Una serata sul tema dell’intolleranza e della discriminazione e sulle conseguenze pericolose per il nostro vivere democratico.
Mercoledì 23 gennaio 2019 Serata in ricordo di Roberto Franceschi 1973 – 2019
Aula Magna Università Bocconi – Via Gobbi 5, Milano in collaborazione con ISU Bocconi Ore 20.00 ingresso gratuito
DIVERSI
Il Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo.
Umberto Eco
In apertura:
Lydia Franceschi, Presidente Onoraria Fondazione Roberto Franceschi Onlus Gianmario Verona, Rettore Università Bocconi Paola Arzenati, Direttore Generale Fondazione Isacchi Samaja Onlus proclameranno i vincitori dei Fondi di Ricerca Roberto Franceschi.
A seguire:
Proiezione del Film 1938: DIVERSI
Il film sarà preceduto da un incontro coordinato da Benedetta Tobagi, con la partecipazione di:
Paolo Berizzi, giornalista e scrittore Marco Damilano, direttore de L’Espresso Gad Lerner, giornalista e scrittore Roberto Levi, produttore del film Massimo Righetti, distributore del film Giorgio Treves, regista del film
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti, previa registrazione.
Il film sarà inoltre proiettato eccezionalmente per le scuole alle 12.30 dello stesso giorno presso l’Istituto Artemisia Gentileschi di via Natta 10 a Milano, alla presenza del regista Giorgio Treves.
Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e
per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per
far sgorgare la luce dell’amore
Fania
Oz-Salzberger | Jan. 2, 2019
| 8:47 PM | 5
Mio padre è morto di venerdì. Se i
veri giusti muoiono nel giorno dello Shabbat, solo ora capisco che gli
scrittori devono morire di venerdì. La notizia è trapelata appena prima di questo sabato invernale e
per tutto il lungo fine settimana, in Israele e altrove, decine di migliaia di
persone hanno saputo di mio padre e hanno letto le sue parole. Uno scrittore
deve morire di venerdì.
All’età di quattro anni ho scoperto la morte. Sono andata
da mio padre per confidargli il mio terribile spavento. Mio padre mi disse:
«Non temere, Fania, perché per quando sarai grande avrò inventato qualcosa che
impedirà alla gente di morire». Disse proprio così, con queste esatte parole.
Andate a vedere: il papà venticinquenne che diceva queste cose alla sua bambina
era il ragazzo di Soumchi, il ragazzo di Una pantera in cantina,
il ragazzo del Monte del cattivo consiglio, e di Una storia di amore e di tenebra.
Quel ragazzo di colpo è diventato padre: il mio.
Alcuni sostengono, e a ragione, che non bisogna dire
a un bambino spaventato dalla morte che il padre inventerà qualcosa per
fermarla. Come se da sole le parole bastassero a donarci la redenzione, la
guarigione completa e finale, o almeno ci consentissero di guadagnare tempo, di
rimandare il timore della morte di un bambino, di un adulto o di un anziano,
per cullarli in un incantesimo artificiale addolcito dal miraggio di un futuro
ancora possibile. Questa critica abbraccia anche la visione politica di mio padre.
Certo, voglio parlare qui della sua visione politica perché, sia per lui che
per me, la politica era una questione anche personale. Non tutto ciò che è
personale è politico, ovviamente, ma tutto ciò che è politico è anche
personale.
Alcuni pensano che l’«ottimismo» politico che ha accompagnato
Amos Oz in quasi tutta la sua vita — non negli ultimi anni, ma per quasi tutta
la sua vita — sia stato una fantasia sulla pace mondiale, sulla bontà
complicata ma possibile del genere umano, sulla speranza di guarire la società.
Riparare e guarire con zappe e badili, con libri e penne. Costoro hanno
disprezzato il suo «ottimismo», e anzi, ne erano spaventati, quasi che la sua
cocciuta battaglia per la pace tra arabi e israeliani, in particolare tra
Israele e la Palestina, fosse una folle illusione, una pericolosa licenza
poetica, un’ombra effimera nella caverna di Platone.
