Blog – Full Width

by

Rabin e il lento suicidio di Israele

R

Vent’anni dopo. «La pace si negozia con i nemici – ripeteva con forza – e la faremo ad ogni costo». A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola – quasi una riedizione di quelli sparati a Sarajevo – chiusero la prima porta verso la pace.

di Giuseppe Cassini

 

Edizione del 04.11.2015

Con lo sguardo lungo si vede meglio quando è ini­ziato il cam­mino d’Israele verso il sui­ci­dio: è ini­ziato 20 anni fa, il 4 novem­bre 1995, con l’assissinio di Rabin per mano di un ebreo estre­mi­sta. Il mese prima era­vamo al Ver­tice di Amman: le parole di Rabin e dei lea­der pale­sti­nesi lascia­vano pre­sa­gire com­pro­messi immi­nenti e riso­lu­tivi. Incon­trai Rabin un’ultima volta a cena: i suoi occhi di un azzurro intenso, ogni volta che ti fis­sa­vano infon­de­vano fidu­cia e un senso di visione. «La pace si nego­zia con i nemici — ripe­teva con forza — e la faremo ad ogni costo». Ad ogni costo? A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola — quasi una rie­di­zione di quelli spa­rati a Sara­jevo — chiu­sero la prima porta verso la pace.

Poi fu un seguito di occa­sioni spre­cate. Marzo 2002, al Ver­tice della Lega Araba a Bei­rut vedemmo il re sau­dita pre­sen­tare un piano di pace impec­ca­bile, accet­tato da tutti mem­bri della Lega Araba. Ecco, final­mente ci siamo — pen­savo io — ma Tel Aviv la pen­sava diver­sa­mente. Gen­naio 2006, ele­zioni in Pale­stina e vit­to­ria di Hamas a Gaza: Israele spinse Usa e Ue a disco­no­scerne i risul­tati, ben­ché gli osser­va­tori inter­na­zio­nali con­fer­mas­sero che le ele­zioni si erano svolte senza bro­gli. Il resto del mondo iro­niz­zava: demo­cra­zia à la carte? Luglio 2006, Tsa­hal seminò di morte mezzo Libano per eli­mi­nare Hez­bol­lah e i suoi razzi arti­gia­nali; oggi Hez­bol­lah pos­siede mis­sili a lunga git­tata (altro che razzi!) in grado di col­pire mezzo Israele. E poi 2008, 2009, 2012, 2014: Tsa­hal mar­tellò Gaza nel ten­ta­tivo di eli­mi­nare razzi, tun­nel e capi di Hamas (quel par­tito che Israele stesso aveva aiu­tato a nascere per desta­bi­liz­zare al-Fatah), al prezzo di migliaia di vit­time civili, senza pietà verso feriti e rifu­giati negli ospe­dali e nelle scuole dell’Unrwa.

A che pro? Per farsi con­dan­nare dall’ONU un’ennesima volta e istil­lare nuova linfa nella resi­stenza pale­sti­nese. Ecco, infatti, la Terza Inti­fada. Chi viag­gia oggi­giorno in Ter­ra­santa non trova trac­cia dello spi­rito ideale dei kib­butz, incro­cia piut­to­sto gruppi di orto­dossi che ti squa­drano con occhiate lam­peg­gianti di fana­ti­smo; e se cam­mini di sabato nei loro quar­tieri puoi bec­carti anche qual­che sas­sata. Forte della sua mag­gio­ranza alla Knes­set, Neta­nyahu con­duce len­ta­mente il Paese al sui­ci­dio invi­tando ebrei inva­sati ad occu­pare terre non loro, ren­dendo impos­si­bile la solu­zione dei due Stati, invi­tando i suoi con­cit­ta­dini ad armarsi, eri­gendo muri su muri, umi­liando i pale­sti­nesi mode­rati… e lo stesso Obama davanti al Con­gresso. Soste­nendo infine (lui figlio di uno sto­rico!) che il pro­getto dell’Olocausto fu ispi­rato a Hitler dal Gran Mufti di Geru­sa­lemme. Quos Deus vult per­dere, demen­tat prius.

È pro­prio vero: a coloro che vuol rovi­nare, Dio toglie anzi­tutto la ragione. Iden­ti­fi­care il popolo ebraico con lo Stato israe­liano fini­sce per «giu­sti­fi­care» — in una logica uguale e con­tra­ria – il dila­gare dell’antisemitismo in Europa. E pre­sto anche in Ame­rica. Già ora gran parte dei Demo­cra­tici, che un tempo erano i più osse­quienti alle «ragioni» d’Israele, hanno preso le distanze. Lo stesso Obama, un tipo in genere assai calmo, ha perso le staffe più volte. Memo­ra­bile lo scam­bio di bat­tute fuori onda con Sar­kozy al G20 di Can­nes nel 2011: «Non ne posso più di Neta­nyahu, è un bugiardo!» aveva bisbi­gliato Sar­kozy; e Obama di rimando: «Lo dici a me che devo trat­tare ogni giorno con lui?».

