ISRAELE, LA ROTTURA DEL BLOCCO SOCIALE E LE CONSEGUENZE IN MEDIORIENTE
Di Fabio Nicolucci 31 Maggio 2019 , pubblicato su Il Mattino
Sette settimane fa, Netanyahu aveva affermato di aver vinto per la quinta volta le elezioni politiche in Israele. Ma il suo fallimento nel ricostruire la sua larga coalizione testimonia il contrario. Netanyahu il 9 aprile non aveva vinto, dato che non è riuscito a formare il governo nonostante i 30 giorni concessi dalla legge e i 14 extra concessi dal Presidente d’Israele Rivlin. Tanto che ha dovuto optare per la prima volta nella storia della democrazia israeliana sullo scioglimento di una Knesset (il parlamento israeliano, ndr.) appena eletta e su nuove elezioni il prossimo 17 settembre.
Ma se Netanyahu non è stato il vincitore, non ve ne sono altri. Del resto, ciò testimonia il suo successo nell’ottenere lo scioglimento anticipato anziché il reincarico a qualcun altro. Così oggi si è aperta la gara per il nuovo. Il casus belli è stata la richiesta dell’ ex alleato Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu (“Israele, casa nostra”, partito prevalentemente di russi dell’ex Unione Sovietica), di ottenere finalmente la coscrizione obbligatoria per gli ebrei ultraortodossi, oggi esentati dalla leva obbligatoria. E per questo avversi alla legge.
Ma se pure questa vicenda sembra più vicina alla popolare commedia israeliana comica “Polishuk” (che narra le vicende fantozziane di un fantasioso politico israeliano dal nome omonimo) che non alla più drammatica serie americana “House of Cards” è più per l’apparenza che non per la sostanza.
La rottura di una maggioranza politica ventennale, quasi un blocco sociale, ha sempre ragioni e conseguenze molto più strutturali.
Per le prime, si può dire che Lieberman ha avvertito, con il suo leggendario fiuto politico tattico, l’avvicinarsi della fine dell’era Netanyahu. O meglio, della coalizione politica fondata su un arco ampio che abbracciava la sua tradizionale destra sionista fino all’estrema destra dei seguaci del rabbino razzista Kahane e ai partiti degli ebrei religiosi ultraortodossi. Di questa coalizione il capolavoro politico di Netanyahu era la saldatura tra il laicismo e l’autoritarismo putiniano degli ebrei russi venuti dall’ex Unione Sovietica, con la visione messianica e ultrareligiosa degli ebrei religiosi ortodossi e dei coloni. Per questo, la cifra politica era il mantenimento indefinito dello status quo nei rapporti israelo-palestinesi.
Il problema è che questo status quo – tenere sia tutta la Terra sia il carattere ebraico e democratico dello Stato – alla lunga è insostenibile. Irrealistico. Anzi, pericoloso per il paese, anche se vantaggioso per sé. Per questo l’ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito Benny Gantz aveva formato contro Netanyahu il suo nuovo partito Kahol Lavan e ottenuto il 9 aprile 35 seggi, tanti quanti il Likud.. Il premier uscente aveva tentato il 9 aprile un referendum su di sé, con la trasformazione della Repubblica in una monarchia de facto, per rimettere il genio nella bottiglia. Ma il paese era già in moto.
La rottura di questo blocco sociale avrà conseguenze tutte da studiare. Sul piano interno, si nota l’inizio di un movimento centrifugo nella coalizione di destra sinora egemonica, ed un parallelo movimento invece aggregante in un campo del centrosinistra sinora balcanizzato. A destra partirà la gara alla successione del capo. Mentre a sinistra sono partiti i primi segnali di dialogo tra Gantz e le liste arabe, per esempio. Il cui stallo prima del 9 aprile aveva portato ad una disaffezione degli arabi israeliani e ad una penalizzazione nelle urne. Tutta l’opposizione – 55 seggi su 120 – si è ritrovata unita sabato scorso a Tel Aviv nella protesta “per la democrazia” e contro la legge per l’immunità a Netanyahu, a scudo delle accuse di corruzione che dovrà fronteggiare in tribunale i prossimi 2 e 3 ottobre. E si parla di una lista unitaria tra Meretz, che è a rischio soglia 4%, e i laburisti, svuotati da Gantz.
Ma è sul piano occidentale e regionale che ci saranno le conseguenze più profonde. E si innescheranno dinamiche di discontinuità più rilevanti. In occidente, di cui Israele è il centro di cultura politica, la coalizione tra suprematisti bianchi, sovranisti e neoconservatori, vedrà indebolirsi il collante razzista dell’islamofobia che finora la univa, venendo meno la sorgente della sua legittimazione. La componente razzista e suprematista diventerà molto divisiva, specie per le minoranze, come dimostra l’autorevole e netta iniziativa della comunità ebraica di Roma e della sua Presidente Ruth Dureghello dieci giorni fa contro “i suprematismi in Europa. Dalla rabbia all’odio”. Sarebbe bene che le sinistre europee se ne accorgessero, e dessero una mano, costruendo una nuova lotta all’antisemitismo non più fondata solo su una retorica antifascista bensì sulla lotta ai due terrorismi – quello jihadista e quello suprematista bianco – imperniata su un nuovo rapporto con questo nuovo Israele, incontrando Gantz e promuovendo nel nuovo Parlamento Europeo il rigetto della campagna antisraeliana e per questo controproducente anche per i palestinesi del movimento BDS per il boicottaggio.
Sul piano regionale, si vedrà il bluff pluriennale del piano di pace israelo-palestinese di Trump prossimo ad essere presentato in Bahrein. Con una sponda così debole, e con Cina e Russia e palestinesi che hanno già marcato visita, il summit è in forse. Da parte di Trump vi sarà però la tentazione di colmare questo vuoto politico con l’inasprimento delle tensioni con l’Iran. E da parte di Netanyahu con quelle con Hizballah in Libano e Siria. E i venti di guerra soffieranno molto più forti nei prossimi mesi nella regione.
Fabio Nicolucci