioni a capo del partito laburista. Lo seguirono Ehud Barak ed Ehud Olmert, gli unici che dopo Rabin cercarono di riprendere il percorso degli accordi di Oslo verso lo stato palestinese. Non ci riuscirono, anche per responsabilità della controparte, e non dimostrarono una vera capacità di leadership. Barak chiuse ad ogni prospettiva di accordo dichiarando che ”non c’era un partner”; Olmert, dopo aver offerto ad Abu Mazen (che rifiutò) il 97% dei territori occupati, restò implicato in imbarazzanti episodi di corruzione e finì così senza gloria la sua carriera politica.

Un caso a parte è quello di Arik Sharon, che se da una parte ebbe il coraggio di lasciare Gaza, dall’altra evitò come la peste ogni accordo con i palestinesi isolando prima Arafat e ignorando dopo Abu Mazen. Bibi Netanyahu, che in questi vent’anni è riuscito a condizionare la politica israeliana sia dall’opposizione che dal governo, era il grande avversario di Rabin e ha usato gli accordi di Oslo non per raggiungere la pace bensì per suggellare all’infinito una situazione di occupazione e conflitto permanente.

L’esistenza di un’Autorità Palestinese è diventata col tempo un comodo alibi per continuare la colonizzazione della Cisgiordania, mantenerne il controllo militare e rendere Israele libero dalla gestione amministrativa. Non è un caso che Abu Mazen abbia più volte minacciato di sciogliere l’Autorità Palestinese. Dunque gli accordi di Oslo sono sopravvissuti a Rabin, ma non hanno dato spazio alla prospettiva di “Due popoli, due stati”, un concetto formalmente adottato anche da Bibi Netanyahu.

Il sistema democratico israeliano ha reagito alla morte di Rabin in questi anni così come in questi giorni. Con un film coraggioso presentato alla Mostra del Cinema di Venezia Amos Ghitai ha ripercorso con meticolosità i giorni prima e dopo l’assassinio di Rabin. Ogni canale israeliano ha proposto un suo documentario sul tema. Giornali e siti hanno ospitato analisi e testimonianze. Tra tutte spicca quella del fratello dell’assassino, Hagai Amir, che ha raccontato come suo fratello nel 1995 era pronto a morire da “shahid” pur di uccidere Rabin. Hagai aiutò il fratello nella sua impresa anche procurandogli le pallottole, ed è stato da poco incriminato per aver minacciato di morte su Facebook l’attuale capo dello stato Rubi Rivlin (membro dello stesso partito di Netanyahu, il Likud).

Yigal Amir è sempre in galera e il presidente Rivlin ha dichiarato che mai lo grazierà, gli estremisti di destra sono rimasti fuori dall’ultima Knesset, però la furia omicida dei fanatici della destra israeliana non si è fermata. Ancora oggi non sono stati arrestati gli assassini della famiglia di Duma, cellule terroristiche ebraiche operano nell’ombra e allo scoperto nei social network. Episodi di violenza ebraica si susseguono ad altri di parte palestinese in una spirale senza fine, che semina diffidenza, paura e progetti di nuovi muri.

Sabato 31 ottobre il presidente Rivlin e Bill Clinton hanno arringato la folla in piazza Rabin protetti da un muro di vetro antiproiettile. Il timore del ripetersi di un caso Rabin esiste ed è palpabile. La politica di Netanyahu fomenta e cavalca la paura, allontana la speranza, parla della gestione di un conflitto, che non vedrà soluzione per generazioni. In questo modo non rende un buon servizio al suo paese.

La specificità di Israele come paese democratico, tecnologicamente avanzato, aperto al mondo si corrode all’interno di un Medio Oriente dove a guerre sanguinarie tra fondamentalisti si associa la sopravvivenza di regimi politici di stampo medievale. Eppure è proprio questa specificità di Israele che Rabin voleva preservare presentandosi come leader di pace, affidabile, serio, coerente e duro nel difendere la sicurezza dei propri cittadini. Ne abbiamo ancora nostalgia e questo non è un buon segno.

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Il ricordo di Rabin a Tel Aviv tanti giovani per il dialogo

“Sono in piazza Rabin a Tel Aviv, dove si ricorda un uomo di pace che ha creduto fino in fondo nel dialogo israeliano-palestinese, pagando con la vita. La cosa più sorprendente è la partecipazione dei giovani con la bandiera israeliana, a dimostrazione che certi valori profondamente radicati non potranno mai essere messi in discussione da chi vorrebbe portare il Paese a una chiusura in se stesso. Israele è nato come Paese plurale e questa è la sua forza e ricchezza. Si può essere patrioti e nazionalisti in due modi diversi. Ma la capacità di inclusione è quella che Spinoza definisce come lo sviluppo migliore della propria potenza. Certamente mi piacerebbe vedere una manifestazione in ricordo di Rabin anche in un Paese arabo. È questo il grande problema irrisolto. Ma proprio per questo bisogna lavorare tanto”.

