Israele, oggi. Incontro con Yair Auron
Introduce Bruno Segre, Coordina Gabriele Eschenazi
Lunedì 16 gennaio 2017 Centro Artistico Alik Cavaliere
Yair ovvero, in ebraico, “che dà la luce”. E le parole del professor Yair Auron certamente illuminano, anche se ciò che riflettono porta con sé la cupezza e l’oscurità del pessimismo più assoluto. Auron è a Milano per intervenire oggi alla bella iniziativa che Gabriele Nissim e la sua Gariwo (La Foresta dei Giusti) organizza al Teatro Parenti con lo scopo di creare le premesse per l’elaborazione di una Carta dei valori intorno ad alcune tematiche morali del nostro tempo. Ieri sera Yair ha incontrato Sinistra per Israele per raccontare ciò che secondo lui è la realtà attuale del suo paese e del Conflitto con la C maiuscola, vale a dire quello con i palestinesi.
Cominciamo col dire chi è: storico e accademico specializzato in studi su Shoah, genocidi, razzismo, ha insegnato in università israeliane e statunitensi ed è stato negli anni Settanta direttore dell’Education Department di Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme. Un uomo che – alla vista – rispecchia appieno le più romantiche reminiscenze dei pionieri. Viso segnato dal sole e dalle battaglie, abbigliamento e portamento rozzamente raffinati, eloquio appassionato, duro, molto duro, forse troppo per le nostre orecchie. Storia personale da manuale sionista d’altri tempi. «Sono cresciuto in una famiglia sionista socialista polacca legata all’Hashomer Hatzair. Mio padre emigrò in Palestina negli anni Trenta e l’intera sua famiglia fu sterminata dai nazisti… di questo non mi parlò mai, ricordo che andavamo a visitare lo Yad Vashem e lui non mi diceva nulla. Ho vissuto in kibbutz, sono stato nell’esercito, paracadutista, ho combattuto, ho partecipato alla conquista di Gerusalemme. Ho sofferto di un trauma post bellico perché il mio amico del cuore, il mio amico d’infanzia, è morto in battaglia». Non c’è dunque da stupirsi se Yair e famiglia abitano da tempo a Nevé Shalom / Wahat al-Salam (Oasi di Pace), un villaggio cooperativo dove convivono ebrei e palestinesi israeliani, una settantina di famiglie e una discreta richiesta di nuove entrate che per ora sono ferme per mancanza di terra.
Il tema principale dei suoi studi, l’ossessione di Auron è il genocidio, o meglio i genocidi. Da anni infatti si batte per il riconoscimento da parte di Israele e del mondo del genocidio armeno. Ed è dal genocidio che parte per (quasi) ogni sua riflessione. Iniziando dalla constatazione che troppo a lungo è durato il silenzio su quello e che a tutt’oggi solamente ventisei nazioni lo riconoscono. Continuando con la constatazione che il genocidio curdo, per esempio, così come altri hanno avuto la medesima sorte.
Ma che cosa c’entra con lo Stato di Israele oggi? «C’entra. La catastrofe israeliana consiste nel fatto che è in corso una tragedia. Una tragedia per gli ebrei, per i palestinesi, per l’umanità». E spiega che «se neghiamo il genocidio armeno noi tradiamo il genocidio ebraico». Continua: «In Israele, purtroppo, non studiamo i genocidi da un punto di vista comparativo, ma insegniamo soltanto il genocidio ebraico, la Shoah. Non insegniamo gli altri genocidi, né nei licei, né nelle università. Una situazione inaccettabile sia dal punto di vista morale che da quello accademico. Per molti anni abbiamo sviluppato la filosofia dell’unicità ed esclusività della Shoah. Io non lo accetto. La Shoah non è una categoria unica, come se ci fosse un concetto chiamato Olocausto e un altro concetto chiamato genocidio. Penso invece che la Shoah debba essere studiata nel quadro degli studi comparati sui genocidi. In questo quadro dobbiamo esaminare gli elementi comuni tra gli atti di genocidio e comprendere che cosa distingue l’Olocausto dagli altri. Certo, ci sono caratteristiche uniche come le camere a gas, tuttavia le teorie razziste sono molteplici, e in ogni atto di genocidio si sono sviluppate in vari gradi di sofisticazione. Le teorie razziste contro gli ebrei erano molto ben sviluppate e scientifiche. Un’altra caratteristica unica dell’Olocausto è il fatto che i tedeschi volevano uccidere gli ebrei ovunque ne avessero potuti trovare. La loro missione era uccidere tutti gli ebrei in Europa. Avevano nel mirino anche gli ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente».