I sio­ni­sti ame­ri­cani che vedono in Israele la rea­liz­za­zione in terra delle pro­fe­zie bibli­che – tipi come il pastore John Hagee, fac­cia e stazza texana, che bene­diva i raid israe­liani con pre­di­che ispi­rate («L’umanità verrà giu­di­cata per le sue azioni nei riguardi d’Israele») – sareb­bero capaci con pari fana­ti­smo di riab­brac­ciare l’antico anti­se­mi­ti­smo se un giorno si risve­glias­sero con que­sta domanda: pos­si­bile che un pic­colo Stato stra­niero tenga in scacco da mezzo secolo la super-potenza del mondo? Non per niente Israele si guarda bene dal seguire gli altri 123 mem­bri dell’Onu che hanno ade­rito alla Corte Penale Inter­na­zio­nale: per­ché il suo obiet­tivo non è di accet­tare la sfida nei pro­cessi, bensì di star fuori dai pro­cessi (per­ciò Ber­lu­sconi faceva il tifo per Neta­nyahu). L’occupazione mili­tare sta met­tendo in peri­colo la sicu­rezza stessa che dovrebbe tute­lare. E le destre euro­pee e ame­ri­cane, per­si­stendo a garan­tire l’impunità ad Israele, stanno in realtà sca­van­do­gli la fossa: l’ha capito prima degli altri l’ex-presidente della Knes­set, Avra­ham Burg, quando ha scon­giu­rato di “sal­vare Israele da se stesso”.

by

Israele “Stato-nazione” del popolo ebraico. Ecco perché la legge fa tanto discutere.

Intervista a Janiki Cingoli, Presidente di CIPMO, a cura di Michele Lipori, Redazione Confronti.Le critiche più importanti alla “Legge Fondamentale” presentata recentemente alla Knesset col nome “Israel as the Nation State of the Jewish People” (approvata il 18 luglio 2018) è che nell’affermare i principi ebraici non garantisca l’uguaglianza alle minoranze (cittadini d’Israele), in primis quella araba. Qual è la sua opinione in merito?
La mia valutazione generale, per il modo in cui è stata formulata, è che questa sia una legge inutile e sostanzialmente propagandistica. Il fatto che Israele sia uno “Stato ebraico” è già chiaramente affermato nella risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 (che prevedeva la divisione i territori della Palestina storica in tre parti: uno Stato ebraico, uno palestinese e una zona internazionale con Gerusalemme e Betlemme, ndr). Ed anche la Dichiarazione di indipendenza del ’48 lo riaffermò a chiare lettere. Riproporlo, con una sottolineature così forte sulla questione della “componente ebraica” è un atto di arroganza che non può non preoccupare le minoranze che vivono in Israele. Mi riferisco naturalmente agli israeliani arabo-palestinesi, ma anche ai drusi, che sono talmente fedeli allo stato d’Israele da servire nell’esercito e che però sono molto feriti e delusi dall’approvazione di questa legge.

Ma ci sono altri elementi negativi. Mi riferisco al punto 7, in cui si afferma la necessità di sostenere ed anche espandere gli insediamenti ebraici (con riferimento a quelli localizzati in Cisgiordania, ma anche in Israele). Quest’ultimo aspetto ha sollevato moltissime polemiche, perché sono stati diversi i tentativi in Israele di costituire comunità in cui gli arabi non potessero essere ammessi, nonostante una sentenza della Corte Suprema abbia dichiarato illegittima questa pratica. È strano, comunque, che questo punto sia stato poco sottolineato nei diversi commenti. Ma la questione essenziale non è solo ciò che la legge dice, ma ciò che tace. L’accento è posto esclusivamente sugli ebrei, mentre non c’è mai menzione delle varie minoranze se non in quei passaggi in cui si dice che (punto 4b) la lingua araba avrà uno statuto “speciale”, cessando di essere considerata seconda lingua ufficiale dello stato. L’esistenza stessa delle minoranze viene rimossa. Il passo indietro è enorme. Infatti, nella Dichiarazione di Indipendenza del 1948, nonostante ci fossero conflitti aperti in atto, era contenuto un appello «alla popolazione araba dello Stato d’Israele a preservare la pace e a partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di una piena e uguale cittadinanza e con la debita rappresentanza in tutte le sue istituzioni, provvisorie e permanenti».