Mio padre ha insistito fino alla fine, fin verso la fine,
che uomini e donne diventano più buoni con il passar del tempo, più complessi e
più buoni, grazie al contatto con il prossimo, e con il dolore del prossimo,
per quanto lontano e straniero, attraverso la capacità di raccontare storie e
di ascoltare storie, che ci permette di immedesimarci per un breve istante
nell’umanità estranea di personaggi lontani e sconosciuti. Mi diceva spesso:
«Possiamo condensare tutte le leggi morali, i Dieci comandamenti e tutte le
virtù umane in un unico precetto: non infliggere dolore. Tutto qui. Non fare
del male. E se non ci riesci, almeno sforzati di causare il minor male che
puoi. Di infliggere il minor dolore possibile».
Per tutta la sua vita mio padre si è sforzato di non causare dolore,
ma talvolta non ci è riuscito. So benissimo che in alcune circostanze ha
causato dolore agli altri. Ma so anche che tantissime persone si sono fatte
avanti nelle ultime settimane per raccontarci come mio padre avesse prestato
loro ascolto, o assistenza, con pazienza e generosità. Vedete, è davvero
possibile alzarsi ogni giorno alle quattro del mattino e far di tutto per causare
meno dolore. Causare meno dolore e scrivere. Anche questo faceva, dalle cinque
del mattino, dopo la sua camminata all’alba, con la penna nera e la penna blu,
per distinguere la voce del narratore dalla voce del cittadino-oratore.
Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e per
loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per far
sgorgare la luce dell’amore. E tra l’amore e le tenebre, e altrettanto
complicato quanto l’amore per una donna, mio padre ha trascorso la sua vita a
lottare con l’amore per la sua terra e il suo paese, Israele, lo Stato che è
germogliato dalle lacrime dei suoi genitori. Con l’energia del testimone
davanti al trionfo del sionismo, con la fede incrollabile della generazione che
ha fondato uno Stato per gli ebrei in Israele, mio padre ha continuato a
esplorare le vie per realizzare la speranza più recondita del sionismo, forse
l’ultima speranza sionista rimasta ancora incompiuta: la pace qui tra noi e gli
arabi. Ci sono uomini e donne, mi ripeteva, che crescono in bontà e saggezza
negli angoli più sperduti del Paese, e saranno loro prima o poi ad afferrare in
mano il timone di Israele. Saranno le persone più inattese, forse gli ultimi
arrivati — non i famosi e gli assetati di gloria — che si faranno avanti e si
metteranno alla guida. Verranno da terre ignote, dove già spuntano in segreto
le grandi speranze del domani.
Non ottimismo, ma speranza. L’ottimismo è il colore della previsione;
la speranza è la consapevolezza di un valore profondo, o figlia di
un’immaginazione sovrumana. La speranza è l’opposto del fanatismo e del suo
cugino germano, la disperazione, e di quell’altro parente, il cinismo. Tutti
coloro che sbarrano le porte sono nemici della speranza. Parlo nella speranza
che un giorno avremo anche noi pace e giustizia, quella giustizia sollecita e
benevola che governa una società solidale e matura, non avida né zelante per
qualche grande teorema, bensì capace di condividere in ogni cosa il rispetto e
l’affetto per gli esseri umani così come sono. È la speranza per una società
israeliana capace di nutrire giudaismo e umanesimo, le parole gemelle incise
sulla porta di casa di nostro zio, Joseph Klausner. Quella stessa ebraicità i
cui ingranaggi segreti, pur nell’assenza di fede in Dio, sono i figli, i libri
e il dialogo. E per noi, nella nostra casa e nella nostra cultura, il dialogo
con chiunque è sempre benvenuto, e il dibattito è accolto con gioia,
infervorato e assordante quanto si voglia, purché non causi dolore a nessuno.
Così radicata e solida è questa grande speranza,
che sebbene oggi taluni la respingano nel timore che potrebbe indebolirci e
consegnarci nelle mani dei nostri nemici, un’infinità di persone ne sanno
cogliere la grandezza. È una speranza che si annida nel centro stesso del sionismo,
nel centro stesso dell’umanesimo. La speranza fa bene al cuore, lo allarga,
spalanca gli orizzonti e spinge all’azione. Rappresenta l’arena e l’eredità per
i nipoti che vivono in questa terra. E per i nipoti che vivono in qualunque
parte del mondo.
