La vittoria di Netanyahu e la sinistra scomparsa d’Israele
di Wlodek Goldkorn da Repubblica 10 Aprile 2019
Il numero dei seggi conquistato dal Likud dice che la popolazione desidera che niente o poco cambi: un’utopia di stabilità perenne, ma la situazione di stallo attuale non può durare in eterno e l’opposizione dovrebbe ripartire da lì .
Bibi,
nomignolo di Benjamin Netanyahu, vince perché incarna l’anima conservatrice di
Israele. La sinistra è scomparsa, ridotta ai minimi termini – i sei mandati dei
laburisti più quattro del Meretz – capace solo di contemplare le macerie e
magari dare testimonianza di chi non ha smesso di sperare in una pace con i
palestinesi in un Paese dove la parola pace e la parola palestinesi hanno
sempre meno diritto di esistere nel pubblico dibattito. Tanto che non le ha
usate quasi mai neanche Benny Gantz, il generale perdente.
I 35
seggi conquistati dal Likud nelle elezioni di martedì, cinque in più rispetto
alle consultazioni di quattro anni prima, dicono che la popolazione dello Stato
degli ebrei (e non solo coloro che lo hanno votato, ci torneremo) desidera che
niente o poco cambi; che la situazione politica ed economica resti immutabile.
Un’utopia di stabilità perenne, di un avvenire uguale al presente, come se il
tempo potesse essere fermato in un attimo se non di spensierata felicità,
almeno di grande soddisfazione. E infatti, l’economia sta crescendo, anno dopo
anno al ritmo del 3,8-4 per cento. La disoccupazione praticamente non esiste.
Il Prodotto nazionale lordo pro capite è in aumento costante e supera la somma
di 40 mila dollari l’anno, più della Francia e del 25 per cento superiore
all’Italia. Ogni giorno nascono start-up che approdano alle Borse globali,
mentre i ragazzi inventori si trasformano in milionari. I prezzi delle case
stanno crescendo, però tantissimi israeliani non vivono questa condizione come
una difficoltà per le giovani famiglie, ma al contrario, come un ulteriore
fattore di arricchimento: più cara è la mia abitazione più denaro, vero e
potenziale, possiedo.
Negli
anni del governo Netanyahu in Israele si è rafforzata una classe media ampia,
benestante, dimentica dell’ethos pauperistico e collettivistico dei fondatori e
pionieri; un ceto che professa valori e usa linguaggi improntati all’individualismo,
edonismo (viaggi all’estero, cibo raffinato, moda italiana e via elencando) e
che come ogni classe media cerca la stabilità. Una stabilità che ha riguardato
pure la sfera della sicurezza e dei rapporti con i vicini.
Netanyahu
è riuscito a evitare un coinvolgimento diretto nella guerra in Siria, non ha
scommesso sulla sconfitta di Assad; non ha mandato soldati in Libano (a
differenza dei suoi predecessori), queste spedizioni hanno avuto in genere un
costo alto in vite dei militari; è riuscito ad arginare l’influenza dell’Iran
nella regione; ha trattato, con mediazione egiziana, con Hamas, conscio che a
questa organizzazione non c’è alternativa e ha permesso perfino che funzionari
del Qatar portassero soldi, in contanti in valigia, a Gaza appunto. Ecco, per
un israeliano medio gli anni di Netanyahu sono stati anni di pace e benessere e
questo vale pure per la maggioranza dei votanti della lista blu-bianco di
Gantz. Del resto, l’unica vera promessa del generale era mandare Bibi
all’opposizione; come se anche lui avesse voluto rassicurare che poco sarebbe
mutato con la sua ipotetica vittoria, se non appunto la persona del premier.
E
infatti, in assenza (lo ripetiamo) di una sinistra, la politica riguarda in
apparenza solo lo stile del governo. Ma, attenzione, in realtà è in gioco lo
Stato di diritto. È probabile che Netanyahu venga incriminato per corruzione.
Ma forse tenterà di promuovere una legge che gli assicuri l’immunità in cambio
di concessioni alle destre estreme e agli ortodossi suoi alleati: cosa che non
piace ai ceti medi laici, se non altro perché le leggi che vorrebbero imporre i
religiosi intaccano il modus vivendi, edonista appunto. Mentre un’eventuale
annessione di parti della Cisgiordania (l’altra concessione) finirebbe per riaprire
il capitolo dei rapporti con l’Autorità palestinese, risveglierebbe i fantasmi
delle due Intifade, rischierebbe di intaccare il comodo status quo.
E la
sinistra? Diciamo che a un accordo con i palestinesi gli israeliani credono
ormai poco ed è difficile spiegare che la situazione di stallo attuale non può
durare in eterno. Ma allo Stato di diritto e all’indipendenza dei tribunali
ancora ci tengono. Così come non piace molto, nonostante le massicce dosi di
propaganda populista, la continua campagna del premier contro i media, a suo
parere ostili. Non è una speranza di pace, ma può essere un buon inizio per
ricostruire una sinistra che parli un idioma intellegibile anche al popolo
soddisfatto di quello che ha.