Gabriele Nissim, presidente di GariwoRT

5 novembre 2018

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Sergio Della Pergola su Idee

Pubblicato in Idee il ‍‍15/02/2018 – 30 שבט 5778

All’inizio del suo discorso alla nazione, martedì sera in televisione, poteva sembrare che il primo ministro Benjamin Netanyahu stesse per annunciare le sue dimissioni. Dopo aver elencato tutti i suoi meriti di soldato, diplomatico e uomo politico, poteva sembrare logico che seguisse una dichiarazione in cui Netanyahu prendeva atto dell’accusa di corruzione e violazione della fiducia emessa dalla Polizia nei suoi confronti e si ritirava a vita privata, per lo meno temporaneamente, per difendere il suo buon nome. Invece, il discorso è continuato con parole di sfida al sistema dell’ordine pubblico e della giustizia, e si è concluso con una inequivocabile dichiarazione: sono qui, rimango, e resterò.
Nel proclamare questo, Netanyahu si è dimenticato di dire una sola parola di confutazione delle accuse che gli ha mosso la polizia israeliana: l’aver ricevuto un milione di shekel in regali da un potente personaggio al quali è stato restituito il favore attraverso provvedimenti legislativi che avrebbero creato a quest’ultimo enormi benefici fiscali; l’aver interferito attivamente nella stampa quotidiana in modo da far ottenere benefici economici all’editore di Yediot Aharonot. Per questo, anche Arnon Milchan e Arnon Moses sono stati messi sotto accusa dalla polizia. Laddove c’è un corrotto c’è sempre anche un corruttore. In risposta alle accuse, peraltro appunto non smentite, Netanyahu si è rivolto direttamente alla nazione, fissando lo schermo e deridendo e delegittimando le pubbliche istituzioni: la polizia e il sistema giudiziario.
Questo modo di fare è – duole dirlo – dittatoriale. Così come dittatoriale è il quotidiano culto della personalità propria e dei propri familiari. Così come lo è il suo esplicito vanto di fronte alla nazione di essersi immischiato direttamente nell’aprire, chiudere, fondere o sdoppiare canali televisivi. Il regime del sempre più autocratico e accentratore Netanyahu degli ultimi anni – Primo ministro, ministro degli Esteri, ministro delle Comunicazioni responsabile della Televisione di stato, ministro dell’Economia responsabile dello Sviluppo delle fonti di gas sottomarine – è diventato quello di un uomo solo al comando.
Netanyahu ha puntato su alleanze internazionali quasi esclusivamente incentrate su personaggi e regimi di estrema destra erodendo o nullificando altre possibili alleanze. Ha sostenuto una politica economica che favorisce la polarizzazione sociale, l’arricchimento dei ricchi e il declino delle classi medie. Ha svolto una strategia difensiva piena di grandi dichiarazioni che però non sono riuscite ad evitare il surriscaldamento delle frontiere settentrionali e lo scontro militare diretto con l’Iran. Ha praticamente azzerato il ministero degli Esteri, riducendo così la capacità di manovra diplomatica del paese. Ha ceduto le redini degli affari religiosi a circoli estremistici che condizionano pesantemente i suoi governi di coalizione e lo spirito ebraico della nazione. Ha quasi distrutto il rapporto fra Israele e la grande diaspora americana i cui giovani si allontanano rapidamente da Israele. Ha promosso inutili e reazionarie leggi nazionaliste e l’annessione strisciante dei territori, ignorando il grave dilemma demografico dello stato binazionale. Ha cercato di ridurre e circoscrivere il potere della Corte Suprema, mettendo a rischio la divisione dei poteri nello stato democratico. Ha allontanato da sé i collaboratori più validi e si è circondato di lacchè mediocri, sguaiati e totalitari.
Sul piano della trattativa politica o di eventuali nuove iniziative di pace con i palestinesi non ha fatto nulla. La sicurezza e l’immagine di Israele ne sono uscite fortemente compromesse.
Israele è uno stato molto forte, ricco di risorse umane, ottimista e positivo, e con grandi capacità di innovazione e di esecuzione. Ma la gestione Netanyahu ha causato gravissimi danni politici e economici al paese che ne esce indebolito. Netanyahu ha seguito modi di comportamento personali lontanissimi da quelli molto frugali di precedenti primi ministri come David Ben Gurion, Moshe Sharrett, Levi Eshkol, Golda Meir, Menahem Begin, Itzhak Shamir, Itzhak Rabin, e più simili a quelli di Ehud Olmert che è finito in carcere. Ora la polizia lo rimanda al giudizio della Procura di stato che dovrà decidere se iniziare un regolare processo.
Al Primo ministro spetta il diritto di essere considerato innocente finché in tribunale non sarà provato il contrario. Auguriamogli di uscire indenne da questa prova che durerà moltissimi mesi e metterà l’intera società israeliana a dura prova. I danni causati, in ogni caso, sono irreversibili.
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Questo è il mio seicentesimo intervento scritto sul notiziario quotidiano dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche 24 edito dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
La mia collaborazione è iniziata dieci anni fa e mi ha dato l’occasione di riferire liberamente notizie, idee, preoccupazioni e speranze.
La mia è stata la voce di un ebreo italiano e di un israeliano, democratico, leale al proprio paese, rispettoso delle istituzioni, e al di sopra di tutto appassionato difensore dello Stato d’Israele.
In Israele e a Gerusalemme si è svolta tutta la mia attività professionale, vivono i miei figli e nipoti, e si trova il futuro del Popolo ebraico.
Oggi, dopo gli ultimi straordinari sviluppi politici, per onestà dovrei passare tutto il mio tempo a criticare e stigmatizzare i comportamenti e le responsabilità del Primo ministro di Israele, il cui ruolo e la cui presenza mi paiono deleteri per il futuro del Paese. E questo francamente non è ciò che ci si attende di leggere sulla stampa ebraica.
Pertanto ritengo più opportuno ritirarmi e concludere qui questo bel capitolo di scrittura pubblicistica, ringraziando il direttore Guido Vitale per il suo costante sostegno, e restituendo questo spazio, che mi è stato fin qui gentilmente riservato, ad altri che di sicuro meglio di me sapranno utilizzarlo. Shalom.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