Mio padre è morto, e chiunque pensi che una speranza come
questa sia morta in Israele con la morte di Amos Oz non conosceva bene mio
padre, perché lui sapeva che avremmo proseguito su questa strada. Aveva
escogitato un’invenzione per non far spegnere la speranza. I suoi figli e
nipoti, amici, studenti, lettori e interlocutori, persino i suoi degni
oppositori, noi tutti faremo sì che non si estingua. Che sia chiaro: mi
riferisco alla speranza di una vera pace qui tra un Israele democratico, uno
Stato degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, uno Stato fondato sul diritto e
sulla giustizia sociale, uno Stato in cui la lingua della Torah possa fiorire,
al pari della cultura giudaica ed ebraica, a fianco delle culture arabe e
mondiali. (…)
Abbiamo già cambiato la storia una volta. I genitori di
mio padre, e i genitori della mia amatissima madre, i pionieri del Kibbutz
Hulda e gli ebrei che sono approdati fin qui per vie di mare e di terra, da
ogni angolo della diaspora, con un unico scopo nella mente, sospinti da
un’immane catastrofe, tutti costoro hanno cambiato la storia. Sfuggiti alle
fauci del demonio, hanno cambiato la storia. E noi, non possiamo anche noi, qui
e ora, sperare e agire? Non credo che mio padre possa sentire quello sto
dicendo. Era un ebreo profondamente laico. Lo sono anch’io. Eppure io sono
certa, fermamente certa, che in questo momento egli stia accennando di sì con
il capo.
Pertanto è possibile inventare qualcosa per far in modo
che la nostra speranza umana e israeliana non muoia. È una speranza saggia e
misurata, molto ebraica in un certo senso, una speranza che abbraccia tutti gli
uomini e il mondo intero. La speranza che sia concessa a tutti una buona vita
sulla terra, e che tutti, o quasi tutti, siano capaci di narrare storie e di
ascoltare storie, ma con grande attenzione. La speranza che tutti allora
possano cominciare, uno dopo l’altro, a non causare più dolore a nessun altro
essere umano, o perlomeno a causare meno dolore.
Ho amato profondamente mio padre e la mia anima
era vicina alla sua. Pensavo di venire qui oggi e di non riuscire ad aprir
bocca, ma vedo che non mi sono mancate le parole. Abbiamo le parole. Le parole
di mio padre e le parole degli altri, e tutte le parole buone che aspettano
ancora di essere pronunciate. Queste parole ravvivano l’amore, incarnano i
sogni e talvolta cambiano il mondo. Queste parole non moriranno, e presto
qualche speranza si trasformerà in realtà anche qui da noi.
Sono trascorsi vent’anni dall’omicidio di Yitzhak Rabin per mano di Yigal Amir, estremista ebreo religioso, e ancora in Israele si avverte la necessità di interrogarsi sul significato e le conseguenze di quell’evento traumatico. Ci fu un’eredità politica da gestire, un sistema democratico da difendere, un apparato di sicurezza da mettere sotto esame.
“Abbiamo deciso di dare un’opportunità alla pace. Una pace che risolverà gran parte dei problemi dello stato d’Israele”, disse Rabin quella sera a Tel Aviv. Questo messaggio politico fondamentale è stato raccolto solo parzialmente dai leader, che si sono succeduti dopo di lui.
Il primo fu l’inossidabile Shimon Peres, anche lui, premio nobel a Oslo, ma perdente di natura tanto da non essere mai capace di vincere le elezioni a capo del partito laburista. Lo seguirono Ehud Barak ed Ehud Olmert, gli unici che dopo Rabin cercarono di riprendere il percorso degli accordi di Oslo verso lo stato palestinese. Non ci riuscirono, anche per responsabilità della controparte, e non dimostrarono una vera capacità di leadership. Barak chiuse ad ogni prospettiva di accordo dichiarando che ”non c’era un partner”; Olmert, dopo aver offerto ad Abu Mazen (che rifiutò) il 97% dei territori occupati, restò implicato in imbarazzanti episodi di corruzione e finì così senza gloria la sua carriera politica.
