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Il ministro degli Esteri Lapid: “A Gaza sviluppo in cambio di sicurezza per noi israeliani”

Intervista con il ministro degli Esteri dello Stato ebraico: “I vincoli diplomatici economici e culturali creati dagli Accordi di Abramo hanno portato a più cooperazione prosperità e stabilità in tutta la regione”

Sharon Nizza , La Repubblica 24 dicembre 2021

GERUSALEMME – “Un governo responsabile” che faccia convergere i poli opposti verso soluzioni pragmatiche, a livello domestico, così come nella gestione del conflitto con i palestinesi, in assenza di una prospettiva diplomatica che non sembra profilarsi all’orizzonte. A parlare con Repubblica, nella prima intervista alla stampa italiana, è Yair Lapid, ministro degli Esteri e premier alternato del governo israeliano insediatosi sei mesi fa, una “grande coalizione” nata dal compromesso di otto partiti ai poli opposti per mettere fine a tre anni di crisi politica dopo quattro tornate elettorali.

Ministro Lapid, qual è il punto di convergenza di una coalizione così eterogenea?

“Per anni ci siamo abituati a “etichettare” chiunque: destra, sinistra, laici, ultraortodossi, ebrei, arabi. Questo governo mette fine alle etichette, facendo rivivere un’identità comune e condivisa, per costruire insieme un futuro migliore. Il comune denominatore è l’assunzione di responsabilità. La nostra coalizione presenta molti e diversi punti di vista – proprio come nell’attuale governo italiano – e arrivare a un consenso non è sempre semplice. Ma abbiamo già affrontato con successo una serie di questioni complesse grazie a discussioni ponderate che ci hanno permesso di trovare soluzioni a problematiche apparentemente intrattabili: la legge di bilancio approvata finalmente dopo tre anni e mezzo, leggi anticorruzione, misure senza precedenti per colmare i divari sociali”.

Dopo le tensioni nelle città a popolazione mista a maggio, l’ingresso nella coalizione di un partito arabo per la prima volta nella storia del Paese rappresenta un potenziale punto di svolta per il rapporto dello Stato con la sua principale minoranza?

“Come parte della collaborazione – di cui sono molto fiero – con Mansour Abbas e il suo partito Ra’am, abbiamo approvato uno storico piano nazionale per lo sviluppo delle comunità arabe, con miliardi di shekel dedicati a infrastrutture, educazione, potenziamento dei processi di integrazione occupazionale in particolare nel settore dell’high-tech. Uno dei principali test di una democrazia è come si relaziona alle minoranze: Israele investe in tutti i suoi cittadini per promuovere la piena uguaglianza civica. E questo non solo in nome dei valori in cui crediamo, ma perché siamo coscienti che non è possibile realizzare appieno il potenziale insito nella società israeliana senza la partecipazione di tutte le sue componenti, compresi gli arabi israeliani”.

Nonostante le recenti aperture del vostro governo verso l’Autorità palestinese, il premier Bennett ha ripetuto che la ripresa di negoziati di pace con i palestinesi “non è realistica” e che non intende incontrare Abu Mazen. Secondo l’accordo di rotazione, il 27 agosto 2023 lei subentrerà a Bennett alla carica di premier: ci sarà un cambiamento su questa linea?

“Anche se non ci sveglieremo domattina per scoprire che il conflitto israelo-palestinese è terminato, possiamo svegliarci e lavorare sodo per migliorare la vita degli israeliani e dei palestinesi. Stiamo già facendo passi tangibili per migliorare l’economia, le infrastrutture, la qualità della vita dei palestinesi. Ho elaborato un piano comprensivo per la Striscia di Gaza, “Economia in cambio di sicurezza”, e sono grato per il resoconto positivo e il sostegno ricevuto dalle mie controparti italiane. Il piano fornisce un orizzonte per milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza e di israeliani nelle comunità confinanti, la cui volontà di condurre una vita normale è costantemente minacciata dal terrorismo di Hamas. La prima fase del piano concerne la riabilitazione umanitaria di Gaza – riparazione delle infrastrutture elettriche, idriche, abitative e sanitarie – in cambio di una tregua a lungo termine da parte di Hamas e dell’impegno della comunità internazionale per impedirgli di acquisire nuovi armamenti per colpire i civili israeliani. La seconda fase prevede cambiamenti drastici per le vite degli abitanti della Striscia di Gaza, compresa la costruzione di un porto, più investimenti internazionali e un collegamento diretto tra Cisgiordania e Gaza. Naturalmente, non rinunceremo mai a riportare a casa i nostri soldati e civili tenuti in ostaggio e questo è un impegno che dovrà fare parte di qualsiasi piano. In tutte le fasi, il percorso è definito da una serie di parametri prestabiliti, e ogni violazione da parte di Hamas lo bloccherà o lo farà retrocedere. L’onere della prova sarà sempre a carico di Hamas. Come dimostra il progresso nella regione nell’ultimo anno dalla firma degli Accordi di Abramo, quando mettiamo le persone davanti alla politica, possiamo fare progressi che vanno a beneficio di tutta l’area. E su questa scia, sono fiducioso che tali progressi porteranno a un reale cambiamento anche a livello multilaterale. In questo senso crediamo che le democrazie come l’Italia debbano opporsi alle infinite risoluzioni diffamatorie contro Israele all’Onu e usare invece il proprio peso morale e il loro voto per stare dalla parte di Israele e respingere gli attacchi mirati contro di noi”.

Gli Accordi di Abramo si sono rivelati un game changer negli assetti regionali, ma quella che sembrava una scia di adesioni è rimasta ferma al 2020. Il vostro governo porterà a casa nuove normalizzazioni?

“Nell’ultimo anno, abbiamo visto emergere una nuova realtà in Medioriente. I rapporti diplomatici, economici, di sicurezza, culturali e interpersonali creati dagli accordi di normalizzazione hanno portato a maggiore cooperazione, prosperità e stabilità in tutta la regione. Non passa giorno senza che vi sia l’annuncio di una nuova iniziativa di cooperazione o di una storica visita ufficiale. Una cooperazione che ha dato i suoi frutti anche sul suolo italiano: le ambasciate israeliana e marocchina a Roma si sono riunite poche settimane fa per celebrare Hanukkah, e Ram Ben-Barak, presidente della commissione esteri e difesa della Knesset, ha rappresentato Israele nel Dialogo MED a Roma, che ospitava diverse controparti mediorientali. È una svolta cui assistiamo non solo con i nuovi alleati, ma anche con i nostri storici partner regionali, Egitto e Giordania. Molti altri Paesi affrontano le nostre stesse sfide, che, specie in Medioriente, non conoscono confini nazionali: la pandemia, i cambiamenti climatici e il terrorismo internazionale guidato dall’Iran sono minacce che accomunano molti. Molti Stati, nella nostra regione e oltre, vedono la prospettiva futura di cui ho parlato più volte: chi collabora guiderà, chi continua a isolarsi rimarrà indietro. Quindi sono ottimista sul fatto che sempre più Paesi si uniranno al cerchio della pace. La nostra mano è tesa verso la pace”.

Cosa dovrebbe includere l’accordo sul nucleare Jcpoa perché Israele senta garantiti i propri interessi e accantoni l’opzione militare che, come ripetete, “è sul tavolo”?

