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Addio a Meir Shalev

L’11 Aprile 2023 lo scrittore Meir Shalev è scomparso e un altro scrittore Etgar Keret ne ha fatto l’elogio funebre. Sara Ferrari ce lo racconta.

Etgar Keret e Meir Shalev: un doppio ritratto allo specchio

Un ricordo dello scrittore da poco scomparso a partire dall’elogio a lui dedicato composto da Keret, a sua volta analizzato a partire da Shalev…

Quando un importante esponente della cultura muore, oltre alla significativa perdita prodotta dalla sua scomparsa, ci tocca ormai con una certa frequenza la non trascurabile seccatura di dover sopportare una ridda di elogi funebri vacui o fuori luogo. Un fastidio che si è oltremodo intensificato nell’era di internet e dei social network: la “corsa al R.I.P.” sembra essere, infatti, un’altra delle manifestazioni dello smodato desiderio di presenzialismo dei nostri tempi. Ciò nonostante, anche in circostanze simili, individui intelligenti e sensibili sanno regalarci momenti di rara bellezza.

Lo scrittore Meir Shalev, tra i più amati in Israele, tanto dal pubblico quanto dalla critica, è scomparso nei giorni scorsi ed Etgar Keret ne ha scritto l’elogio funebre perfetto. Se ve lo siete perso, potete recuperarlo qui, nella traduzione inglese. Non soltanto le parole di Keret rispecchiano perfettamente l’immagine dello scrittore di Nahalal, ma rappresentano altresì una testimonianza aggraziata e densa di umanità, un omaggio commosso e frutto di un’ammirazione autentica. Eppure a prima vista Etgar Keret e Meir Shalev non potrebbero apparirci più diversi.

Scrittore Tel avivi per eccellenza il primo, contemporaneo se non addirittura post-moderno, proiettato nel futuro, laddove il secondo, nato lo stesso anno della fondazione dello Stato ebraico nell’iconico moshav di Nahalal, è più che mai legato alla storia delle origini di Israele, con i suoi richiami alla generazione degli haluzim, di cui nei suoi romanzi ha ricostruito magistralmente gioie, dolori e piccole manie. Etgar Keret ci racconta la solarità un po’ rude della città con le sue mille solitudini. Meir Shalev ci offre, invece, la contemplazione della Terra d’Israele e la sua bellezza quasi incantata. Come dimenticare, ad esempio, il delizioso libriccino Il mio giardino selvaticol’ultima opera di Shalev comparsa in italiano nel 2020, una cronaca innamorata del succedersi delle stagioni nella valle di Yizrael tra i profumi di fiori selvatici e le melodie di uccelli. I personaggi di Etgar Keret sono figure fugaci, quasi imprendibili nella rapidità con la quale attraversano le pagine. Non c’è tempo di approfondirne la psicologia, di analizzarne le motivazioni, eppure ci restano incastrati dentro, nella loro perenne ricerca di un briciolo di amore e di felicità in questo mondo freddo e ostile. Le loro azioni spesso smarginano nell’illogico, nel surreale (ricordate la giovane donna che si incolla i piedi al soffitto per scongiurare l’addio dell’amato nel racconto Colla pazza?), tuttavia, in maniera del tutto paradossale, sono mille volte più sagge della ragione stessa. Ben diversi sembrerebbero i personaggi costruiti da Meir Shalev, i piedi ben piantati sul suolo di Israele, anche quando portano il nome di Abramo e Giacobbe, in un meraviglioso attorcigliarsi di mito e storia reale, di passato biblico e attualità. Anche nelle opere di Meir Shalev si possono rintracciare evidenti segni di attrazione per l’immaginario e il fantastico, i quali derivano tanto dal retaggio folclorico-popolare di inizio Novecento, quanto dalle prove successive di Shemuel Yosef Agnon e A.B. Yehoshua, cui inoltre avrebbe attinto David Grossman. Sin dal celebrato Roman russi (“La montagna blu”, in italiano), dedicato proprio alle vicende dell’insediamento ebraico nella Palestina del Mandato, Meir Shalev tende a farci riconsiderare la possibilità di cose che abbiamo automaticamente classificato come irrealizzabili. E in effetti, come si sono chiesti alcuni critici, che cosa potrebbe essere più impossibile del compimento del sogno della costruzione della casa ebraica in Terra d’Israele da parte di un pugno di sognatori dell’Est Europa? A questo proposito, Etgar Keret ha raccolto, per così dire, un testimone già presente nella letteratura israeliana, elevandolo all’ennesima potenza.