Un caso a parte è quello di Arik Sharon, che se da una parte ebbe il coraggio di lasciare Gaza, dall’altra evitò come la peste ogni accordo con i palestinesi isolando prima Arafat e ignorando dopo Abu Mazen. Bibi Netanyahu, che in questi vent’anni è riuscito a condizionare la politica israeliana sia dall’opposizione che dal governo, era il grande avversario di Rabin e ha usato gli accordi di Oslo non per raggiungere la pace bensì per suggellare all’infinito una situazione di occupazione e conflitto permanente.
L’esistenza di un’Autorità Palestinese è diventata col tempo un comodo alibi per continuare la colonizzazione della Cisgiordania, mantenerne il controllo militare e rendere Israele libero dalla gestione amministrativa. Non è un caso che Abu Mazen abbia più volte minacciato di sciogliere l’Autorità Palestinese. Dunque gli accordi di Oslo sono sopravvissuti a Rabin, ma non hanno dato spazio alla prospettiva di “Due popoli, due stati”, un concetto formalmente adottato anche da Bibi Netanyahu.
Il sistema democratico israeliano ha reagito alla morte di Rabin in questi anni così come in questi giorni. Con un film coraggioso presentato alla Mostra del Cinema di Venezia Amos Ghitai ha ripercorso con meticolosità i giorni prima e dopo l’assassinio di Rabin. Ogni canale israeliano ha proposto un suo documentario sul tema. Giornali e siti hanno ospitato analisi e testimonianze. Tra tutte spicca quella del fratello dell’assassino, Hagai Amir, che ha raccontato come suo fratello nel 1995 era pronto a morire da “shahid” pur di uccidere Rabin. Hagai aiutò il fratello nella sua impresa anche procurandogli le pallottole, ed è stato da poco incriminato per aver minacciato di morte su Facebook l’attuale capo dello stato Rubi Rivlin (membro dello stesso partito di Netanyahu, il Likud).
Yigal Amir è sempre in galera e il presidente Rivlin ha dichiarato che mai lo grazierà, gli estremisti di destra sono rimasti fuori dall’ultima Knesset, però la furia omicida dei fanatici della destra israeliana non si è fermata. Ancora oggi non sono stati arrestati gli assassini della famiglia di Duma, cellule terroristiche ebraiche operano nell’ombra e allo scoperto nei social network. Episodi di violenza ebraica si susseguono ad altri di parte palestinese in una spirale senza fine, che semina diffidenza, paura e progetti di nuovi muri.
Sabato 31 ottobre il presidente Rivlin e Bill Clinton hanno arringato la folla in piazza Rabin protetti da un muro di vetro antiproiettile. Il timore del ripetersi di un caso Rabin esiste ed è palpabile. La politica di Netanyahu fomenta e cavalca la paura, allontana la speranza, parla della gestione di un conflitto, che non vedrà soluzione per generazioni. In questo modo non rende un buon servizio al suo paese.
La specificità di Israele come paese democratico, tecnologicamente avanzato, aperto al mondo si corrode all’interno di un Medio Oriente dove a guerre sanguinarie tra fondamentalisti si associa la sopravvivenza di regimi politici di stampo medievale. Eppure è proprio questa specificità di Israele che Rabin voleva preservare presentandosi come leader di pace, affidabile, serio, coerente e duro nel difendere la sicurezza dei propri cittadini. Ne abbiamo ancora nostalgia e questo non è un buon segno.