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Sulla giornata della memoria

Quando fu istituita nel 2000, la Giornata della Memoria del 27 gennaio era bellissima, giovane e senza rughe. Quest’anno è appena maggiorenne, eppure mostra alcuni acciacchi. Che cosa l’ha invecchiata? Due distinti fattori. La Giornata della Memoria soffre infatti dei problemi tipici di ogni ricorrenza istituzionalizzata, ma anche di problemi specifici.

Per quanto riguarda i primi, rimandano alla “fatica” di far rivivere un evento eccezionale nella sua drammaticità – e la Shoà è l”evento di tutti gli eventi” – secondo modalità istituzionali. Cioè programmate. Un dramma storico che ha sollevato e solleva turbini di passioni e di dolore, viene necessariamente compresso dentro una cornice, che è di per sé anestetica. Perché in un periodo temporalmente ridotto concentra un significato che fa fatica ad esserlo. E al contempo lo sovraespone in una miriade di iniziative editoriali, educative e politiche, facendone un rituale. Tanto da sollevare obiezioni sulla sua pregnanza anche nello stesso mondo ebraico, basti pensare al pamphlet di Elena Lowenthal “Contro il Giorno della Memoria”, che provocatoriamente invitava a guardare ai pericoli di una memoria non necessariamente positiva perché indirizzata ai morti, mentre l’ebraismo è cultura della vita. Se però si vuole fare un bilancio, accanto a difetti sulla qualità la Giornata ha mostrato anche grandi pregi, per lo più sulla quantità. Averla istituzionalizzata ha infatti coinvolto un numero di persone prima inedito. Le iniziative sono infatti per legge organizzate “in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado”, e il mondo della Scuola ha quasi un milione di insegnanti e personale non docente, poco meno di 10 milioni di studenti che a loro volta hanno in genere due genitori. Nel complesso, il bilancio appare dunque in attivo. Molte scuole e i loro alunni hanno anche visitato di persona Auschwitz-Birkenau, vedendo con i propri occhi la reale esistenza di quell’entrata infernale prima solo vista nel film “Schinder’s List”, quando il treno dei deportati arriva nel Campo di sterminio, e perciò inverandola. Un’esperienza fatta con i testimoni sopravvissuti allo sterminio nazista, a cui il regime fascista collaborò attivamente con le leggi razziali, di cui quest’anno ricorre l’80esimo.

Ma ciò era possibile con la memoria diretta, con la testimonianza dei testimoni. Si avvicina però il momento nel quale essi non ci saranno più, e non sarà più possibile ascoltare dal vivo le loro testimonianze, come per esempio quella di Sami Modiano, che vedremo nel commovente film di Walter Veltroni stasera in tv.