E ancora: come lo stesso Etgar Keret nota nel suo elogio funebre, Meir Shalev, da laico qual è, possiede una notevole conoscenza dei testi biblici, dei quali è stato appassionato interprete in alcuni volumi che purtroppo non sono mai stati tradotti in italiano. Mi piace ricordarne uno in particolare, il geniale Reshit, “Principio”, che documenta tutte le prime volte della Bibbia e raggiunge profondità interpretative sconcertanti e bellissime. Al contrario, nei racconti di Etgar Keret non troviamo traccia del passato della lingua ebraica. Il suo stile di scrittura sembra essersi liberato dal peso della tradizione per restituirci una lingua nuda, precisa, semplice. Questo perché nelle opere di Etgar Keret il legame con la tradizione opera su piani differenti, nella struttura stessa del racconto e dei suoi legami con la letteratura sovente visionaria dello shtetl.

Un’ultima osservazione: nel discorso commemorativo dedicato a Meir Shalev, Etgar Keret scrive che gli scrittori sempre gli ricordano animali di diversa natura. Meir Shalev però gli ricorda un albero“saldamente radicato nella propria lingua, nella propria eredità e nella natura entusiasmante che lo circonda”. Mentre scrivo queste righe, provo a pensare a Etgar Keret, a cosa mi ricordi la sua penna così precisa ed emozionante. Probabilmente non un animale, ma una sorgente di acqua fresca che zampilla allegra su pietre antiche, levigate e lucide, e scorre scorre e nessuno sa dire fin dove arriverà.

Sara Ferrari – JoiMag

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Per salvare se stesso Netanyahu porta Israele sull’orlo della dittatura

David Grossman

Se i promotori della cosiddetta riforma giudiziaria porteranno a termine il processo legislativo, di fatto revocheranno lo Stato di diritto

Israele sta vivendo una delle crisi più gravi che abbia mai conosciuto. Anche dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, i pericoli che il Paese correva erano meno tangibili. Ora la situazione è diversa. Tre dei membri più estremisti e nazionalisti del Parlamento israeliano – il ministro della Giustizia Yariv Levin, il presidente del Comitato per la Costituzione, il Diritto e la Giustizia Simcha Rothman e Benjamin Netanyahu, il primo ministro quasi onnipotente – stanno agendo con tutte le loro forze e senza remore per creare un nuovo sistema giuridico al posto di quello attuale. Dal punto di vista legale, ne hanno il potere: alle elezioni di novembre, i partiti che ora formano la coalizione di governo hanno ottenuto un vantaggio di 4 membri alla Knesset, composta da 120 membri. Ma stanno adottando una procedura affrettata e bellicosa che non ha precedenti in Israele. Il loro obiettivo è introdurre non solo una serie di modifiche al sistema esistente, ma un’alterazione totale del Dna del Paese.

Se i promotori di questa cosiddetta riforma giudiziaria riusciranno a portare a termine il loro processo legislativo, di fatto revocheranno lo Stato di diritto in Israele. La magistratura sarebbe subordinata alla Knesset e al governo e i nuovi giudici sarebbero nominati dai politici. In altre parole, ai cittadini israeliani non verrebbero più garantite le tutele legali contro l’arbitrarietà del regime. Se questo processo verrà portato a termine, Israele cesserà di essere una democrazia e potrebbe trasformarsi in una dittatura.

Netanyahu è coinvolto in un procedimento legale, essendo stato accusato di corruzione, frode e abuso di potere. Ha dimostrato di essere disposto e capace di fare tutto ciò che è in suo potere per alterare l’intero sistema giudiziario per evitare di finire in prigione. A tal fine, si è alleato con gli elementi più messianici, malavitosi e sgradevoli della società israeliana e ha affidato ai loro rappresentanti portafogli governativi cruciali e altamente sensibili. Quest’uomo non conosce limiti.