“Sono in piazza Rabin a Tel Aviv, dove si ricorda un uomo di pace che ha creduto fino in fondo nel dialogo israeliano-palestinese, pagando con la vita. La cosa più sorprendente è la partecipazione dei giovani con la bandiera israeliana, a dimostrazione che certi valori profondamente radicati non potranno mai essere messi in discussione da chi vorrebbe portare il Paese a una chiusura in se stesso. Israele è nato come Paese plurale e questa è la sua forza e ricchezza. Si può essere patrioti e nazionalisti in due modi diversi. Ma la capacità di inclusione è quella che Spinoza definisce come lo sviluppo migliore della propria potenza. Certamente mi piacerebbe vedere una manifestazione in ricordo di Rabin anche in un Paese arabo. È questo il grande problema irrisolto. Ma proprio per questo bisogna lavorare tanto”.
All’inizio
del suo discorso alla nazione, martedì sera in televisione, poteva sembrare che
il primo ministro Benjamin Netanyahu stesse per annunciare le sue dimissioni.
Dopo aver elencato tutti i suoi meriti di soldato, diplomatico e uomo politico,
poteva sembrare logico che seguisse una dichiarazione in cui Netanyahu prendeva
atto dell’accusa di corruzione e violazione della fiducia emessa dalla Polizia
nei suoi confronti e si ritirava a vita privata, per lo meno temporaneamente,
per difendere il suo buon nome. Invece, il discorso è continuato con parole di
sfida al sistema dell’ordine pubblico e della giustizia, e si è concluso con
una inequivocabile dichiarazione: sono qui, rimango, e resterò.
Nel proclamare questo, Netanyahu si è dimenticato di dire una sola parola di
confutazione delle accuse che gli ha mosso la polizia israeliana: l’aver
ricevuto un milione di shekel in regali da un potente personaggio al quali è
stato restituito il favore attraverso provvedimenti legislativi che avrebbero
creato a quest’ultimo enormi benefici fiscali; l’aver interferito attivamente
nella stampa quotidiana in modo da far ottenere benefici economici all’editore
di Yediot Aharonot. Per questo, anche Arnon Milchan e Arnon Moses sono stati
messi sotto accusa dalla polizia. Laddove c’è un corrotto c’è sempre anche un
corruttore. In risposta alle accuse, peraltro appunto non smentite, Netanyahu
si è rivolto direttamente alla nazione, fissando lo schermo e deridendo e
delegittimando le pubbliche istituzioni: la polizia e il sistema giudiziario.
Questo modo di fare è – duole dirlo – dittatoriale. Così come dittatoriale è il
quotidiano culto della personalità propria e dei propri familiari. Così come lo
è il suo esplicito vanto di fronte alla nazione di essersi immischiato
direttamente nell’aprire, chiudere, fondere o sdoppiare canali televisivi. Il
regime del sempre più autocratico e accentratore Netanyahu degli ultimi anni –
Primo ministro, ministro degli Esteri, ministro delle Comunicazioni
responsabile della Televisione di stato, ministro dell’Economia responsabile
dello Sviluppo delle fonti di gas sottomarine – è diventato quello di un uomo
solo al comando.
Netanyahu ha puntato su alleanze internazionali quasi esclusivamente incentrate
su personaggi e regimi di estrema destra erodendo o nullificando altre
possibili alleanze. Ha sostenuto una politica economica che favorisce la
polarizzazione sociale, l’arricchimento dei ricchi e il declino delle classi
medie. Ha svolto una strategia difensiva piena di grandi dichiarazioni che però
non sono riuscite ad evitare il surriscaldamento delle frontiere settentrionali
e lo scontro militare diretto con l’Iran. Ha praticamente azzerato il ministero
degli Esteri, riducendo così la capacità di manovra diplomatica del paese. Ha
ceduto le redini degli affari religiosi a circoli estremistici che condizionano
pesantemente i suoi governi di coalizione e lo spirito ebraico della nazione.
Ha quasi distrutto il rapporto fra Israele e la grande diaspora americana i cui
giovani si allontanano rapidamente da Israele. Ha promosso inutili e
reazionarie leggi nazionaliste e l’annessione strisciante dei territori,
ignorando il grave dilemma demografico dello stato binazionale. Ha cercato di
ridurre e circoscrivere il potere della Corte Suprema, mettendo a rischio la
divisione dei poteri nello stato democratico. Ha allontanato da sé i collaboratori
più validi e si è circondato di lacchè mediocri, sguaiati e totalitari.