“L’Iran rappresenta una minaccia globale e il mondo intero può e deve agire con determinazione per fermare il programma nucleare e le attività maligne dell’Iran. La formula è semplice: sanzioni più severe, supervisione più rigida, e condurre qualsiasi colloquio con Teheran da una posizione di forza. Un’opzione militare credibile deve essere sul tavolo. Se gli iraniani agiscono nella convinzione che il mondo non intenda veramente fermarli, continueranno nella loro corsa verso la bomba. L’Italia e l’Ue nel suo complesso fanno parte della “maggioranza morale”: quei Paesi che devono mettere in chiaro che non permetteranno mai all’Iran di acquisire un’arma nucleare. Questo è esattamente il messaggio che ho condiviso con il ministro degli Esteri Di Maio a Roma in quella che era stata la mia prima missione da ministro degli Esteri. L’Italia ha un ruolo di primo piano da svolgere in vari consessi internazionali per affermare la stabilità regionale in Medioriente. Detto questo, Israele non chiede a nessuno di garantire la propria sicurezza: siamo responsabili della sicurezza dei nostri cittadini. Sappiamo di non essere soli nella nostra battaglia per impedire all’Iran di acquisire l’arma nucleare, ma Israele è consapevole della necessità di doversi difendere sempre, con i propri mezzi”.

C’è un aumento di investimenti cinesi in infrastrutture e tecnologie israeliane: come valuta Israele questa partnership, anche rispetto alle pressioni degli Usa in merito?

“Nell’ambito degli investimenti stranieri, negli ultimi anni abbiamo consolidato un percorso, molto simile a quello di altri Paesi, per potenziare la supervisione imparziale sulle infrastrutture nazionali e sui beni strategici per proteggere la nostra sicurezza nazionale. Gli Usa sono il più grande alleato di Israele: un’alleanza indissolubile basata su interessi e valori condivisi e su forti legami tra i nostri popoli. Questa relazione è una pietra miliare della politica estera di Israele e della stabilità regionale. La Cina è un importante partner economico per Israele, e continueremo a dare il benvenuto a investitori e turisti provenienti da tutti i nostri partner nel mondo”.

Il mondo guarda a Israele come laboratorio dell’efficacia alla lotta al Covid: recentemente avete attuato l’esercitazione Omega, che ha preparato lo scenario di Omicron. Come vi state organizzando per il contrasto della pandemia nel 2022?

“A metà novembre abbiamo tenuto l’esercitazione nazionale che avevamo chiamato “Omega”, un gioco di guerra volto a simulare la risposta a una futura variante letale di Covid resistente ai vaccini. Questo perché anche dopo aver gestito con successo l’ondata Delta, sotto l’abile guida del premier Bennett e dei nostri eccellenti professionisti della salute pubblica, riuscendo a mantenere l’economia e il sistema scolastico aperti, abbiamo imparato che pianificazione e tempestività costanti sono fondamentali. Infatti, l’esercitazione Omega ha contribuito a formulare la nostra risposta all’ondata Omicron che si è palesata solo poche settimane dopo. Guardando al 2022, questa continua pianificazione e preparazione è al centro della nostra strategia. Israele continua ad essere all’avanguardia nelle vaccinazioni: siamo stati i primi, già a fine luglio, a somministrare il booster e siamo riusciti a mantenere l’economia aperta nel Paese grazie al Green pass. Ora, stiamo procedendo con la somministrazione della quarta dose. Manteniamo un canale di scambio globale ai massimi livelli di esperti. Con l’Italia in particolare, grazie a incontri regolari tra i nostri ministeri della Salute, condividiamo buone prassi e scambio di informazioni per contrastare la pandemia congiuntamente. L’obiettivo di questa cooperazione è quello di tornare a una routine di sicurezza e prosperità, che nel caso dei nostri Paesi significa riprendere quanto prima il grande flusso di turisti e rafforzare ulteriormente i nostri già stretti legami interpersonali, culturali ed economici”.

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Abu Mazen vede il ministro della Difesa Gantz: per la prima volta in Israele dopo anni

Rossella Tercatin La Repubblica 29 dicembre 2021

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese a casa del membro del governo dello Stato ebraico a Rosh Haayin vicino a Tel Aviv. Al centro dei colloqui la cooperazione in materia di sicurezza ed economia, ma anche iniziative legate alla vita civile nei Territori palestinesi, in quelle che nel comunicato ufficiale del ministro israeliano sono state descritte come “misure volte alla costruzione di fiducia”. Critiche da Hamas e dall’opposizione guidata da Netanyahu

GERUSALEMME – L’ultima volta era stato per il funerale di Shimon Peres nel 2016, ma per ritrovare un colloquio diplomatico di livello simile bisogna risalire al 2010, nella residenza dell’allora premier Benjamin Netanyahu nell’ambito dei colloqui di pace promossi dall’amministrazione Obama. Un’altra era.

Non è di un accordo di pace che hanno parlato Gantz e Abu Mazen, ma il faccia a faccia è comunque considerato molto significativo. I due si erano già visti ad agosto a Ramallah: al centro di entrambi i colloqui cooperazione in materia di sicurezza ed economia, ma anche iniziative legate alla vita civile nei Territori palestinesi, in quelle che nel comunicato ufficiale del ministro israeliano sono state descritte come “misure volte alla costruzione di fiducia”.

Ho incontrato il presidente dell’AP, Mahmoud Abbas,” ha commentato Gantz su Twitter. “Abbiamo discusso dell’attuazione di misure economiche e civili e abbiamo sottolineato l’importanza di rafforzare il coordinamento in tema di sicurezza e prevenzione di terrorismo e violenza, per il benessere sia degli israeliani sia dei palestinesi.”

“Il Presidente Abbas ha incontrato il Ministro Gantz, e hanno discusso dell’importanza di creare un orizzonte politico che porti a una soluzione politica nel rispetto delle risoluzioni di legittimità internazionale,” le parole del consigliere di Abu Mazen Hussein al-Sheikh, ministro per gli Affari civili dell’ANP, che ha partecipato alla riunione.

In seguito al colloquio, il Ministero della Difesa israeliano ha approvato la regolamentazione dello status di 6.000 palestinesi residenti in Cisgiordania e 3.500 a Gaza, nonché il trasferimento di un anticipo del valore di cento milioni di shekel delle tasse che lo Stato ebraico riscuote per conto dell’ANP – dazi doganali, IVA e imposte sul reddito dei palestinesi che lavorano in Israele, come stabilito dagli accordi di Oslo. Inoltre, Gerusalemme concederà varie centinaia di permessi di ingresso per uomini d’affari e funzionari dell’Autorità.

Abu Mazen e Gantz hanno anche discusso possibili ulteriori misure volte soprattutto a rafforzare l’economia palestinese, che versa in uno stato di grave crisi, come l’abbassamento delle tariffe legate al trasferimento di carburante e l’incremento del numero di permessi di lavoro in Israele.

I due hanno affrontato il tema delle recenti tensioni in Cisgiordania: nelle ultime settimane, un venticinquenne israeliano è stato ucciso da fuoco palestinese vicino all’avamposto illegale di Homesh e si sono verificati diversi attacchi di civili israeliani provenienti dagli insediamenti contro civili palestinesi. Anche l’IDF è intervenuto per sedare proteste violente. A fine novembre un altro giovane israeliano era stato ucciso da un terrorista palestinese a Gerusalemme mentre si recava al Muro del Pianto.

L’incontro tra Abu Mazen e Gantz è stato condannato da Hamas, organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, che ha definito il colloquio “una coltellata all’Intifada.” Anche l’opposizione israeliana, guidata da Netanyahu, ha duramente criticato il faccia-a-faccia.