Netanyahu sostiene che la sua vittoria alle ultime elezioni – con un margine di 30mila voti – lo autorizza a mettere in atto quella che lui chiama la “riforma”. Ma i cittadini israeliani non hanno votato per autorizzare una linea d’azione così drastica. Ogni israeliano appartiene a questa o quella minoranza. Ognuno di noi potrebbe essere vittima di abusi in base a una legge o l’altra, soggetto a discriminazioni basate su sesso, razza, religione, nazionalità o preferenze sessuali. E questo, in parte, è il motivo per cui centinaia di migliaia di israeliani scendono in piazza ogni settimana per protestare contro questo frettoloso colpo di Stato.

Chiedono l’immediata sospensione dell’esame di queste leggi antidemocratiche, seguita da negoziati seri ed equi sulle future caratteristiche del sistema giudiziario israeliano. I prossimi giorni saranno cruciali per il futuro del Paese. Un solo proiettile potrebbe far precipitare il dramma in uno scenario diverso, in cui i membri di entrambi gli schieramenti prenderebbero in pugno la legge – o meglio, l’illegalità – dando vita a una realtà molto più terrificante di quella in cui viviamo. Ma anche se questo scenario non si concretizzasse, Israele deve oggi affrontare una tragica riflessione su se stesso.

Da dove cominciare? Forse dallo stupore per la rapidità con cui la maggior parte degli israeliani ha smarrito il senso del potere e della sicurezza esistenziale, un senso che sembrava solido fino all’arroganza e che ora si è dissolto nella paura che la loro casa nazionale vada a fuoco. Può uno straniero capire questo vertiginoso passaggio da un senso di immenso potere alla fragilità e all’ansia che ha attanagliato un’intera nazione? Se non si comprende questo meccanismo della psiche nazionale, non sono sicuro che sia possibile decifrare “l’israeliano”. E forse il dramma dell’israelianità oggi è la caduta in frantumi di un’illusione che tutti i leader israeliani si sono sempre impegnati ad alimentare: la nostra miracolosa unità nazionale. Ora che le crepe nella nostra società sono state messe a nudo, viene alla luce quanto sia sempre stata fragile e falsa questa cosiddetta unità, e quanto siano ostili gli uni verso gli altri i vari elementi e le loro convinzioni.

Come può esserci una vera unità tra fazioni che si considerano reciprocamente una minaccia esistenziale? Come può esserci unità se non abbiamo fatto un vero lavoro nazionale e civico per affrontare la furia, l’ostilità e l’offesa, così radicati ormai che comincia a sembrarci degna di considerazione l’idea di dividere il Paese nell’Israele e nella Giudea dei tempi biblici? Come può esserci unità tra le centinaia di migliaia di coloni che si sono impossessati di porzioni considerevoli delle terre occupate in Cisgiordania, che considerano terre ancestrali donate loro dalla stessa Bibbia, e, al contrario, quegli israeliani che percepiscono i coloni come il principale ostacolo a un accordo di pace tra Israele e i palestinesi? E che dire degli oltre un milione di ebrei ultraortodossi che si rifiutano di mandare i loro figli al servizio militare, perché, secondo la loro fede, ciò che garantisce la continuità dell’esistenza del popolo ebraico sono la preghiera e lo studio della Torah? Come può esistere unità tra loro e gli israeliani i cui figli e figlie sono obbligati per legge a prestare fino a tre anni di servizio militare?

Per tanti anni, da quando è stato fondato lo Stato di Israele, la maggioranza degli israeliani ha accettato questo accordo distorto, in cui la religione si lega alla politica come l’edera, se ne nutre e impone a tutti gli altri israeliani uno stile di vita a loro estraneo. Stiamo forse facendo i primi passi verso la separazione tra religione e Stato? Ci sono altri problemi, altre aree infette – lo status dei cittadini arabi di Israele, per esempio – che sono rimasti irrisolti nei 75 anni di esistenza dello Stato. Dopo le onde d’urto di ostilità e odio reciproco provocate dall’attuale governo, queste domande potrebbero richiedere risposte concrete e costringere a creare un nuovo ordine, una revisione del contratto tra le diverse tribù di Israele e tra ciascuna di esse e il loro Stato.