Un afflato che manca completamente nella legge appena approvata. E non possiamo dimenticare che gli arabo-palestinesi israeliani rappresentano circa il 20% della popolazione totale. Persino i drusi, che pure fanno il servizio militare e sono considerati amici fedeli, sono ignorati, il che ha provocato la loro rivolta. Il problema per queste minoranze, va detto, non è il diritto all’autodeterminazione nazionale – questa è una cosa che devono rivendicare, piuttosto, i palestinesi di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est – quanto il loro riconoscimento collettivo in quanto minoranze e la tutela dei loro diritti di cittadini.

A cosa può portare questo declassamento?
L’atteggiamento di Netanyahu è quello di chi vuole rivendicare il diritto della maggioranza ad approvare delle leggi che siano di gradimento della maggioranza, senza ricordare che il limite della maggioranza è nel rispetto delle minoranze interne allo Stato. La Dichiarazione di Indipendenza garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini qualsiasi sia la loro razza, il loro sesso o la loro religione. Ma l‘uguaglianza dei singoli cittadini (per cui ad ogni persona corrisponde un voto), non è sufficiente a garantire le minoranze, perché come si è visto la maggioranza può fare leggi per opprimerle o cancellarle. Va garantito il riconoscimento collettivo della loro identità e vanno loro attribuiti diritti positivi a loro tutela, come l’equa rappresentanza nelle diverse istituzioni dello Stato, la proporzione nel pubblico impiego, l’uso della loro lingua, la gestione di loro scuole, e un’equa ripartizione delle entrate fiscali.

Come nel caso del Sud-Tirolo…
Esattamente, anche se certo non può essere preso come un modello, ma come una esperienza estremamente avanzata, credo la più avanzata in Europa. Per fare un esempio concreto penso all’art. 6 della Costituzione italiana che riconosce la necessità di una tutela delle minoranze linguistiche. Poi, unitamente all’Accordo De Gasperi-Gruber e agli altri trattati con Vienna, ratificati successivamente dalla Risoluzione 1661 dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, veniva garantito uno Statuto di Autonomia alle minoranze tedesca e ladina in alto Adige composte rispettivamente da 300.000 e da 30.000 persone (e si pensi – a questo proposito – alla ben maggiore incidenza percentuale, sul piano demografico, della popolazione araba e drusa in Israele). Tale riconoscimento conferisce, come si diceva, dei diritti positivi, come un ritorno delle tasse, una presenza proporzionale nei corpi pubblici (consigli comunali, ecc.) e una presenza proporzionale nel pubblico impiego nei diversi livelli, la parità d’uso nella lingua, la gestione delle scuole. Sono questi i modi per garantire che la maggioranza non schiacci le minoranze.

Bisogna dire che, nel tempo, in Israele sono stati dei fatti dei passi in avanti sulla questione della maggiore rappresentanza dei palestinesi-israeliani nell’amministrazione pubblica, come anche per una maggiore allocazione di fondi per questa minoranza (c’è una legge che stanzia 6 miliardi di Shekel a favore delle cittadine abitate dagli arabi). Quello che notiamo è uno sforzo maggiore sul piano economico, a scapito della rappresentanza politica. Questa legge è emblematica di questa tendenza.

Come vede la minoranza arabo-palestinese che vive in Israele?
Posso riportare delle esperienze recenti, in collaborazione con l’Associazione Antenna Cipmo con sede a Bolzano (che ha un’identità autonoma da Cipmo) e con l’istituto di ricerca Europeo Eurac, dedito allo studio dei diritti delle minoranze. In particolare, lo scorso gennaio abbiamo organizzato insieme a loro una missione in Israele proprio su questo tema, della minoranza arabo-palestinese, a cui farà seguito nel prossimo novembre, una missione di ritorno, capeggiata da due deputati della Knesset: uno arabo e l’altro ebreo, nonché da altri membri della società civile. Quello che ci ha più colpiti della missione di gennaio è constatare come i palestinesi israeliani della nuova generazione, pur consapevoli della condizione sfavorevole in cui ancora versano, abbiano sviluppato una volontà tenace di accettare la sfida per cui sono chiamati a lottare. Questa nuova generazione è, infatti, molto acculturata perché le famiglie investono molto sull’istruzione. Inoltre, sebbene si senta partecipe delle sorti del popolo palestinese in senso più ampio, la maggioranza dei palestinesi israeliani (le statistiche parlano di oltre il 60%) risponde – non a caso – di voler rimanere in Israele anche nel caso dovesse finalmente costituirsi uno Stato palestinese. Quello che osserviamo è una generazione che “lancia il cuore oltre l’ostacolo” e vuole dimostrare nei fatti che la popolazione arabo-palestinese può progredire e colmare il proprio gap all’interno della società israeliana. D’altra parte anche Israele ha l’esigenza di colmare i gap presenti al suo interno, sia per quanto riguarda la condizione degli arabo-palestinesi, sia di quella degli ebrei ortodossi: due settori il cui ritardo, pur dovuto a fattori diversi, costituisce un handicap grave per lo sviluppo complessivo del paese.