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Intervista a Gadi Luzzatto Voghera: “Attentato alla sinagoga e quella sinistra antisemita”

Umberto De Giovannangeli — 17 Dicembre 2021

Il lodo Moro e quella ferita non ancora rimarginata tra l’ebraismo italiano e la sinistra. Il Riformista ne parla con una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Gadi Luzzatto Voghera. Storico, ha insegnato Storia Contemporanea e Storia degli ebrei presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e al Boston University Study Abroad Program a Padova. È stato il direttore scientifico della Biblioteca e dell’Archivio della Comunità Ebraica di Venezia. Dal 2016 dirige la Fondazione CdecCentro di Documentazione Ebraica Contemporanea, a Milano. È autore, tra gli altri saggi, del volume Antisemitismo a sinistra (Einaudi, 2007). L’incipit è quanto mai di stringente attualità: «L’ebreo è la vittima ma anche il sionista, il lobbista, l’americano, e non semplicemente una persona. Dall’Ottocento ai giorni nostri. Anche a sinistra si fa inconsciamente spesso uso del linguaggio antisemita. È necessario saperlo vedere per poterlo sradicare».

Le rivelazioni de Il Riformista sulla tentata strage alla Sinagoga di Roma, il 9 ottobre del 1982, hanno aperto un dibattito molto sentito e anche doloroso. Si parte dal lodo Moro, che caratterizza quegli anni. Da storico come la vede?
Quel lodo era certamente il frutto di un compromesso anche all’interno di forze politiche che pure sul terreno governativo e parlamentare si contrapponevano. Evidentemente c’era un comune sentire soprattutto connesso a questioni di politica estera, al ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, al rapporto con i paesi arabi in generale e in particolare al conflitto israelo-palestinese. A prescindere da Aldo Moro, nella Democrazia cristiana c’era un’attenzione particolare, direi privilegiata, ai rapporti con i paesi arabi. Giulio Andreotti da ministro degli Esteri aveva negli anni precedenti guardato con particolare attenzione a relazioni privilegiate dell’Italia con i paesi arabi il che comprendeva anche una qualche forma di attenzione ad attività non soltanto diplomatiche ma, anche, purtroppo, di natura militare in Europa. Lo stesso tipo di attenzione c’era anche da parte di altre forze politiche appartenenti alla sinistra, certamente il Partito socialista di Bettino Craxi era molto legato all’Olp e a Yasser Arafat e manifestava un’attenzione specifica col mondo arabo…

E il Pci?
Il Partito comunista viveva come sempre in quegli anni tensioni complicate e travagliate al proprio interno che certamente risentivano di una forte dipendenza, dal punto di vista diplomatico, e di schieramento, nei decenni precedenti, dall’atteggiamento dell’Unione Sovietica su tutta l’area mediorientale e che vedeva dei nodi decisamente non risolti. In tutto questo, però, proprio nella contingenza di quei mesi, di quelle settimane, s’innestano quegli avvenimenti storici, politici, militari che hanno a che fare con l’Operazione Pace in Galilea, lanciata nel giugno del 1982 dal Governo d’Israele allora guidato da Begin, con l’obiettivo di chiudere i conti con la presenza militare dell’Olp nei campi profughi in Libano. Quell’operazione aveva aperto una questione militare e nello stesso tempo diplomatica, che era sulle prime pagine di tutti i giornali e quindi all’attenzione dello stesso Governo italiano. Da lì a poco ci fu la prima missione Unifil in Libano che vide una significativa presenza italiana tra i caschi blu dell’Onu. E si trattava di una prima volta della presenza militare italiana fuori dai confini nazionali. Quella fu una estate molto travagliata quanto ai rapporti tra la sinistra e il mondo ebraico in generale in Italia su quel nodo lì. La testimonianza più eclatante fu la manifestazione sindacale durante la quale fu deposta una bara davanti all’ingresso della Sinagoga di Roma. Fu un episodio che fu vissuto in maniera molto dolorosa dalla comunità ebraica. Si aprirono dibattiti giornalistici importanti che hanno anche spaccato trasversalmente la comunità ebraica al proprio interno sull’atteggiamento da tenere nei confronti della guerra in Libano. E in tutto questo si è innestato quell’atto terroristico che non era una novità sul terreno italiano…

In che senso?
Adesso lo sappiamo dalle carte, anche quelle meritoriamente portate alla luce da Il Riformista, ma devo dire che l’allarme era già scattato nelle comunità ebraiche italiane. È qualcosa che io ho vissuto in prima persona. Si sapeva che c’era un allarme e ci veniva restituito questo allarme dalle stesse questure a tutti i livelli. Era una cosa nota. Un po’ sono stupito da queste rivelazioni. Trovare nero su bianco con tanto di telex, cablo etc., che il giorno dell’attacco terroristico fosse stata sguarnita la sicurezza davanti alla Sinagoga di Roma da parte delle forze di polizia, questo è qualcosa di molto grave, che stupisce, e su cui va fatta chiarezza. Tanto più che era risaputo che le comunità ebraiche erano oggetto di possibili azioni terroristiche in Italia e in Europa. Una strategia del terrore che rifletteva peraltro un’articolazione interno all’arcipelago terroristico del mondo palestinese che non era nemmeno molto univoco nella sua operatività. Ognuno andava per la sua strada: Abu Nidal non chiedeva certamente il permesso ad Arafat per muoversi. In tutto questo, la sinistra si mancava di una certa consapevolezza…

A proposito di questo. “Il Riformista” ha titolato un’intervista a Piero Fassino così: “Ebraismo e socialismo sono fratelli. Cara sinistra è ora di capirlo”. La sinistra l’ha capito o ancora no?
Vede, io comincio ad avere qualche difficoltà a dare una cornice a cosa intendiamo per sinistra adesso. All’epoca, la sinistra aveva dei pilastri, anche se tardo ideologici, piuttosto visibili e anche una sostanza organizzativa a livello dei partiti molto chiara e molto dipendente da una struttura verticistica, per cui una volta presa una decisione, elaborato in qualche modo anche un sentiero di discussione, questa strada veniva intrapresa con una certa decisione. Dopodiché le ricadute a livello periferico ci mettevano un po’ a decantare, ma comunque sia c’era una visione. Posso dire cosa è rimasto come eredità di quello che fu fatto all’epoca. E ciò che fu fatto, a vari livelli, fu uno sforzo sia nel Pci che nel Psi estremamente significativo. Va ricordato peraltro, che il Governo dell’epoca era guidato da Giovanni Spadolini, leader di un partito, il Pri, che aveva posizioni storicamente pro Israele. D’altro canto, il Partito repubblicano si considerava un po’ l’erede dello spirito azionista e a quell’epoca parte essenziale della sinistra italiana, anche se poi aveva comportamenti governativi di centro. Adesso c’è l’’eco di quello su cui si lavorò all’epoca. Sono invecchiate molto le persone che hanno fatto parte di quella stagione, ci sono ancora degli strascichi organizzativi, penso a “Sinistra per Israele”, ad esempio, e a piccoli gruppi organizzati che si riconoscono nell’elaborazione che si fece all’epoca, in quel tentativo di comprendersi meglio al di là delle retoriche, che in quegli anni si basavano sull’idea che non ci potesse essere frattura tra ebraismo e sinistra per il semplice fatto che si proveniva tutti da una comune matrice antifascista. Un qualcosa che però non faceva i conti con quella che è poi stata l’elaborazione storiografica che ci restituisce altro rispetto a quello che era stato. Era più il frutto di una epica resistenziale su cui si era vissuti per decenni ma che non ci dava l’idea corretta di quello che era stata, solo per fare un esempio, l’adesione di una componente dell’ebraismo italiano al fascismo per diversi anni. Non c’era stato soltanto un arruolamento ipso facto degli ebrei in campo antifascista solo perché dal ’38 in poi erano stati perseguitati. C’è una storia più articolata, su cui ormai da tanti anni si sta lavorando a vari livelli. C’è un equivoco di fondo che ancora negli anni’80 si manteneva, però nello stesso tempo all’epoca quell’equivoco era necessario perché era evidente come fosse maturata una frattura su Israele.