Abbiamo parlato appena dell’occupazione. I leader del movimento di protesta hanno saggiamente deciso di sospendere – almeno per ora – il dibattito più cruciale attorno al quale la società israeliana si è divisa per 55 anni, da quando Israele ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Anche chi, come me, lotta contro l’occupazione da più di quarant’anni, riconosce che una discussione pubblica sull’occupazione non farebbe altro che dividere e smantellare il movimento di protesta. Al momento, la maggior parte degli israeliani non riesce a guardare con chiarezza all’occupazione. Non ancora. Ma trovo una certa consolazione nel fatto che questioni politiche e sociali che per anni sono rimaste stagnanti, potrebbero ora iniziare a smuoversi.

Sotto i nostri piedi si stanno spostando delle placche tettoniche. Immagino che le persone che stanno cercando di dirottare il Paese, che hanno l’audacia di riscrivere il sistema giuridico israeliano, non si aspettassero una resistenza così diffusa e zelante. Persino i manifestanti sembrano sorpresi dalle loro stesse capacità di fervore, passione e coraggio. Per anni, molti di questi attivisti sono stati accusati di essere egoisti, cinici, viziati, di non avere radici né senso di appartenenza al proprio Paese. E sono stati sottoposti alla peggiore accusa possibile in Israele: essere antipatriottici. Ma poi è arrivato questo incredibile sconvolgimento che ha spinto centinaia di migliaia di israeliani a scoprire nuove e vecchie riserve di identità, valori e appartenenza. Persone che per decenni non hanno sventolato la bandiera di Israele, ora la brandiscono con orgoglio. Molti israeliani hanno scoperto che è possibile amare il proprio Paese con una devozione lucida, che nasce dal desiderio di fare di questo Paese la nostra casa e da una genuina aspirazione a vivere in pace con i nostri vicini. Questa nuova emozione si fonda su un senso civico ponderato e maturo e su una comprensione dello spirito della democrazia, del liberalismo, dell’uguaglianza e della libertà.

David Grossman

(Traduzione di Luis E. Moriones)

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Se il conflitto interno alla società alimenta la democrazia d’Israele

di Maurizio Molinari Repubblica 28 marzo 2023

La storia dello Stato ebraico è costellata di scontri causati dalla natura rivoluzionaria del sionismo e dalle sue differenti identità

La grande protesta popolare che da dodici settimane sfida la riforma della Giustizia proposta dal premier Benjamin Netanyahu è senza precedenti nei quasi 75 anni di vita dello Stato ebraico: forza politica e aggressività verbale delle manifestazioni ripropongono la dirompente energia che ha distinto i conflitti più aspri durante l’intera parabola ultracentenaria del movimento sionista, concludendosi sempre con un vincitore ed uno sconfitto. A rendere drammatico lo scontro è il fatto che, per gli opposti campi, ha in palio qualcosa che vale ancor più della riforma ovvero l’identità stessa della democrazia israeliana.

Da un lato c’è il premier, sostenuto dalla coalizione più a destra mai arrivata alla guida del governo, che si propone di riformare la Giustizia – ed in primo luogo la Corte Suprema – per “sanare gli eccessi” dovuti ad uno “strapotere dei giudici” e dall’altra c’è il fronte della protesta che imputa proprio a questo progetto la “fine dello Stato di diritto” e la “morte della democrazia” a causa della volontà di “sottomettere il potere giudiziario a quello esecutivo e legislativo” con norme come la possibilità per la Knesset (il Parlamento) di respingere con un voto le sentenze della Corte Suprema.

È in questa caratteristica identitaria, totale, del conflitto politico che si ritrova e riconosce la natura rivoluzionaria all’origine di un movimento come il sionismo che, alla fine dell’Ottocento, si propose di porre fine alla Diaspora bimillenaria per dare vita ad uno Stato ebraico nell’antica terra dei padri. Basti ricordare che, nel 1903, Teodoro Herzl – fondatore del sionismo moderno e leader politico vincitore del primo Congresso sionista nel 1897 – guardava con favore all’offerta britannica di creare il nuovo Stato in Uganda ma venne su questo sfidato e sconfitto dal rivale Chaim Weitzman che lo aveva accusato di tradire il suo stesso progetto originario.

Venti anni dopo, con l’immigrazione ebraica che aveva creato i primi insediamenti nella Palestina sotto mandato britannico, il conflitto si ripropose, ancor più radicale: da un lato c’erano i sionisti “idealisti” arrivati in gran parte dall’ex impero russo in coincidenza con la rivoluzione bolscevica per creare “un nuovo modello di ebreo”, legato alla rinascita della propria terra, e dall’altra c’erano i sionisti accusati di essere “opportunisti” perché arrivavano spinti solo dalla necessità di trovare un rifugio dall’antisemitismo europeo negli anni in cui l’America del presidente Coolidge chiudeva le porte agli immigrati.