Nella legge viene menzionata anche la questione di Gerusalemme capitale unica e indivisibile. Questo significa negare la possibilità di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme est?
Persino le formulazioni di Trump, quando ha riconosciuto Gerusalemme come Capitale di Israele, ponevano dei paletti: veniva anche detto che con tale affermazione non si voleva incidere sulla questione dei confini tra israeliani e palestinesi all’interno di Gerusalemme, né su quella più generale dei futuri confini tra israeliani e palestinesi. È significativo come sia gli israeliani sia i palestinesi, per motivi differenti, abbiano trascurato questi caveat, e abbiano interpretato la dichiarazione di Trump come attribuzione della sovranità sulla intera Gerusalemme ad Israele: gli israeliani perché faceva loro comodo intenderla in questo modo, i palestinesi perché dovevano “vendere” in blocco all’opinione pubblica, soprattutto araba, il tradimento USA su Gerusalemme, anche per bloccare le derive in corso dei maggiori Stati arabi.

Ma i motivi che ostacolano la costituzione dello Stato palestinese sono molti. Tra l’altro, il presidente Abbas, che è oramai alla fine della sua carriera politica ed è gravemente malato, non vuole passare alla storia per aver fatto delle concessioni importanti a Israele su questioni delicatissime come quelle di Gerusalemme, dei confini e del “Diritto al ritorno”. Il problema sta nel fatto che senza concessioni sarà molto difficile che possa costituirsi davvero uno Stato palestinese.

Quanto a questo fantomatico Piano USA, il “Final Deal” di cui ha parlato Trump, le previsioni generali che questo piano ipotetico continuerà ad aleggiare senza essere reso pubblico. Una delle ipotesi più plausibili è che gli USA cerchino di ottenere un avallo preventivo da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Giordania, mettendo così i palestinesi di fronte alla scelta se accettare delle condizioni ritenute inaccettabili o scontentare gli stati arabi “fratelli”.

Altro elemento ostativo è la scissione con Hamas. Continuano da parte egiziana i tentativi di arrivare ad un accordo interpalestinese, che naufragano puntualmente perché né Hamas né Abbas vogliono mollare la presa sui territori da loro controllati, Gaza e la Cisgiordania, in caso di esito avverso del voto, e soprattutto il Presidente Abbas pretende che l’Autorità palestinese riprenda il controllo integrale su Gaza, inclusa la forza militare, che invece Hamas non è disposto a cedere.

Ma c’è anche un altro elemento di ostacolo, che ha a che fare con un’idea di spartizione dei territori più complessa di come normalmente viene intesa. Infatti, si cerca di arrivare ad una stabilizzazione di Gaza, con il sostegno degli Stati Uniti, dell’Arabia saudita e dello stesso Israele (a patto però di una rinuncia da parte di Hamas di ogni attacco contro Israele).

Ma questa tregua di lungo periodo porterebbe a lungo andare alla costituzione non di due stati, né di uno stato unico binazionale, di cui tanto si parla oggi: ma di tre, o meglio di “due stati e mezzo”: Israele, Gaza, e una Cisgiordania erosa dagli insediamenti. Infatti, lo stesso Israele non ha davvero la volontà di annientare Hamas, perché teme che al suo posto possano insediarsi Isis o altre correnti jihadistiche, oppure in caso contrario perché teme di doversi nuovamente fare carico della amministrazione civile della Striscia.

Un ultimo elemento di stallo è che Hamas detiene i corpi di due soldati caduti e due civili israeliani, per il cui rilascio richiede uno scambio con prigionieri detenuti nelle carceri israeliane. Naturalmente, anche in questo caso, nessuno vuole fare il primo passo.