Che cosa era successo?
Dal ’67 al ’72, su Israele era maturata una frattura forte tra la sinistra e una componente importante delle comunità ebraiche. Una frattura che nell’82 non era più sopportabile, per cui si attivo un percorso interessante, anche fruttuoso. Oggi rimangono dei pezzi sfrangiati della sinistra. Più che una mancanza di attenzione o di empatia da parte del mondo ebraico, che peraltro ha vissuto anch’esso una grande trasformazione, ciò che faccio fatica a capire, e non credo di essere il solo, è cos’è la sinistra in questo momento, soprattutto se c’è anche uno sguardo omogeneo delle componenti che in questo momento si riconoscono a sinistra, in relazione, ad esempio, al conflitto mediorientale. In mezzo ci sono stati tanti eventi. Uno di quelli fondamentali è che si è passati attraverso la stagione dell’elaborazione della memoria della Shoah, che ha cambiato molte carte in tavola. Ha cambiato lo sguardo stesso sul significato dello Stato d’Israele nello scacchiere internazionale e come componente essenziale, democratica, all’interno di un Mediterraneo molto complicato dal punto di vista democratico. Non siamo all’anno zero. Sicuramente c’è una conoscenza maggiore da parte del mondo non ebraico in generale, anche a sinistra, di quello che sono le sensibilità delle comunità ebraiche e dell’articolazione della società israeliana, come di quella palestinese. Allo stesso tempo, però, c’è il mantenimento di una serie di retoriche, su cui ho scritto un libro, dell’antisemitismo anche a sinistra che ha una sua lunghissima storia di permanenza di linguaggio che fa fatica a smuoversi. Da questo punto di vista, c’è ancora tanto da fare.

Umberto De Giovannangeli

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Attacco alla sinagoga, Fiano: “Grave e inquietante quanto rivelato dal Riformista, governo ci espose ai terroristi2

Umberto De Giovannangeli — Il Riformista – 11 Dicembre 2021

Il suo impegno politico nella lotta all’antisemitismo s’intreccia indissolubilmente con la storia personale e della sua famiglia. Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico, già membro della segreteria nazionale Pd, è il terzo e ultimo figlio (dopo Enzo e Andrea) di Nedo Fiano (1925-2020), ebreo deportato ad ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, e della moglie Rina Lattes. Nel gennaio 2021 ha pubblicato il libro Il profumo di mio padre, che racconta della sua vita di sopravvissuto della Shoah e del rapporto con il padre sopravvissuto ad Auschwitz.

Tra il 1998 ed il 2001 è stato presidente della Comunità Ebraica milanese, dal 2001 al 2006 è stato invece consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. Dal 2005 è segretario nazionale di Sinistra per Israele, associazione politica, che insieme a Piero Fassino e Furio Colombo che la presiede, si propone di sviluppare la conoscenza delle posizioni della sinistra israeliana e contrastare i pregiudizi anti-israeliani, che ritiene albergare anche in una parte consistente della sinistra italiana. In questo modo ha promosso iniziative che riguardano la convivenza interculturale e il confronto, come iniziative per il dialogo tra israeliani e palestinesi.

Le rivelazioni de Il Riformista riattualizzano una vicenda tragica, l’attacco terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, e riaccendono i riflettori sul “lodo Moro”, quello che lei ha definito il “lodo insanguinato”. Cosa racconta quel lodo?
Racconta la situazione del nostro paese in quegli anni. Quel lodo di cui parliamo è evidentemente un elemento di scambio determinato da chi governava l’Italia, da chi aveva la responsabilità sulla politica estera di questo paese. Un patto non scritto in maniera formale, che prevedeva che le attività terroristiche dei movimenti palestinesi non avrebbero investito l’Italia. Uno scambio che contemplava, contemporaneamente, un appoggio alla politica palestinese. L’Italia sarebbe stata considerata un terreno di passaggio per le forze palestinesi e di converso la politica estera italiana avrebbe tenuto un profilo assolutamente filopalestinese. Questo intendiamo con questo terribile lodo che fece sposare all’Italia una posizione inaccettabile.

In una intervista a questo giornale, Riccardo Pacifici, per anni presidente della Comunità ebraica di Roma, ha rivelato un episodio alquanto emblematico. Alla signora Daniela Gaj, la mamma del piccolo Stefano Taché, il bambino ucciso nell’attacco alla Sinagoga, che si batteva perché anche lui fosse ricordato nella Giornata dedicata alle vittime italiane del terrorismo, fu motivata così l’esclusione del figlio: «È un ebreo, mica un italiano». Cosa c’è dietro questa terrificante affermazione?
C’è una terribile concentrazione di odio che avvenne in quel periodo e il mancato superamento di stereotipi cari alla cultura antisemita sia di matrice cattolica che di matrice politica. Quelli sono gli anni della manifestazione sindacale, a cui partecipava anche la Cgil, che depositò davanti alla Sinagoga di Roma una bara. Quelli sono gli anni della guerra in Libano del 1982 con la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, non opera dei militari israeliani ma delle milizie cristiano-maronite. Quella tragica vicenda determinò in Italia una trasposizione dell’odio verso Israele, che era visto come il massacratore dei palestinesi, falsando la realtà storica di quel momento, verso gli ebrei italiani. Quella manifestazione testimonia tutto ciò. E dà conto anche di una sinistra italiana che, a parte alcune lodevoli eccezioni in cui mi colloco assieme ai miei maestri di quegli anni tra i quali Piero Fassino e Giorgio Napolitano, che Riccardo Pacifici cita nella bella intervista al Riformista, e anche altri come Valter Veltroni e Francesco Rutelli, in quell’inizio degli anni ’80 sulla vicenda mediorientale si era schierata unicamente da una parte e questo fu trasfuso in una parte della cultura corrente italiana. Quella risposta che cita Riccardo Pacifici fa gelare il sangue e testimonia di un periodo che però, va detto, fortunatamente è passato. La frase ricordata da Pacifici coglie un particolare dell’epoca quanto al pregiudizio antiebraico, ma è ancora più grave e inquietante quanto ha portato alla luce Il Riformista con le carte ritrovate nell’archivio di Stato.

Perché più grave?
Qui c’è una collusione di apparati dello Stato. Le segnalazioni dei telex che avete pubblicato dicono che ci potrebbero essere attentati a obiettivi israeliani in Italia ma anche a sinagoghe, nell’ambito di qualcosa che organismi dello Stato adesso dovranno scoprire, e nonostante queste segnalazioni, le forze dell’ordine non agiscono. Qui si va oltre l’antisemitismo. Qui c’è un calcolo, che va investigato, di relazioni internazionali.