Il conflitto fra “idealisti” e “opportunisti” fu assoluto, totale, fino a quando fra i primi non si impose David Ben Gurion, obbligando gli uni e gli altri a far prevalere la necessità di creare al più presto lo Stato tanto più che l’Europa era in preda al nazifascismo. Ma anche Ben Gurion, primo premier nel 1948, non fu da meno in quanto ad accese rivalità: nel suo caso sul fronte opposto c’era Zeev Jabotinsky, leader dell’Irgun revisionista, che immaginava uno Stato ad economia capitalista – e non socialista come Ben Gurion – nonché esteso su tutto il territorio dell’ex mandato britannico – inclusa l’attuale Giordania – mentre Ben Gurion accettava i compromessi territoriali con gli arabi-palestinesi pur di arrivare in fretta allo Stato.

Lo scontro fra l’Haganà – la forza paramilitare dei sionisti socialisti di Ben Gurion – e l’Irgun di Jabotinsky arrivò fino all’uso del fuoco quando, poco dopo la nascita dello Stato, i primi fecero fuoco sui secondi per impedire lo sbarco delle armi della nave “Altalena”, poco a Nord di Tel Aviv. Quei 16 morti causati dallo scontro armato fra Haganà e Irgun sulla spiaggia di Kfar Vitkin restano ancor oggi una ferita profonda nel movimento sionista, un monito immanente sul rischio a cui si va incontro quando la sfida, identitaria e di potere, per la guida del movimento prende il sopravvento sulla necessità di unirsi per difendersi da chi nel mondo circostante arabo-musulmano, allora come oggi, ancora nega il diritto degli ebrei ad avere uno Stato.

È stata la somma fra la natura rivoluzionaria del sionismo ed il fatto di essere composto da una miriade di correnti ed identità differenti specchio della Diaspora – socialisti, comunisti e revisionisti, laici e osservanti, ashkenaziti e sefarditi, tedeschi e nordafricani, galiziani e yemeniti – a dar vita a questi scontri epocali, che con la nascita dello Stato si sono trasferiti dentro la vita politica.

Dalla decisione del kibbutz Ein Harod di dividersi in due negli anni Cinquanta fra sostenitori ed avversari di Josif Stalin all’incontenibile avversione fra i leader laburisti e il Likud di Menachem Begin esaltata dalla guerra in Libano nel 1982, fino al duello politico senza esclusione di colpi – che ha tenuto banco per oltre una generazione – fra due alleati dello stesso partito come Shimon Peres e Yitzhak Rabin. Ed all’omicidio politico proprio di Rabin nel 1995 da parte di Igal Amir, un estremista di destra contrario agli accordi di Oslo siglati due anni prima con i palestinesi di Yasser Arafat.

Netanyahu, erede di Begin e leader del Likud, è riuscito per oltre venti anni a navigare attraverso queste lacerazioni politiche – alleandosi con i partner più diversi – ed alle ultime elezioni ha portato con sé l’estrema destra di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, sostenitrice di posizioni di forte rottura, dai rapporti con gli arabi alla sfida frontale sulla Giustizia. Ma non è tutto perché dietro la vittoria alle ultime elezioni di questa coalizione si intravede l’emergere di una nuova generazione di israeliani che non si riconosce nella laica Tel Aviv o nei kibbutzim fondati in gran parte da immigrati askenaziti ed europei perché più legata ai valori della tradizione, più di origine sefardita e più presente negli insediamenti della West Bank. Ecco perché la resa dei conti sulla riforma della Giustizia cela anche un conflitto frontale sull’identità dello Stato. Seguendo il metodo rivoluzionario dello scontro continuo, identitario e totale, per sostenere una società democratica come se fosse un ponte sempre in bilico.

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Israele, la terra e l’anima

di David Grossman

L’intervento dello scrittore alla manifestazione di sabato contro la riforma della giustizia annunciata dal governo Netanyahu

Quello che segue è il testo del discorso pronunciato dallo scrittore israeliano dal palco della manifestazione di sabato a Tel Aviv (alla quale hanno partecipato più di 100 mila persone) contro la riforma della Giustizia annunciata dal premier Netanyahu.