Fonte: Confronti

“Il volto di Israele sta cambiando” – Intervista a Janiki Cingoli – Rai Radio3 Mondo – Ascolta

“Il volto di Israele sta cambiando”  – Intervista a Janiki Cingoli – Rai Radio3 Mondo  – Ascolta 
by

Israele, i nemici dentro

I nemici dentro

Difendersi dal nemico. Per Israele da sempre questa è una sorta di parola d’ordine. L’esercito si chiama non per caso Zahal (Esercito di difesa d’Israele). Nella maggior parte della popolazione israeliana è ben radicato il concetto che esistano sempre dei nemici dai quali difendersi

Nemici che vorrebbero distruggere lo Stato con tutta la sua popolazione. Una volta era Nasser, che proclamava di voler “buttare gli ebrei a mare”, poi fu la volta dell’OLP, nella sua Carta mai emendata, a richiamare la distruzione dello Stato ebraico come suo obiettivo. Oggi è l’Iran il nemico più agguerrito con il suo programma nucleare e il suo espansionismo militare in Libano e Siria. E se di fatto a Israele i nemici non sono mai mancati e non mancano, bisogna anche notare come nel tempo vecchi nemici come India, Cina e Russia abbiano modificato atteggiamento e che anche Paesi arabi conservatori come Arabia Saudita ed Emirati Arabi si orientino a guardare allo Stato ebraico più come un possibile alleato che non come un nemico.

E non è forse un’esagerazione affermare che, Iran a parte, i nemici esterni d’Israele non siano mai stati così pochi e deboli come oggi. Sarà forse per questo che negli ultimi due anni il quarto governo Nethanyahu è andato a cercarsi i nemici “dentro”: istituzioni, organizzazioni, gruppi, categorie, popolazioni che dall’interno tramerebbero per indebolire lo Stato magari alleandosi con nemici esterni, persone che “si sono dimenticate cosa voglia dire essere ebrei”, “traditori”.

Nemiche sono le ONG che operano in Israele e territori occupati per documentare episodi d’ingiustizia verso la popolazione palestinese. Nemico è il Tribunale Supremo, che boccia le leggi incostituzionali. Nemici sono gli arabi israeliani, che non sarebbero fedeli allo Stato del quale sono cittadini. Nemici sono i profughi africani, che lasciati ai margini della società, ne minaccerebbero la sicurezza. Nemici sono i laici, che nel reclamare un Paese moderno con negozi aperti e mezzi pubblici nei giorni festivi attenterebbero all’identità ebraica dello Stato. Nemici sono i registi israeliani autori di film che mettono l’accento sui dilemmi morali della società, che così facendo diffonderebbero un’immagine negativa del Paese all’estero. È il caso del film Foxtrot di Samuel Maoz presentato e premiato al Festival di Venezia e boicottato dal governo ad ogni sua proiezione all’estero. Nemici sono i palestinesi, un nemico interno ed esterno nello stesso tempo.

Contro ognuno di questi nemici il governo e i suoi ministri hanno messo a punto leggi specifiche o politiche di discredito e boicottaggio.

Contro le ONG è stata elaborata una legge, non ancora approvata, che vieti loro di ricevere finanziamenti dall’estero così da soffocarne economicamente le attività. L’esempio più eclatante è quello di Shovrim Shtikà (Rompiamo il silenzio), l’organizzazione che denuncia periodicamente abusi dell’esercito israeliano. Contro il Tribunale Supremo è stata pensata una legge che limiti la sua attuale facoltà di bocciare leggi approvate dal Parlamento perché incostituzionali. Contro gli arabi israeliani si è architettata la Hok a leom, legge della Nazione, non ancora approvata, che, tra le altre cose, non consideri più l’arabo lingua ufficiale dello Stato. Contro i profughi africani è stata decretata entro aprile un’espulsione di massa verso il Ruanda, col quale sarebbe stato firmato un accordo segreto. Le assicurazioni date dal governo al Tribunale Supremo sul destino dei profughi sono state smascherate come inconsistenti da un servizio di Canale 10. Questo provvedimento contro il quale si sono levate proteste in tutto il Paese mina la legittimità morale dello Stato ebraico, casa dei profughi ebrei da tutto il mondo e in passato anche di non ebrei, come successe con i vietnamiti accolti da Menachem Begin tra il 1977 e il 1979. Contro i laici i partiti ortodossi hanno chiesto e ottenuto, a forza di ricatti, che il Ministro dell’Interno (attualmente in carico all’ortodosso Aryeh Deri) possa vietare alle autorità locali di tenere aperti gli esercizi commerciali di sabato e nei giorni festivi. Contro i registi di cinema e teatro il Ministro della cultura Miri Regev si sta battendo per poter distribuire i fondi pubblici ai progetti culturali discriminandoli in base ai contenuti a lei graditi. Il Ministro Regev ha rinunciato da tempo al suo ruolo istituzionale per rendersi interprete di un pensiero unico, quello nazionalista dei partiti di governo. Il Ministero della cultura israeliano si sta trasformando in una sorta di Minculpop di fascista memoria. Contro i palestinesi condannati per terrorismo è stato minacciato il ricorso al “deterrente” della pena di morte senza indicare se questa pena potrebbe essere eventualmente comminata anche a terroristi ebrei e contro il parere sfavorevole dei servizi di sicurezza e dell’esercito.