Cosa può fare oggi la politica perché sia fatta piena luce su quella pagina oscura della storia italiana?
Il Partito democratico ha presentato subito una interrogazione parlamentare a firma mia e di Lattanzio. Io penso che sicuramente se ne debba occupare, in Parlamento, l’organo che si occupa del funzionamento dei servizi segreti di cui ho fatto parte anch’io per diversi anni, che è il Copasir. Questo organismo può chiedere, ne ha le prerogative, la desecretazione di altri atti, per scoperchiare quello che c’è sotto questa spaventosa costruzione che ha portato a quel morto di due anni e a quei 37 feriti. In più mi pare, come è stato scritto, non c’è solo la possibile omissione colposa o addirittura connivenza colposa con chi ha provocato quelle vittime. Bisogna anche capire il ruolo di Abdel Osama al-Zomar, il palestinese che fu arrestato un anno dopo la tentata strage, al confine tra Grecia e Turchia con un carico di 60 kg di tritolo. Come avete ricordato, l’Italia ne chiese l’estradizione ma il terrorista palestinese fu immediatamente scarcerato dalla Grecia forse per evitare ritorsioni. Al-Zomar che era stato arrestato, che era stato multato, che era stato segnalato, che era conosciuto. Bisogna capire se all’interno di quel lodo sanguinoso ci fossero delle collaborazioni con alcuni palestinesi. Questo lo può sapere solo chi può scavare dentro queste carte ulteriormente. Voglio ricordare un altro episodio di quegli anni…

Quale?
Sigonella. Gli assassini di Leon Klinghoffer, sull’Achille Lauro, furono lasciati andare dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Gli americani chiedevano che fossero trattenuti a Sigonella, ma Craxi decise di lasciarli ripartire all’interno di un accordo con l’Olp. Stiamo parlando di persone che avevano ucciso a sangue freddo, a colpi di mitragliatrice, un povero anziano ebreo in sedia a rotelle che aveva la sola colpa di essere ebreo. Quel clima va ricostruito tutto. Ma a parte il clima, noi vogliamo sapere chi fece cosa e perché.

Perché quella vicenda di oltre 39 anni fa è ancora attuale?
Perché la difesa della libertà e della democrazia per ognuno che emana dalla nostra Costituzione, non può soggiacere a nessun accordo internazionale, palese o nascosto. Non ci possono essere accordi internazionali con forze terroristiche, come potrebbe essere stato in questo caso. La storia italiana è piena di racconti di omissioni e di segnalazioni a cui non ha corrisposto un’azione delle forze dell’ordine, negli anni bui della nostra Repubblica. Ed è ancora attuale perché la trasparenza deve essere una necessità che oggi più che mai è contemporanea. Tutto questo è contemporaneo, secondo me. Continua ad appartenere al rapporto che deve esserci tra le forze di sicurezza che lavorano nel segreto di un paese, e le sue politiche palesi. Dopodiché c’è una storia dell’antisemitismo e anche dell’antisionismo in Italia che, devo dire, è sicuramente migliorata. Nell’intervista, Pacifici può citare, nel Pci di allora, solo Fassino, Napolitano e Occhetto, e ricorda le parole di Giorgio Napolitano – l’antisionismo come forma moderna dell’antisemitismo -. E Pacifici li cita come una eccezione, perché il Partito comunista italiano dalla Guerra dei sei giorni in poi si era schierato con il blocco sovietico, schierato in quegli anni con l’Egitto di Nasser e con la Siria. Da allora c’è stata una evoluzione assoluta. Basta vedere quando oggi ci sono delle manifestazioni di solidarietà con Israele, perché ci sono attentati o per altre cose del genere, nel ghetto di Roma. Ricordo l’ultimissima, Enrico Letta era stato appena eletto segretario del Pd, c’erano tutti i segretari politici dell’arco parlamentare. Questo senza togliere che io, come Enrico Letta o Piero Fassino, ci batteremo sempre per una soluzione del conflitto israelopalestinese fondata sul principio “due popoli, due Stati”. È cambiato il rapporto della sinistra italiana, per lo meno nella quale mi riconosco io, quella parlamentare, con quella vicenda. In quegli anni purtroppo non era ancora così. Non che questo c’entri con quegli attentatori, ma centra con quella storia che abbiamo raccontato. E con il lodo Moro.

Umberto De Giovannangeli

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Intervista a Piero Fassino: “Ebraismo e socialismo sono fratelli, a sinistra è ora di capirlo”

Umberto De Giovannangeli — Il Riformista -14 Dicembre 2021

Se, come è vero, dietro al “lodo Moro” c’era anche un humus antisemita e antisionista che aveva attecchito anche a sinistra, Piero Fassino quel “lodo”, riportato alla luce da Il Riformista con le nuove rivelazioni sull’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, che costò la vita al piccolo Stefano Taché, e il ferimento di 37 persone, quel lodo Fassino, già segretario dei Ds e sindaco di Torino, oggi parlamentare dem e presidente della Commissione Affari esteri della Camera, lo polverizza rivendicando una storia che non tutti a sinistra hanno ancora assimilato.

L’attentato alla Sinagoga di Roma, il “lodo Moro” e ancora, come ricordato da Emanuele Fiano in una intervista a questo giornale, la manifestazione sindacale, a cui partecipò anche la Cgil, con la bara deposta davanti alla Sinagoga. Cosa c’è dietro questa ferita non ancora rimarginata?
Le vicende degli anni ’80, comprese le reazioni all’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma del 1982, vanno inquadrate nelle letture manichee e unilaterali con cui in quegli anni la sinistra guardava all’ebraismo e a Israele, tema spesso affrontato senza tener conto della storia, né dei processi politici reali. Sgombriamo il campo da alcune false verità…

Quali?
Intanto liquidiamo i pregiudizi antiebraici e antisemiti. L’ebraismo è una delle radici fondamentali della cultura, della storia e della civiltà europea. Basta pensare a città come Amsterdam, Praga, Vilnius, in Italia Livorno, e la stessa Berlino prima dell’avvento del nazismo, per sapere che l’ebraismo non è estraneo a noi, è una delle radici dell’identità europea. Punto secondo: il sionismo non è una forma di razzismo, come affermò anni fa una sciagurata risoluzione delle Nazioni Unite, che spesso continua essere evocata. Il sionismo nasce alla fine dell’Ottocento come un movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico. E nasce insieme al movimento socialista, tant’è che molti dirigenti socialisti vengono da origini ebraiche – si pensi a Treves e Modigliani, leaders del Partito Socialista. E le interazioni tra movimento socialista e movimento sionista erano fortissime, come testimonia la prima tessera del movimento sionista fondato da Theodor Herzl, che aveva come immagine un bue che traina un aratro in un campo di grano con il sole all’orizzonte, cioè un simbolo socialista. L’ebraismo oltre che essere una radice della civiltà e della storia europea, è anche parte della storia del movimento socialista del continente. Nascono insieme e crescono insieme. Non solo, ma l’avvento del fascismo prima e del nazismo – e di molte dittature dello stesso stampo reazionario in Ungheria, Polonia, Romania – e le loro persecuzioni contro gli ebrei, rinsaldano ancora di più il rapporto tra l’ebraismo e la sinistra, in una solidarietà cementata dalla comune lotta contro un comune nemico. E nonostante lo stalinismo abbia tra le sue tare i pogrom anti ebraici, ciò non arriva fino al punto di recidere i rapporti tra il mondo ebraico e la sinistra. E nella Seconda guerra mondiale ancor di più: la resistenza al nazismo in Europa si salda alla lotta disperata delle comunità ebraiche per sottrarsi alle persecuzioni, ai campi di sterminio, all’Olocausto. E quando, all’indomani della Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite decidono che il mandato britannico sulla Palestina ceda il posto alla creazione di due Stati – lo Stato ebraico e lo Stato arabo-palestinese – sono le grandi potenze, Usa e Urss e tutti i paesi europei, a votare in favore di quella risoluzione, vissuta dalla sinistra come un atto di giustizia e di restituzione, dopo il dramma dell’Olocausto, di speranza e dignità al popolo ebraico. Nell’archivio della federazione torinese del Pci, ho ritrovato, quando ero segretario, una locandina raffigurante un piroscafo e l’indizione di una sottoscrizione dei Comunisti torinesi per raccogliere fondi per sostenere gli ebrei che partivano da Livorno per andare in Palestina.