Passare però da una memoria diretta all’attivazione di una memoria indiretta e “secondaria” non è un passaggio né semplice né automatico, come è ben chiaro allo Yad Vashem – l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoà, istituito nel 1953 a Gerusalemme – che vi lavora oramai da anni. Ed essendo questo processo già cominciato, qui iniziano i problemi specifici della Giornata della Memoria.

Questa “seconda” memoria è infatti cosa totalmente diversa da quella diretta. Perché a definirne il perimetro e i caratteri non è più l’identità del Persecutore, bensì l’identità della Vittima. E mentre sul nazismo vi sono pochi dubbi o contese, i problemi sorgono quando a definire la Giornata della Memoria è l’identità della vittima. Perché l’identità ebraica, malgrado il tentativo della Soluzione Finale è per fortuna ancora vitale e pulsante, ed è per questo dinamica.  Muta nel tempo e nello spazio del Politico.

Essa è composta da due polmoni, lo Stato d’Israele e la Diaspora. In ambedue vi è oggi una fortissima tendenza ad isolarsi, a cercare di far da sé, vista anche la propria accresciuta forza relativa, pensando che da fuori possano venire più problemi che opportunità. Che occorre chiudersi e non aprirsi. Questa chiusura identitaria ha però effetti perniciosi sul tipo di memoria secondaria che si sta costruendo. Con il rischio di farla meno larga e condivisa. Oltre che di impoverire la forte carica etica dell’ebraismo, che può dispiegarsi solo in una equilibrata dialettica tra passato e presente.

Lo si è visto di recente a Milano, quando da un lato vi è stato fastidio in piccola parte della locale comunità ebraica sulla Giornata della Memoria come è oggi, con il rischio di delegittimarla invece che migliorarla. E dall’altro, forse di conseguenza, il copresidente della comunità ebraica milanese ha ritenuto di fare un chiaro gesto di sostegno ad un candidato alla Regione che aveva dichiarato di voler tutelare “la razza bianca”. Anche se poi la comunità ha ufficialmente sconfessato il gesto. Che occorra reinventare la Giornata della Memoria è dunque fuori di dubbio. Se si vuole raccogliere però in modo corretto il testimone dalla prima generazione, occorrerà un doppio sforzo. Evitare certo la retorica e il rituale, che spesso prescinde dal presente dei vivi. Ma anche la sua sola attualizzazione nel presente e nella politica di oggi, con il rischio di far torto ai morti.

Fabio Nicolucci

(articolo uscito su Il Messaggero e Il Mattino di sabato 27 gennaio 2018)

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Rabin e il lento suicidio di Israele

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Vent’anni dopo. «La pace si negozia con i nemici – ripeteva con forza – e la faremo ad ogni costo». A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola – quasi una riedizione di quelli sparati a Sarajevo – chiusero la prima porta verso la pace.

di Giuseppe Cassini

 

Edizione del 04.11.2015

Con lo sguardo lungo si vede meglio quando è ini­ziato il cam­mino d’Israele verso il sui­ci­dio: è ini­ziato 20 anni fa, il 4 novem­bre 1995, con l’assissinio di Rabin per mano di un ebreo estre­mi­sta. Il mese prima era­vamo al Ver­tice di Amman: le parole di Rabin e dei lea­der pale­sti­nesi lascia­vano pre­sa­gire com­pro­messi immi­nenti e riso­lu­tivi. Incon­trai Rabin un’ultima volta a cena: i suoi occhi di un azzurro intenso, ogni volta che ti fis­sa­vano infon­de­vano fidu­cia e un senso di visione. «La pace si nego­zia con i nemici — ripe­teva con forza — e la faremo ad ogni costo». Ad ogni costo? A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola — quasi una rie­di­zione di quelli spa­rati a Sara­jevo — chiu­sero la prima porta verso la pace.