A tutti questi nemici interni Bibi Netanyahu ne ha aggiunto uno personale e cioè il capo della polizia israeliana Roni Alsheikh, che da mesi sta conducendo indagini su quattro diversi episodi controversi di “abuso di fiducia” e corruzione, che coinvolgono lo stesso capo del governo, sua moglie Sarah e suoi stretti collaboratori. Il lavoro di Alsheikh è oggetto di una campagna di delegittimazione sistematica orchestrata con un organizzato lavoro di propaganda mediatica in Parlamento, in pubblico, sulla stampa filogovernativa.

Che succede dunque alla democrazia israeliana da sempre apprezzata per la sua capacità di amministrare con saggezza un pluralismo culturale e religioso composito e comportarsi eticamente nel confronto con i nemici? Possiamo dimenticare, per esempio, le manifestazioni di piazza oceaniche contro il massacro di Sabra e Chatila e la successiva commissione d’inchiesta che censurò l’operato dell’allora ministro della Difesa Ariel Sharon?

Sembra che il vento di destra e di nazionalismo che sta soffiando in Europa e negli Usa sia arrivato anche nello Stato ebraico, dove a una destra liberale e democratica è subentrata una destra antidemocratica, ottusa e corrotta. Gli anticorpi, però, esistono ancora. Da diversi mesi migliaia di persone manifestano tutti i sabati a Tel Aviv e in altre città contro la corruzione. Intellettuali e organizzazioni umanitarie si sono mobilitate per difendere i profughi dai provvedimenti di espulsione forzata e la battaglia non si è ancora conclusa. Laici e tradizionalisti sono scesi in piazza ad Ashdod per difendere il loro diritto a trascorrere i giorni festivi come credono e non secondo i diktat dei rabbini. 

Nel 2019 ci saranno le elezioni, che daranno la possibilità all’elettorato israeliano di modificare gli equilibri parlamentari in senso meno nazionalista e meno antidemocratico.

Gabriele Eschenazi, giornalista e scrittore

Analisi di Gabriele Eschenazi, giornalista e scrittore

12 febbraio 2018

by

70 buone ragioni per celebrare (e amare) lo Stato di Israele

A settant’anni dalla nascita del Paese che ha dato una patria al popolo ebraico, l’intellettuale francese di Bernard-Henry Lévy racconta tutti i suoi pregi

di Bernard-Henry Lévy

E pluribus unum…102 origini diverse…In altre parole, la prima nazione multietnica che funziona veramente. La prima repubblica “alla Rousseau” dove un bel mattino si sia detto: “Facciamo un Contratto”. E il Contratto fu! Paese rifugio. Paese promessa. Paese «di troppo» per un popolo di troppo. Se il mondo tornasse ad essere inabitabile per altre Mireille Knoll (l’ottantacinquenne ebrea uccisa in aprile a Parigi, ndt), questo Paese così prezioso continuerebbe ad esistere.

Democrazia

La democrazia è difficile? Lenta? Ha bisogno di tempo? In Israele, una notte, il 14 maggio 1948, fu sufficiente. Per fare una democrazia, occorre una cultura democratica? Cultura che di Israele i pionieri russi, o centro-europei, o tedeschi, o arabi non avevano. Eppure..

Miracolo israeliano. Prodigio di un legame sociale che poggiava sul nulla. Meraviglia di una lingua morta, reinventata e ravvivata. Nessuna democrazia, si dice ancora, resiste allo stato d’eccezione della guerra. Salvo Israele.

Terrorismo

Il terrorismo, in Israele, non esiste da sette giorni (come negli Stati Uniti del Patriot Act) o da sette anni (come nella Francia del 1961), ma da settant’anni, e le sue istituzioni reggono. Sì, sono settant’anni che Israele vive, come dice il versetto, «sulla propria spada»: e lo spirito di libertà vi continua a soffiare. Settant’anni di vita senza aver conosciuto una giornata di pace: e nessuno, né ebreo né arabo, cambierebbe Paese.

Atene, non Sparta.

E diritto di critica

Irriverenza della stampa, implacabile con i dirigenti. Intransigenza della giustizia che, quando un primo ministro sbaglia, mette il primo ministro in prigione.

Uno scrittore ribelle, David Grossman, orgoglio del Paese. Un altro: Amos Oz. Un altro: Avraham B. Yehoshua.