Ma anche in quegli anni vi furono momenti difficili, come insegna la storia…
Assolutamente sì. In particolare, ancora una volta, dall’Unione Sovietica vennero campagne di persecuzione, come i pogrom scatenati per il presunto – e non vero – “complotto dei camici bianchi”, con cui si accusarono medici ebrei di aver ordito un complotto contro la salute di Stalin. Nonostante quel momento molto duro, il fatto che pochi anni prima si fosse combattuto insieme contro il fascismo e il nazismo, consentì di mantenere un vincolo di solidarietà, soprattutto in Italia e in Occidente. Né può essere dimenticato che anche molti dirigenti comunisti delle democrazie popolari dell’Europa centrale erano ebrei, protagonisti della resistenza antinazista. Tant’è che quando Stalin, per assoggettare quei paesi in modo ancora più ferreo al volere di Mosca, ne decapita i gruppi dirigenti, la principale accusa dei processi farsa è di essere “agenti sionisti”. E quel che accade a Slansky in Cecoslovacchia, a Rajk in Ungheria, a Gomulka in Polonia. Tragedie che testimoniano di quanto l’ebraismo fosse parte della sinistra anche al di là della cortina di ferro. Tuttavia il momento di profonda lacerazione tra sinistra e mondo ebraico avviene più avanti

Qual è questo momento di rottura?
Sono le due guerre dei Sei giorni nel ’67 e dello Yom Kippur nel ’73. Due guerre che si inscrivono totalmente nella contrapposizione bipolare di quegli anni tra campo comunista e campo occidentale. Per usare una espressione coniata di recente, quelle furono anche “guerre per procura”, perché dietro a Israele c’era il sostegno degli Stati Uniti e dietro ai paesi arabi c’era l’Urss. E in conseguenza del sostegno sovietico ai paesi arabi e ai palestinesi, anche tutta la sinistra mondiale si schierò dalla parte dei palestinesi. Lì si produce la lacerazione tra sinistra e mondo ebraico. Ci furono ebrei che in nome della fedeltà alla loro appartenenza, lasciarono i partiti della sinistra in cui militavano – il Pci, il Psi – e altri ebrei che in nome della loro militanza politica lasciarono la comunità ebraica. Fu un momento di lacerazione drammatica, denunciato da Umberto Terracini – uno dei fondatori del Pci con Togliatti e Gramsci – che si recò a Torino, a Milano, Roma, nelle città dove c’erano le comunità ebraiche più consistenti cercando di scongiurare quella rottura traumatica. Ed è in quel momento che si sono prodotti gli stereotipi, le rappresentazioni demonizzanti e i pregiudizi che arrivano ancora fino a noi nei confronti d’Israele. Quella lacerazione cancellò dalla memoria storica, collettiva, della sinistra tutto ciò che c’era stato prima, offuscando conoscenza e memoria di quel rapporto tra sinistra e mondo ebraico che invece dalla fine dell’Ottocento fino agli inizi degli anni’60 del Novecento era stato forte e solido. Nasce lì lo stereotipo d’Israele sentinella dell’imperialismo americano contrapposto alla volontà di riscatto di un mondo palestinese e arabo oppresso. Fino al punto da teorizzare una cosa che cozza con la verità della storia…

Vale a dire?
Che la nazione ebraica in quella terra sia una presenza estranea, imposta dall’occidente. Chiunque conosce e non manipola la storia, sa che da Mosè in avanti, quella è la terra dove il popolo ebraico ha sviluppato la sua storia, la sua civiltà, la sua religione. Rappresentare Israele come un corpo estraneo al Medio Oriente è un falso storico funzionale alla demonizzazione d’Israele. In quel contesto, va riconosciuto che ci fu un Partito comunista che – pur mantenendo atteggiamenti critici – decise di non rompere i rapporti con Israele ed è il Partito Comunista Italiano. Ricordo che in tutti i congressi del Pci di quegli anni, sempre tra i partiti esteri invitati vi erano formazioni politiche israeliane, oltre che dei palestinesi. Il Pci ha avuto questo merito, cioè quello di aver mantenuto aperto un filo di dialogo, anche quando il rapporto tra sinistra e mondo ebraico era turbato e ferito dalle vicende della storia. Poi nel 1982 la svolta…

A cosa si riferisce?
Alla guerra in Libano contro la quale si schierò una ampia parte di opinione pubblica israeliana e Shimon Peres promosse una grande manifestazione, rendendo evidente la esistenza in Israele di una dialettica democratica che contraddiceva la rappresentazione caricaturale di Israele come l’espressione dell’imperialismo. Quel fatto politico consentì alla sinistra italiana di rilanciare un rapporto con il mondo ebraico e Israele. E io e un gruppo di esponenti ebraici legati alla sinistra – ricordo Janiki Cingoli e Emanuele Fiano a Milano, Amos Luzzatto a Venezia, Ugo Caffaz a Firenze, Roberto Finzi a Bologna, Giorgio Gomel e il Martin Buber a Roma – aprimmo un dibattito su Israele e la sinistra. A Torino, come segretario del PCI, promossi un convegno dal titolo – per allora quasi “eretico” – “Medio Oriente: esiste anche una questione ebraica”. Era un fatto politico dirompente, perché fino a quel momento la sinistra riconosceva che c’era solo la questione palestinese. Affittammo in un albergo una sala per duecento persone. Ne arrivarono da tutta Italia più del triplo e c’era gente fin sulla strada. Esponenti del mondo ebraico che finalmente vedevano la possibilità di ricostruire e recuperare un rapporto con la propria appartenenza politica. E da quel momento in poi è decollato un intenso lavoro guidato da Giorgio Napolitano e da me. Insieme a Fiano, Cingoli e Furio Colombo fondammo “Sinistra per Israele” con la convinzione che solo riconquistando una lettura corretta di Israele e del mondo ebraico la sinistra avrebbe potuto dare un contributo ad una pace che desse soddisfazione anche alle aspirazioni del popolo palestinese. E poco dopo quegli eventi, entrato io nella segreteria nazionale del PCI, fui incaricato da Natta di coltivare i rapporti con il mondo ebraico italiano. Costruimmo un coordinamento con tutte le nostre presenze nelle varie comunità ebraiche. Demmo alle stampe perfino una piccola rivista “La quercia e il violino”, due simboli del mondo ebraico. Un lavoro che ebbe come culmine prima la visita di Napolitano in Israele, e poi di Occhetto con cui scegliemmo che prima missione internazionale del neonato PDS fosse in Israele e Palestina. Il Nuova partito era nato il 3 febbraio 1992 e noi il 29 aprile eravamo in Israele. Fu in quell’occasione che Occhetto, segretario nazionale del Pds, in un lectio all’Università di Tel Aviv, definí “il sionismo un movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico che come tale va riconosciuto”.

Insomma, dopo la svolta della Bolognina, la svolta di Tel Aviv…
Tanto è vero che il giorno dopo i giornali israeliani uscirono a tutta pagina.

Che cosa c’è ancora fare, visto che dentro il mondo di sinistra il problema antisionista ancora esiste?
Esiste, ma molto meno. Tutta quell’azione che ho ricostruito ha fatto sì che posizioni di demonizzazione e di non riconoscimento d’Israele e del mondo ebraico, siano oggi nella sinistra assolutamente minoritarie. Non c’è alcun dubbio che il Partito Democratico sia schierato in modo chiaro per il pieno riconoscimento di cosa rappresenti Israele, politicamente e storicamente, naturalmente in una strategia politica che punta a favorire la soluzione “due popoli, due Stati”.