Incontro sempre più persone, soprattutto giovani, che non vogliono continuare a vivere qui. Che si sentono alienati da quanto accade e ciò li rende, a malincuore, degli estranei in patria. Israele come lo conosciamo oggi ha smesso di essere la loro casa e, per non soffrire a causa di questo senso di estraneità, si sono rifugiati in una sorta di “esilio interiore”.

È una sensazione che comprendo, ma fa male. Perché lo Stato di Israele è stato fondato per essere il luogo nel mondo in cui ogni ebreo, e il popolo ebraico, si sentano a casa. E se così tanti israeliani si sentono “esuli nel proprio Paese”, è chiaro che qualcosa sta andando storto.
Mi sembra che molti condividano questo sentire, gente di destra, di centro e di sinistra, ebrei e arabi, laici e religiosi. Quelli che sono stati sconfitti alle elezioni e persino quelli che hanno vinto: ossia coloro il cui giubilo di vittoria non riesce a nascondere quella sottile sensazione di panico quando constatano il vero prezzo del loro trionfo, e soprattutto quando iniziano a configurare i volti dei partner con cui condividono la vittoria.

Nel ricorrere del 75mo anniversario dalla sua fondazione, Israele si trova di fronte a una lotta fatale sulla propria identità: sui tratti della sua democrazia, sul ruolo dello Stato di diritto, sui diritti umani. Sulla libertà di creazione e sulla libertà di espressione artistica. Sull’autonomia dell’informazione pubblica.
Si tratta di una lotta contro leggi volte a istituzionalizzare il razzismo e la discriminazione, a umiliare le minoranze. Una battaglia contro politici cinici, alcuni dei quali corrotti, determinati a ridefinire la giustizia in modo unilaterale, antidemocratico. E in un batter d’occhio.

Amiche e amici, lo so, non è facile uscire di casa e manifestare settimana dopo settimana, rimanendo imbottigliati nel traffico, a volte per ore. Ma ciò che stiamo facendo qui è un atto di grande risveglio. È l’inizio del ritorno dall’esilio – soprattutto quello interiore, paralizzante – verso casa.
In questa folla enorme e variegata, ci sono quanti – come me – cui brucia nei cuori e toglie il sonno il futuro dei diritti Lgbt o dell’istruzione, così come dell’occupazione (dei Territori palestinesi, ndt).

Sono qui in piazza con noi rappresentanti di molte organizzazioni che nel quotidiano non si occupano di proteste. E c’è anche chi – come nelle precedenti manifestazioni – da sempre si identifica con la destra.
Tutte queste persone oggi sono pronte a mettere da parte, per un po’, la propria agenda, per unirsi attorno alla cosa più importante, critica e urgente.
E lo facciamo perché, dietro al programma unilaterale e oppressivo della “riforma giudiziaria”, vediamo una casa in fiamme.
E capiamo che se lo Stato di diritto viene danneggiato in maniera critica anche tutte le altre battaglie importanti si disintegreranno gradualmente.
Per tutti questi motivi mi rifiuto di essere un esule in patria e penso sia così anche per voi. Altrimenti non saremmo qui. Manifestiamo perché ci rifiutiamo di essere passivi, ci rifiutiamo di rimanere indifferenti. Ci rifiutiamo di essere esuli nel nostro Paese.


Adesso è il momento, amiche e amici, è l’ora buia. Ora è il momento di alzarsi e gridare che questa terra è parte della nostra anima. Ciò che accade oggi determinerà cosa ne sarà di essa, chi saremo noi e chi saranno i nostri figli.
Perché, se lo Stato di Israele sarà così diverso e lontano dalla speranza e dalla visione che lo hanno creato, si può dire che in un certo senso – un pensiero terrificante – non sarà più.
Ma se vogliamo – e ovviamente noi lo vogliamo – che lo Stato di Israele continui a esistere e a prosperare, non deve allontanarsi dalla speranza e dalla visione sulla cui base è stato creato.
Voi – centotrentamila persone riunite qui stasera – voi siete la speranza, voi siete la visione, voi siete l’opportunità.