Sul piano della trattativa politica o di eventuali nuove iniziative di pace con
i palestinesi non ha fatto nulla. La sicurezza e l’immagine di Israele ne sono
uscite fortemente compromesse.
Israele è uno stato molto forte, ricco di risorse umane, ottimista e positivo,
e con grandi capacità di innovazione e di esecuzione. Ma la gestione Netanyahu
ha causato gravissimi danni politici e economici al paese che ne esce
indebolito. Netanyahu ha seguito modi di comportamento personali lontanissimi
da quelli molto frugali di precedenti primi ministri come David Ben Gurion,
Moshe Sharrett, Levi Eshkol, Golda Meir, Menahem Begin, Itzhak Shamir, Itzhak
Rabin, e più simili a quelli di Ehud Olmert che è finito in carcere. Ora la
polizia lo rimanda al giudizio della Procura di stato che dovrà decidere se
iniziare un regolare processo.
Al Primo ministro spetta il diritto di essere considerato innocente finché in
tribunale non sarà provato il contrario. Auguriamogli di uscire indenne da
questa prova che durerà moltissimi mesi e metterà l’intera società israeliana a
dura prova. I danni causati, in ogni caso, sono irreversibili.
**
Questo è il mio seicentesimo intervento scritto sul notiziario quotidiano
dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche 24 edito dall’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane.
La mia collaborazione è iniziata dieci anni fa e mi ha dato l’occasione di
riferire liberamente notizie, idee, preoccupazioni e speranze.
La mia è stata la voce di un ebreo italiano e di un israeliano, democratico,
leale al proprio paese, rispettoso delle istituzioni, e al di sopra di tutto
appassionato difensore dello Stato d’Israele.
In Israele e a Gerusalemme si è svolta tutta la mia attività professionale,
vivono i miei figli e nipoti, e si trova il futuro del Popolo ebraico.
Oggi, dopo gli ultimi straordinari sviluppi politici, per onestà dovrei passare
tutto il mio tempo a criticare e stigmatizzare i comportamenti e le
responsabilità del Primo ministro di Israele, il cui ruolo e la cui presenza mi
paiono deleteri per il futuro del Paese. E questo francamente non è ciò che ci
si attende di leggere sulla stampa ebraica.
Pertanto ritengo più opportuno ritirarmi e concludere qui questo bel capitolo
di scrittura pubblicistica, ringraziando il direttore Guido Vitale per il suo
costante sostegno, e restituendo questo spazio, che mi è stato fin qui
gentilmente riservato, ad altri che di sicuro meglio di me sapranno
utilizzarlo. Shalom.
Sergio Della Pergola, Università
Ebraica di Gerusalemme
Quando fu istituita nel 2000, la Giornata della
Memoria del 27 gennaio era bellissima, giovane e senza rughe. Quest’anno è
appena maggiorenne, eppure mostra alcuni acciacchi. Che cosa l’ha invecchiata?
Due distinti fattori. La Giornata della Memoria soffre infatti dei problemi
tipici di ogni ricorrenza istituzionalizzata, ma anche di problemi specifici.
Per quanto riguarda i primi, rimandano alla
“fatica” di far rivivere un evento eccezionale nella sua drammaticità – e la
Shoà è l”evento di tutti gli eventi” – secondo modalità istituzionali. Cioè
programmate. Un dramma storico che ha sollevato e solleva turbini di passioni e
di dolore, viene necessariamente compresso dentro una cornice, che è di per sé
anestetica. Perché in un periodo temporalmente ridotto concentra un significato
che fa fatica ad esserlo. E al contempo lo sovraespone in una miriade di
iniziative editoriali, educative e politiche, facendone un rituale. Tanto da
sollevare obiezioni sulla sua pregnanza anche nello stesso mondo ebraico, basti
pensare al pamphlet di Elena Lowenthal “Contro il Giorno della Memoria”, che
provocatoriamente invitava a guardare ai pericoli di una memoria non
necessariamente positiva perché indirizzata ai morti, mentre l’ebraismo è
cultura della vita. Se però si vuole fare un bilancio, accanto a difetti sulla
qualità la Giornata ha mostrato anche grandi pregi, per lo più sulla quantità.