Soluzione che però continua a non realizzarsi….
Si, è un tema non ancora risolto. E lo è sulla base di un assunto che è connesso a quanto fin qui detto. Per un lungo periodo Israele restringeva la questione palestinese ad un problema di soli profughi. E reciprocamente i palestinesi e i Paesi arabi negavano a Israele il diritto di esistere. Uno scenario di reciproca negazione scandito in quarant’anni da cinque guerre (‘48,’56,’67, ‘73,’ 82) e numerose Intifada. In quello scenario le posizioni “pro palestinesi” e ostili a Israele erano fondate sull’assunto che in Terrasanta ci fosse una ragione, quella del popolo palestinese, e un torto, quello d’Israele. Mentre una soluzione “due popoli, due Stati”, non può che partire dall’assunto che in quella terra ci sono “due ragioni”: una ragione è l’aspirazione del popolo palestinese ad avere una patria. Ed è una ragione altrettanto fondata il diritto di Israele di vivere riconosciuto e in sicurezza. Ed è l’assunto su cui venne convocata nel 1991 la Conferenza di pace di Madrid – in cui per la prima volta palestinesi e israeliani si riconobbero reciprocamente, sedendosi allo stesso tavolo – aprendo la strada agli accordi di Oslo-Washington e alla intesa sancita dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat, sotto lo sguardo garante di Clinton. Purtroppo il decorrere del tempo, fattore decisivo in politica, ha finito per logorare quella fiducia reciproca indispensabile per portare a buon esito un negoziato di pace così impegnativo. E in questi anni abbiamo nuovamente conosciuto aspre contrapposizioni e conflitti come la crisi di Gaza di qualche mese fa e l’emergere di formazioni radicali estreme come Hamas. Cosí come sono tornate a farsi sentire in Israele voci che contestano la possibilità per i palestinesi di avere un proprio Stato. Se si vuole spezzare questa spirale occorre ripartire dal principio su cui fu fatto l’accordo del ’93: il reciproco riconoscimento. E in questa ottica, gli “Accordi di Abramo” tra Israele e alcuni paesi arabi – Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein – sono utili perché danno risposta alla domanda di riconoscimento e di sicurezza di Israele, creando un clima utile alla ripresa di un dialogo tra Israele e palestinesi, perché è solo da un loro negoziato diretto che può scaturire la pace

Tutto questo, per tornare e chiudere con l’Italia, non significa anche rimuovere completamente, sul piano politico, culturale, storico, ciò che ancora resta vivo del “lodo Moro”?
In gran parte l’Italia lo ha già fatto, Nel senso che il nostro paese vuole essere equivicino, non equidistante. Cioè crediamo fortemente che la soluzione sia soltanto quello di un riconoscimento reciproco dei protagonisti per realizzare la soluzione “due popoli, due Stati”. E l’Italia opera per quell’obiettivo. Il che significa superare definitivamente l’acritico terzomondismo che negli anni ’80 era forte in Italia e non soltanto a sinistra.

Umberto De Giovannangeli

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ISRAELE-PALESTINA E LA DOTTRINA GOODMAN

Oggi non esistono gli elementi per risolvere nel breve periodo il problema dell’Occupazione. Ma, contemporaneamente, non è sostenibile andare avanti con l’Occupazione come si è fatto negli ultimi decenni. Come uscirne?

Anna Momigliano , Il Mulino 30/11/2021

Si fa un gran parlare, in Israele, e nella stampa internazionale, della dottrina del «conflitto ridotto». In ebraico, tzimtzum hasikhsukh, cioè riduzione, o contrazione, del conflitto, ma in inglese l’hanno tradotto «shrinking the conflict», ristringere il conflitto, che trasmette più ottimismo. In realtà, è quanto di più lontano dall’ottimismo, e anche il nome rischia di essere fuorviante, perché l’approccio riguarda soltanto una parte del conflitto, l’Occupazione della Cisgiordania.

La dottrina del «conflitto ridotto» è stata messa appunto qualche anno fa da Micah Goodman, filosofo e intellettuale pubblico piuttosto noto in patria, autore di molti libri e ricercatore del Shalom Hartman Institute, però se ne sta parlando ora perché sembra essere stata sposata, almeno in parte, o almeno a parole, dal nuovo governo israeliano, il primo successivo all’era-Netanyahu, dove due leader diversissimi tra loro, il centrista Yair Lapid e il nazionalista Naftali Bennet, condividono la carica di primo ministro a rotazione, in una coalizione che include anche la sinistra (Meretz, Labor) e la Lista Araba Unita. Sia Lapid che Bennet hanno parlato di «conflitto ridotto» nei loro discorsi e Bennet, pare, avrebbe scelto Goodman come consigliere ufficioso.

L’idea è che oggi non esistono gli elementi per risolvere nel breve periodo il problema dell’Occupazione; ma, contemporaneamente, non è sostenibile andare avanti con l’Occupazione come si è fatto negli ultimi decenni. Se l’Occupazione della Cisgiordania non può essere smantellata nel breve, e se non può essere nemmeno congelata, o peggio ancora espansa e consolidata, allora non resta che ridurla ai minimi termini. Non risolvere il conflitto, cioè l’Occupazione, né normalizzarla, cioè proseguire nell’annessione di fatto, bensì «ristringerla».

È un approccio interessante – secondo me, più per i presupposti da cui parte che per le sue conclusioni – ma limitato, che sottovaluta l’impatto di alcuni elementi, specie dal punto di vista dei palestinesi. Un’altra questione è poi l’applicazione che ne voglia davvero fare il governo israeliano. Qui sotto proverò a partire dalle premesse storiche e strategiche della dottrina-Goodman, per poi approfondirne i contenuti, analizzarne i punti di forza e le fragilità intrinsechi, e infine aggiungere una valutazione su come potrebbero essere applicate (o non applicate) nelle attuali condizioni politiche.

Il contesto storico e strategico. Dal 1967, Israele mantiene un’occupazione militare e la presenza di insediamenti civili nella Cisgiordania, o West Bank, dove abitano quasi tre milioni di palestinesi e circa mezzo milione di coloni israeliani (fino al 2005 manteneva un’occupazione analoga della Striscia di Gaza, su cui continua a imporre un blocco dei confini, insieme all’Egitto, e navale). Sebbene i palestinesi di Cisgiordania godano di qualche forma di autonomia, specie nella cosiddetta «area A» sotto il controllo dell’Autorità palestinese (Anp), questo di fatto significa che Israele ha il controllo sulla vita di milioni di persone che cittadini israeliani non sono, controllandone la libertà di movimento, e imponendo la presenza e le azioni delle sue forze di sicurezza. L’Occupazione potrebbe essere descritta come il controllo da parte di un governo di una popolazione che quel governo non ha la possibilità di eleggerlo.

Non c’è bisogno di essere fini analisti politici, né particolarmente filo-palestinesi, per capire che lo status quo è ingiusto. A rigor di logica, se ne esce in due modi: o Israele ritira la sua presenza militare dalla Cisgiordania (la formula «due popoli e due Stati» alla base del tentato processo di pace negli anni Novanta), o si estendono i diritti civili ai palestinesi (la cosiddetta «soluzione binazionale»). Quello che è successo sul campo, però, è un’altra cosa: negli ultimi decenni Israele ha consolidato l’Occupazione in quella che ha molti crismi, se non tutti, di un’annessione di fatto. La popolazione dei coloni è cresciuta e la loro presenza è stata normalizzata e integrata nella società israeliana. Dettaglio non piccolo, i coloni possono votare alle elezioni israeliane, nonostante Israele non abbia procedure per il voto all’estero, salvo per i diplomatici, e questo rende l’idea di come, sebbene non sia stata annessa, la Cisgiordania non sia neppure considerata propriamente «altro» dal territorio israeliano (detto con parole diverse, un comune cittadino israeliano non può votare da Londra, ma dalla West Bank sì). Uno dei risultati è che nello stesso territorio convivono due popolazioni, di cui soltanto una è coinvolta nel processo democratico per eleggere chi quel territorio di fatto lo controlla.