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Con il ritorno di Netanyahu Israele precipita verso l’anarchia

di David Grossman

“È in gioco il nostro futuro e quello dei nostri figli, la possibilità di diventare un Paese egualitario. Ma lui potrebbe averci portati a un punto di non ritorno”

Tutto quello che è successo in Israele dopo le elezioni all’apparenza rientra nel quadro della legalità e della democrazia. Ma sotto l’apparenza – com’è successo più di una volta nella storia – sono stati gettati i semi del caos, del vuoto e del disordine all’interno delle istituzioni più cruciali di Israele.
Non parlo soltanto della promulgazione di nuove leggi, per quanto estreme e scandalose, ma di un cambiamento più profondo e fatale, un cambiamento della nostra identità, della natura dello Stato. E non è un cambiamento di cui si sia discusso in campagna elettorale; non è per decidere di questo che gli israeliani si sono recati alle urne.

Durante le trattative per formare il nuovo governo, continuava a girarmi in testa un versetto del libro di Isaia: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro». In sottofondo, come una tortura cinese, sento costantemente Moshe Gafni che proclama: «Metà della popolazione studierà la Torah e metà servirà nell’esercito». E ogni volta il mio cervello brucia, questa volta, in parte, per ragioni del tutto personali.

Le trattative, che ricordavano molto da vicino un assalto alla diligenza, guizzavano di fronte ai nostri occhi in rapidi fotogrammi, sprazzi di una logica aliena e provocatoria: «La clausola di annullamento», «la legge di discriminazione», «Smotrich avrà l’ultima parola sulle costruzioni in Cisgiordania», «Ben-Gvir potrà costituire una milizia privata in Cisgiordania», «il criminale recidivo Dery potrà…». In un battito di ciglia, con frenesia crescente, con la destrezza di mano del truffatore che fa il gioco delle tre carte per strada.

Sappiamo che in questo esatto momento qualcuno ci sta raggirando, che qualcuno si sta mettendo in tasca non solo i nostri soldi, ma anche il nostro futuro e quello dei nostri figli, l’esistenza che volevamo creare qui, uno Stato dove, nonostante tutti i suoi limiti e i suoi punti ciechi, la possibilità di diventare un Paese civile ed egualitario, un Paese con la forza per assorbire contraddizioni e divergenze, un Paese che un giorno potrà riuscire a liberarsi della maledetta occupazione, ogni tanto trapela. Un Paese che possa essere ebraico e credente e laico, una potenza tecnologicamente avanzata e tradizionale e democratica, e anche una casa accogliente per le sue minoranze. Uno Stato israeliano dove la molteplicità di dialetti sociali e umani non crei necessariamente paure, minacce reciproche e razzismo, ma conduca al contrario a una fertilizzazione reciproca e a una fioritura.

Ora, dopo che la polvere si è posata, dopo che le dimensioni della catastrofe sono diventate evidenti, Benjamin Netanyahu può anche raccontarsi che seminando il caos ha raggiunto i suoi obiettivi – distruggere il sistema legale, la polizia, l’istruzione e tutto ciò che odori anche vagamente di «sinistra» – e che quindi ora potrà riportare indietro le lancette, cancellare o almeno attenuare la folle e disonesta visione del mondo che lui stesso ha creato e tornare a guidarci in modo appropriato, legale, razionale. Tornare a essere un adulto responsabile in un Paese ben governato.

Ma potrebbe scoprire che dal punto in cui ci ha portati non esiste possibilità di ritorno. Sarà impossibile eliminare o anche semplicemente addomesticare il caos che ha creato. I suoi anni di caos hanno già inciso qualcosa di tangibile e spaventoso nella realtà, nell’anima delle persone che li hanno vissuti. Sono qui. Il caos è qui, con tutta la sua forza di risucchio. Gli odi interni sono qui. Il disprezzo reciproco è qui, così come la violenza crudele nelle nostre strade, sulle nostre autostrade, nelle nostre scuole e nei nostri ospedali. Anche coloro che chiamano bene il male e male il bene sono già qui. Pure l’occupazione, con ogni evidenza, non finirà in un futuro prossimo; è già più forte di tutte le forze oggi attive nell’arena politica. Quello che è cominciato ed è stato affinato con grande efficacia laggiù ora si sta infiltrando quaggiù. Le fauci spalancate dell’anarchia mostrano le zanne alla più fragile democrazia del Medio Oriente.

David Grossman

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