Esiste un altro luogo del mondo in cui il famoso «diritto di criticare Israele» sia esercitato meglio che in Israele? Esiste una Ong più accanita di «Breaking the Silence» nel denunciare l’«uso sproporzionato della forza»? Una democrazia dove una minoranza ostile al principio guida del Paese — «il sionismo» — goda di tutti i propri diritti civili? Un Paese che tolleri, in tempo di guerra, che una città come Kufr Manda solidarizzi con il nemico?

Gli arabi e i militari

L’arabo, seconda lingua ufficiale del Paese. Un numero di deputati arabi inimmaginabile in Francia. Un giudice, arabo, che siede alla Corte suprema. E, alla Corte suprema, una donna, Esther Hayut, eletta presidente per la terza volta.

Il «muro», in Cisgiordania, sconfina nel villaggio palestinese di Beit Jala? La Corte ordina di spostare il muro. Esso rovina, a Bil’in, gli ulivi? Si ripiantano gli ulivi.

Una «sbavatura» dei militari? Viene sottoposta a giudizio. Un ordine inappropriato? Viene rifiutato. Un’operazione non conforme alla «purezza delle armi»? E’ possibile — questo si è visto — ricorrere alla giustizia. E i centri di terapia dove, in tempo di guerra, si curano i feriti del campo avverso. E i dispensari del Golan, gli unici dove, nel settore, trovano asilo le vittime siriane di Bashar. E, sempre per i siriani, gli ospedali fraterni di Safed, Kiryat Shmona e Nahariya. E il villaggio di Jubata-al-Khashab, nella provincia di Quneitra, ricostruito grazie a fondi privati e pubblici israeliani.

Operazioni umanitarie

E le operazioni umanitarie di Tsahal. Esiste un esercito che, per le popolazioni, effettui missioni umanitarie così numerose? In Messico, dopo il sisma del 2017.. In Nepal, o a Haiti, o in Turchia, dopo i terremoti del 2015, 2010, 1999… Nel Mediterraneo, quando l’Unità 669, nel 2003, vola in soccorso di dieci marine turchi in balia di un tifone… In Sierra Leone, dove Tsahal è il primo a correre in aiuto delle migliaia di contadini trascinati da un torrente di fango… E tutte le Ong che scavano pozzi in Africa o inviano pompieri a Porto Rico.

La scienza israeliana. I robot dell’ospedale Hadassah. Le ricerche più avanzate su alzheimer, parkinson, terapia cellulare o chirurgia del cervello.

Saggezza e studio. Saperi profani e talmudici.

La bellezza di Tel Aviv e la pietra bianca di Gerusalemme. E Haifa, la cosmopolita. E Jaffa, con i suoi fortini di nobile pietra ocra. E i paesaggi di sassi del Negev, dove si sente l’impronta lasciata da altri occhi, secoli prima di noi. E i megaliti, come solcati dal dito di Dio. E i deserti in alta quota. E i mari più bassi del mare. E il kibbutz, vicino a Tiberiade, dove Sartre capì il senso del versetto: «La tua discendenza sarà come la sabbia del mare». Di fatto, terra o sabbia? Un’altra Babele o un regno di nuovo tipo? Davvero Stato banale, o ritorno a Giacobbe, soprannominato Israele perché lottò con l’angelo?

provincia di Quneitra, ricostruito grazie a fondi privati e pubblici israeliani.

Operazioni umanitarie

E le operazioni umanitarie di Tsahal. Esiste un esercito che, per le popolazioni, effettui missioni umanitarie così numerose? In Messico, dopo il sisma del 2017.. In Nepal, o a Haiti, o in Turchia, dopo i terremoti del 2015, 2010, 1999… Nel Mediterraneo, quando l’Unità 669, nel 2003, vola in soccorso di dieci marine turchi in balia di un tifone… In Sierra Leone, dove Tsahal è il primo a correre in aiuto delle migliaia di contadini trascinati da un torrente di fango… E tutte le Ong che scavano pozzi in Africa o inviano pompieri a Porto Rico.

La scienza israeliana. I robot dell’ospedale Hadassah. Le ricerche più avanzate su alzheimer, parkinson, terapia cellulare o chirurgia del cervello.

Saggezza e studio. Saperi profani e talmudici.