Poi fu un seguito di occa­sioni spre­cate. Marzo 2002, al Ver­tice della Lega Araba a Bei­rut vedemmo il re sau­dita pre­sen­tare un piano di pace impec­ca­bile, accet­tato da tutti mem­bri della Lega Araba. Ecco, final­mente ci siamo — pen­savo io — ma Tel Aviv la pen­sava diver­sa­mente. Gen­naio 2006, ele­zioni in Pale­stina e vit­to­ria di Hamas a Gaza: Israele spinse Usa e Ue a disco­no­scerne i risul­tati, ben­ché gli osser­va­tori inter­na­zio­nali con­fer­mas­sero che le ele­zioni si erano svolte senza bro­gli. Il resto del mondo iro­niz­zava: demo­cra­zia à la carte? Luglio 2006, Tsa­hal seminò di morte mezzo Libano per eli­mi­nare Hez­bol­lah e i suoi razzi arti­gia­nali; oggi Hez­bol­lah pos­siede mis­sili a lunga git­tata (altro che razzi!) in grado di col­pire mezzo Israele. E poi 2008, 2009, 2012, 2014: Tsa­hal mar­tellò Gaza nel ten­ta­tivo di eli­mi­nare razzi, tun­nel e capi di Hamas (quel par­tito che Israele stesso aveva aiu­tato a nascere per desta­bi­liz­zare al-Fatah), al prezzo di migliaia di vit­time civili, senza pietà verso feriti e rifu­giati negli ospe­dali e nelle scuole dell’Unrwa.

A che pro? Per farsi con­dan­nare dall’ONU un’ennesima volta e istil­lare nuova linfa nella resi­stenza pale­sti­nese. Ecco, infatti, la Terza Inti­fada. Chi viag­gia oggi­giorno in Ter­ra­santa non trova trac­cia dello spi­rito ideale dei kib­butz, incro­cia piut­to­sto gruppi di orto­dossi che ti squa­drano con occhiate lam­peg­gianti di fana­ti­smo; e se cam­mini di sabato nei loro quar­tieri puoi bec­carti anche qual­che sas­sata. Forte della sua mag­gio­ranza alla Knes­set, Neta­nyahu con­duce len­ta­mente il Paese al sui­ci­dio invi­tando ebrei inva­sati ad occu­pare terre non loro, ren­dendo impos­si­bile la solu­zione dei due Stati, invi­tando i suoi con­cit­ta­dini ad armarsi, eri­gendo muri su muri, umi­liando i pale­sti­nesi mode­rati… e lo stesso Obama davanti al Con­gresso. Soste­nendo infine (lui figlio di uno sto­rico!) che il pro­getto dell’Olocausto fu ispi­rato a Hitler dal Gran Mufti di Geru­sa­lemme. Quos Deus vult per­dere, demen­tat prius.

È pro­prio vero: a coloro che vuol rovi­nare, Dio toglie anzi­tutto la ragione. Iden­ti­fi­care il popolo ebraico con lo Stato israe­liano fini­sce per «giu­sti­fi­care» — in una logica uguale e con­tra­ria – il dila­gare dell’antisemitismo in Europa. E pre­sto anche in Ame­rica. Già ora gran parte dei Demo­cra­tici, che un tempo erano i più osse­quienti alle «ragioni» d’Israele, hanno preso le distanze. Lo stesso Obama, un tipo in genere assai calmo, ha perso le staffe più volte. Memo­ra­bile lo scam­bio di bat­tute fuori onda con Sar­kozy al G20 di Can­nes nel 2011: «Non ne posso più di Neta­nyahu, è un bugiardo!» aveva bisbi­gliato Sar­kozy; e Obama di rimando: «Lo dici a me che devo trat­tare ogni giorno con lui?».

I sio­ni­sti ame­ri­cani che vedono in Israele la rea­liz­za­zione in terra delle pro­fe­zie bibli­che – tipi come il pastore John Hagee, fac­cia e stazza texana, che bene­diva i raid israe­liani con pre­di­che ispi­rate («L’umanità verrà giu­di­cata per le sue azioni nei riguardi d’Israele») – sareb­bero capaci con pari fana­ti­smo di riab­brac­ciare l’antico anti­se­mi­ti­smo se un giorno si risve­glias­sero con que­sta domanda: pos­si­bile che un pic­colo Stato stra­niero tenga in scacco da mezzo secolo la super-potenza del mondo? Non per niente Israele si guarda bene dal seguire gli altri 123 mem­bri dell’Onu che hanno ade­rito alla Corte Penale Inter­na­zio­nale: per­ché il suo obiet­tivo non è di accet­tare la sfida nei pro­cessi, bensì di star fuori dai pro­cessi (per­ciò Ber­lu­sconi faceva il tifo per Neta­nyahu). L’occupazione mili­tare sta met­tendo in peri­colo la sicu­rezza stessa che dovrebbe tute­lare. E le destre euro­pee e ame­ri­cane, per­si­stendo a garan­tire l’impunità ad Israele, stanno in realtà sca­van­do­gli la fossa: l’ha capito prima degli altri l’ex-presidente della Knes­set, Avra­ham Burg, quando ha scon­giu­rato di “sal­vare Israele da se stesso”.

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