Averla istituzionalizzata ha infatti coinvolto un numero di persone prima
inedito. Le iniziative sono infatti per legge organizzate “in modo particolare
nelle scuole di ogni ordine e grado”, e il mondo della Scuola ha quasi un
milione di insegnanti e personale non docente, poco meno di 10 milioni di
studenti che a loro volta hanno in genere due genitori. Nel complesso, il
bilancio appare dunque in attivo. Molte scuole e i loro alunni hanno anche
visitato di persona Auschwitz-Birkenau, vedendo con i propri occhi la reale
esistenza di quell’entrata infernale prima solo vista nel film “Schinder’s List”,
quando il treno dei deportati arriva nel Campo di sterminio, e perciò
inverandola. Un’esperienza fatta con i testimoni sopravvissuti allo sterminio
nazista, a cui il regime fascista collaborò attivamente con le leggi razziali,
di cui quest’anno ricorre l’80esimo.
Ma ciò era possibile con la memoria diretta, con
la testimonianza dei testimoni. Si avvicina però il momento nel quale essi non
ci saranno più, e non sarà più possibile ascoltare dal vivo le loro
testimonianze, come per esempio quella di Sami Modiano, che vedremo nel
commovente film di Walter Veltroni stasera in tv.
Passare però da una memoria diretta
all’attivazione di una memoria indiretta e “secondaria” non è un passaggio né
semplice né automatico, come è ben chiaro allo Yad Vashem – l’Ente Nazionale
per la Memoria della Shoà, istituito nel 1953 a Gerusalemme – che vi lavora
oramai da anni. Ed essendo questo processo già cominciato, qui iniziano i
problemi specifici della Giornata della Memoria.
Questa “seconda” memoria è infatti cosa totalmente
diversa da quella diretta. Perché a definirne il perimetro e i caratteri non è
più l’identità del Persecutore, bensì l’identità della Vittima. E mentre sul
nazismo vi sono pochi dubbi o contese, i problemi sorgono quando a definire la
Giornata della Memoria è l’identità della vittima. Perché l’identità ebraica,
malgrado il tentativo della Soluzione Finale è per fortuna ancora vitale e
pulsante, ed è per questo dinamica. Muta nel tempo e nello spazio del
Politico.
Essa è composta da due polmoni, lo Stato
d’Israele e la Diaspora. In ambedue vi è oggi una fortissima tendenza ad
isolarsi, a cercare di far da sé, vista anche la propria accresciuta forza
relativa, pensando che da fuori possano venire più problemi che opportunità.
Che occorre chiudersi e non aprirsi. Questa chiusura identitaria ha però
effetti perniciosi sul tipo di memoria secondaria che si sta costruendo. Con il
rischio di farla meno larga e condivisa. Oltre che di impoverire la forte
carica etica dell’ebraismo, che può dispiegarsi solo in una equilibrata
dialettica tra passato e presente.
Lo si è visto di recente a Milano, quando da un
lato vi è stato fastidio in piccola parte della locale comunità ebraica sulla
Giornata della Memoria come è oggi, con il rischio di delegittimarla invece che
migliorarla. E dall’altro, forse di conseguenza, il copresidente della comunità
ebraica milanese ha ritenuto di fare un chiaro gesto di sostegno ad un
candidato alla Regione che aveva dichiarato di voler tutelare “la razza
bianca”. Anche se poi la comunità ha ufficialmente sconfessato il gesto. Che
occorra reinventare la Giornata della Memoria è dunque fuori di dubbio. Se si
vuole raccogliere però in modo corretto il testimone dalla prima generazione,
occorrerà un doppio sforzo. Evitare certo la retorica e il rituale, che spesso
prescinde dal presente dei vivi. Ma anche la sua sola attualizzazione nel
presente e nella politica di oggi, con il rischio di far torto ai morti.
Fabio Nicolucci
(articolo uscito su Il Messaggero e Il Mattino di
sabato 27 gennaio 2018)
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