La bellezza di Tel Aviv e la pietra bianca di Gerusalemme. E Haifa, la cosmopolita. E Jaffa, con i suoi fortini di nobile pietra ocra. E i paesaggi di sassi del Negev, dove si sente l’impronta lasciata da altri occhi, secoli prima di noi. E i megaliti, come solcati dal dito di Dio. E i deserti in alta quota. E i mari più bassi del mare. E il kibbutz, vicino a Tiberiade, dove Sartre capì il senso del versetto: «La tua discendenza sarà come la sabbia del mare». Di fatto, terra o sabbia? Un’altra Babele o un regno di nuovo tipo? Davvero Stato banale, o ritorno a Giacobbe, soprannominato Israele perché lottò con l’angelo?

Paese ammirevole

Non è la natura che, in Israele, è generosa con gli uomini, ma sono gli uomini ad esserlo con la natura.

Israele è una delle imprese più rischiose, ma anche più belle, che il popolo ebreo abbia dovuto affrontare. Per tale impegno, si attirerà il biasimo di Samuele al popolo che si assoggettava a Saul, o rimarrà discepolo di Mosè? Da Paese appassionante, si trasformerà in Paese ammirevole, o sublime? E cosa ci dice dell’Umano e del suo segreto?

Buon compleanno, Israele.

 

 

by

La medaglia d’oro alla Brigata Ebraica

Angela Polacco Lazar è con Cecilia Nizza.

« Una medaglia d’oro che porta luce e verità su una pagina di storia sconosciuta a molti »

La medaglia d’oro al valor militare alla Brigata ebraica, conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è stata consegnata e appuntata questa mattina sul loro stendardo dal nostro ambasciatore Gigio Benedetti. A un anno dall’approvazione unanime in Parlamento della mia proposta di legge, l’Italia ha così onorato l’impegno dei volontari che contribuirono a liberare l’Italia e l’Europa dal nazifascismo. Io sono alla Camera dei Deputati, ma chi ha partecipato alla cerimonia racconta dei reduci commossi per questo tributo della Repubblica italiana al loro coraggio e al loro amore per la libertà.

Con grande emozione abbiamo assistito alla consegna da parte dell’Ambasciatore d’Italia in Israele, S.E. Gianluigi Benedetti, della Medaglia d’oro al valor militare alla Brigata Ebraica nella cerimonia che si è svolta al Bet Hagdudim (Museo dei Battaglioni) di Avihayil, vicino a Natanya. La Medaglia d’oro al Valor Militare e’ stata conferita dal Presidente Sergio Mattarella e consegnata al Generale dei Carristi-7 Brigata, Guy Hasson.
Molto commovente è stato l’incontro con due veterani della Brigata, Asher Dishon e Gideon Gilboa.
La Brigata Ebraica, come unità autonoma inquadrata nell’VIII Armata del Generale Montgomery, nacque nel settembre 1944 per volontà di Winston Churchill che dichiarò « mi è sembrato opportuno che un’unità formata esclusivamente da soldati di questo popolo, che così indescrivibili tormenti ha subito per colpa dei nazisti fosse presente come formazione a se stante”.
Era un riconoscimento dovuto alla partecipazione di oltre un milione di ebrei, sin dall’inizio della guerra contro il nazifascismo, arruolati negli eserciti alleati e combattenti su tutti i fronti.
Dalla sola Palestina mandataria partirono circa 35 mila volontari (italiani, polacchi, ucraini, ecc.) più 15 mila membri del Jewish Settlement Police, un’unità della polizia ebraico-palestinese, incaricata di proteggere gli insediamenti rurali ebraici dagli attacchi arabi. Questo mentre il Gran Mufti di Gerusalemme, che dal 1941 risiedeva a Berlino, ospite di Adolf Hitler, organizzava una unità Waffen SS bosniaca, responsabile dell’omicidio di ebrei e serbi, e progettava di applicare la soluzione finale agli ebrei di Palestina, se Rommel e i suoi alleati avessero sfondato a El Alamein.
Un riconoscimento quello del Parlamento italiano, avvenuto con legge del 18 luglio 2017, grazie all’impegno dell’On. Lia Quartapelle, al valore di quei soldati che con abnegazione e anche con sacrificio della vita, combatterono per la liberazione dell’Italia, ma anche una risposta e un monito a quanti da alcuni anni contestano la presenza delle insegne della Brigata nei cortei del 25 aprile.

    Etiam magna arcu, ullamcorper ut pulvinar et, ornare sit amet ligula. Aliquam vitae bibendum lorem. Cras id dui lectus. Pellentesque nec felis tristique urna lacinia sollicitudin ac ac ex. Maecenas mattis faucibus condimentum. Curabitur imperdiet felis at est posuere bibendum. Sed quis nulla tellus.

    ADDRESS

    63739 street lorem ipsum City, Country

    PHONE

    +12 (0) 345 678 9

    EMAIL

    info@company.com