Per un certo periodo c’è stato nel panorama politico e culturale israeliano un blocco, prevalentemente di sinistra, che invocava il ritiro dai Territori, se non nel breve, almeno nel medio periodo, con diverse argomentazioni: etica, demografica, diplomatica e di sicurezza. L’argomentazione etica sosteneva che il dominio di un altro popolo è moralmente sbagliato. Quella demografica sosteneva che, col passare del tempo, l’Occupazione si sarebbe trasformata in un’annessione, e che dunque Israele si sarebbe trovata con un territorio dove i palestinesi sono la maggioranza, e due possibilità: concedere la cittadinanza a tre milioni di palestinesi, diventando uno stato binazionale democratico, o diventare, esplicitamente, un Paese non democratico, dove la maggioranza non ha diritto di voto. In altre parole, l’Occupazione rappresenterebbe la fine di Israele come Stato ebraico e democratico. L’argomentazione diplomatica sosteneva che l’Occupazione avrebbe spinto la comunità internazionale a isolare Israele, proprio come aveva fatto col Sudafrica negli anni Ottanta, con danni enormi per l’economia. L’argomentazione della sicurezza, infine, sosteneva che, a furia di opprimere i palestinesi, Israele si sarebbe ritrovato con una terza Intifada.

E il campo pro-Occupazione? A parole, persino Netanyahu dichiarò di sostenere la soluzione «due popoli, due Stati», ma nei fatti sappiamo bene che non fu così e che la sua destra ha fatto dello status quo un obiettivo. Chi, a parole o nei fatti, sostiene la necessità di continuare l’occupazione, lo ha fatto con tre argomenti, separati ma sovrapponibili. C’è la motivazione religioso-ideologica, il mito della Grande Israele, che vede nella West Bank un diritto del popolo ebraico e, come tutte le posizioni graniticamente religiose e ideologiche, non dà rilevanza ad altri argomenti. C’è la motivazione di sicurezza, per cui se Israele si ritirasse dai Territori diventerebbe più vulnerabile agli attacchi palestinesi. C’è poi una certa attitudine verso il dossier democrazia: da un lato, un autoconvincersi che non è vero che l’Occupazione costituisce un deficit di democrazia, perché Israele non ha mica annesso la Cisgiordania, e i palestinesi sono governati dall’Anp; dall’altro, il sottotesto che, se anche ci fosse, il deficit di democrazia non sarebbe poi così un problema; del resto non si può avere tutto.

Goodman, il filosofo, sostiene che hanno ragione sia la destra sia la sinistra, ma su cose diverse. La destra, dice, ha ragione sulla sicurezza e sulla diplomazia, mentre la sinistra ha ragione sull’etica, sulla demografia, e su una visione del futuro a lungo termine.

I due principali incentivi che potrebbero spingere Israele a un ritiro – il rischio di una terza intifada in Cisgiordania e la pressione internazionale – non si stanno concretizzando 

La storia recente, nella visione di Goodman, dimostrerebbe che quando Israele si ritira da un Territorio occupato, quello che ottiene è meno sicurezza, non più sicurezza, come è successo dopo il disimpegno da Gaza nel 2005. Oggi a Gaza c’è Hamas, e da lì partono i razzi sulla popolazione israeliana, a cui Israele risponde peraltro con bombardamenti ben più letali, mentre sul confine con la Cisgiordania, dove l’Occupazione prosegue, la situazione è relativamente tranquilla. Inoltre, è evidente che le pressioni della comunità internazionale non hanno avuto un impatto tale da mettere in difficoltà l’economia israeliana. Insomma, i due principali incentivi che potrebbero spingere Israele a un ritiro – il rischio di una terza intifada in Cisgiordania e la pressione internazionale – non si stanno concretizzando.

La destra però sbaglia di grosso, secondo il filosofo, perché non coglie, o finge di non vedere, il deficit democratico intrinseco all’Occupazione e le conseguenze pratiche che rischia di avere. «Stiamo derubando un’altra nazione della sua libertà, e questo non è etico, non è ebraico e non è eppure sionista, perché il sionismo nasce dal principio dell’autodeterminazione dei popoli», ha detto in una delle sue lezioni. L’Occupazione non è solo sbagliata e antidemocratica, prosegue, ma alla lunga finirà per diventare una minaccia strategica. «Cosa succede se andiamo avanti con lo status quo nella Cisgiordania? Che con ogni probabilità l’Anp collasserà, e tre milioni di palestinesi saranno assorbiti in Israele e diventeremo uno Stato binazionale», dice Goodman, convinto che uno Stato binazionale tra due popolazioni ostili è di per sé pericoloso, e che porta Libano e Bosnia come esempi di «un esperimento finito male».

Se lo status quo non può essere smantellato ma neppure mantenuto, allora va «ridotto», ma come? Goodman suggerisce otto punti. Uno: garantire ai palestinesi libertà di movimento all’interno dell’Anp, costruendo strade che permettano di bypassare le aree a maggioranza ebraica, e dunque i checkpoint. Due: ampliare l’area A, quella dove i palestinesi hanno maggiore autonomia. Tre: facilitare il movimento dei palestinesi verso l’estero. Quattro: facilitare l’ingresso in Israele per ragioni di lavoro. Cinque: allocare terreni dell’area C, quella a maggiore controllo israeliano, ad attività commerciali palestinesi. Sei: nessuna espansione degli insediamenti, al di fuori dei grandi blocchi già a maggioranza ebraica. Sette: favorire il commercio internazionale. E, otto: fine della gestione israeliana delle imposte palestinesi.

I più critici dicono che è una foglia di fico. Un’Occupazione dal volto umano, questo il ragionamento, permetterebbe a Israele di mantenere la sua presenza in Cisgiordania, allora tanto vale lo status quo. Però questa obiezione non tiene conto del fatto che la tendenza attuale è di espansione continua delle colonie, e che se non viene fermata porterà a un punto di non ritorno. «Rimpicciolire» l’Occupazione è necessario non solo per renderla più tollerabile ma, soprattutto, per mantenerla reversibile.

La dottrina Goodman ha però ben altre debolezze. Per esempio, sottovaluta il peso della crisi a Gaza, dove la situazione è così tesa che rischia di fare saltare tutto. Poi, respinge di default la soluzione binazionale, quasi senza farsi domande. Il filosofo sembra ignorare, o non prendere sul serio, che alcuni palestinesi cominciano a vedere la loro lotta in termini più di diritti civili che di liberazione nazionale: visto che l’annessione-di-fatto c’è, conviene loro puntare a uno stato binazionale che dove presto sarebbero la maggioranza.

Infine, c’è il fermo dell’espansione degli insediamenti, che dovrebbe essere il cardine principale di un piano per indebolire l’Occupazione. Goodman in realtà propone di fermare l’espansione al di là dei blocchi urbani principali, e già su questo si potrebbe avere qualcosa da opinare. Ma la vera domanda riguarda l’intenzione di questo governo. La coalizione guidata da Bennet e da Lapid è composta anche da partiti che rappresentano gli insediamenti, e lo stesso Bennet è vicino a una parte dei coloni: davvero è pensabile metta loro un freno? Il rischio, insomma, è che l’esecutivo prenda solo gli aspetti più facili della dottrina-Goodman, qualche strada in più e qualche checkpoint in meno, ignorando il punto principale, il congelamento degli insediamenti. Senza quello, non c’è nessun vero ridimensionamento, e ogni mossa sarebbe davvero una foglia di fico.

Anna Momigliano

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