Yair segue un suo demone che palesemente lo divora. «Dico questo perché sono un essere umano e un ebreo, e inoltre perché il genocidio ebraico ha una rilevanza per l’umanità e non solo per il popolo ebraico. Noi siamo portati a sminuire l’importanza della Shoah guardando a essa in maniera particolaristica. Invece noi in quanto vittime – ebrei, armeni, tutsi e purtroppo altri – abbiamo molto in comune. Gli atti di genocidio ai quali siamo sopravvissuti ci rendono fratelli, nel senso più profondo del termine».
Ed ecco che una platea come quella di Sinistra per Israele, pur preparata e assai critica nei confronti delle politiche della destra israeliana al governo, ammutolisce… «Sì, noi tradiamo il genocidio ebraico», quasi urla Yair Auron, «il nostro è un fallimento morale, lo stesso fallimento morale che riguarda anche i palestinesi». Perché, secondo l’uomo del kibbutz e di Nevé Shalom / Wahat al-Salam, il genocidio non è passato, ma presente e futuro. È dal 2012 che noi sappiamo del Darfur e non facciamo niente. Noi non facciamo nulla contro i crimini di guerra e i delitti contro l’umanità di cui siamo testimoni quotidianamente. «Noi israeliani e voi italiani vendiamo armi alle fazioni in guerra nel Sud Sudan…».
Ecco che il fantasma viene evocato. «La nostra occupazione di territori palestinesi dura da cinquant’anni, è la più lunga occupazione da parte di una società democratica. Noi siamo malati. È malata la leadership politica, però lo è anche la società civile. Noi siamo malati perché occupiamo, i palestinesi sono malati perché sono occupati. Per questo un uomo con la mia storia adesso si dice a-sionista. Abbiamo il nostro Stato, uno Stato forte. Nessuno può distruggere Israele, però possiamo essere sconfitti dal terrorismo. Loro e noi ci stiamo distruggendo. E la responsabilità maggiore è di chi è più forte, cioè noi. Siamo noi che dobbiamo impegnarci per arrivare all’unica soluzione possibile, due Stati per due popoli». Lo dice uno che fece la propria tesi di laurea sulla possibilità di uno Stato binazionale, la posizione che molti anni fa aveva il sionismo socialista. Adesso Yair accusa di fascismo alcuni ministri del governo Netanyahu, pare non avere speranze, appare catastrofista e – diciamolo – un po’ accecato dalla propria esperienza. Ma alla fine si addolcisce un pochino. «Voi guardate il nostro conflitto come se foste al cinema… mi scuso di aver detto cose che forse vi hanno fatto male… è quello che sento, che penso. Io dico sempre ai miei figli di andare a vivere dove pensano di trovare un po’ di felicità… a Tel Aviv, a Milano, a Parigi… o di rimanere a Nevé Shalom / Wahat al-Salam. Io lì rimarrò per sempre, anche perché c’è uno dei cimiteri più belli del paese». E finalmente sorride. Yair, “che dà la luce”. La luce della speranza non si spegne nei suoi occhi azzurri. Anche se è una luce che illumina tragedie, errori, paure, fantasmi, orrori.
Stefano Jesurum 17 gennaio 2017