‘My name is Sara’, la storia di una tredicenne ebrea parla ai ragazzi di oggi
ARIANNA FINOS 23 luglio 2019
Emozionante proiezione al Giffoni Film Festival del film che racconta la storia vera di Sara Goranik, ebrea polacca che, dopo aver visto la famiglia sterminata davanti agli occhi dai nazisti, fuggì in Ucraina e venne nascosta in una fattoria
Tra i film più applauditi in questo Giffoni edizione 49 c’è My name is Sara, storia vera di Sara Goranik, ebrea polacca che a 13 anni, dopo aver visto la famiglia sterminata davanti agli occhi dai nazisti, fuggì in Ucraina dove assunse l’identità di una amica cristiana, trovando ospitalità e lavoro in una fattoria. “La reazione dei giovani giurati al film, le loro domande profonde mi hanno commosso. I giovani sono il futuro, per questo è importante per noi essere qui. Ci sono tanti magnifici film sull’Olocausto ma noi volevamo portare una storia diversa, focalizzarci su nuove sfumature, parlare dei danni collaterali, le storie di chi è fuggito, si è nascosto, si è perso fuori dai campi di concentramento, ma anche il clima di sospetto e il deterioramento dei rapporti umani, qualcosa che per molti versi ricorda il presente”, racconta il regista esordiente Steven Oritt.
“Molti ragazzi si possono immedesimare in questa storia di una giovane che lotta per sopravvivere, possiede un solo vestito e un solo paio di scarpe. Ed è un magnifico esempio di come, se sei forte, puoi sopravvivere a qualunque cosa, come è riuscita a fare Sara”. “Se fosse viva mia madre avrebbe amato il film, avrebbe pensato che la sua storia poteva aiutare gli altri”, dice il produttore Mickey Shapiro, nonché figlio della vera protagonista della storia”. Tra le difficoltà più grandi c’è stata la ricostruzione d’epoca, il film è ambientato tra Polonia e Ucraina “l’autenticità era fondamentale, fin dall’inizio abbiamo coinvolto consulenti storici in Stati Uniti, Polonia, Ucraina. E ci siamo appoggiati alla USC Shoah Foundation (creata da Steven Spielberg ai tempi di Schlinder’s list), che ci ha dato un aiuto prezioso. La prima testimonianza di Sara l’ho vista alla Foundation, ero stupefatto dai dettagli che ricordava in modo vivido, la sua struttura di racconto era già quella di un film. Poi ovviamente il nostro non è un documentario, ci siamo presi libertà narrative pur essendo sostanzialmente fedeli alla storia”.
Molto del film poggia sulla bravura della protagonista, Zuzanna Surowy: “la ricerca dell’attrice è stata imponente. Quando ci siamo incontrati chiesi a Sara ‘come fa una ragazzina di tredici anni a sopravvivere in quelle condizioni?’ Lei mi ha risposto: ‘Ascoltando senza mai parlare’. Ho capito che dovevo cercare un’attrice che potesse calarsi così tanto nel trauma da andare avanti quasi con il pilota automatico, il pensiero fisso alla sopravvivenza. Ho visto una quarantina di attrici in America, erano giuste per età ma non ero convinto. Abbiamo riempito di volantini le città polacche, sono arrivate centinaia di ragazze. Visionando i provini mi sono imbattuto in Zuzanna, ricordo esattamente quel momento perché ho capito subito che era lei”. È andato in Polonia a conoscerla, sapendo che l’esperienza del set sarebbe stata dura: “sono rimasto conquistato: è seria, determinata, disciplinata, e sostenuta da una famiglia piena di amore. Anche se non ci sono campi di concentramento nel film, ho voluto portare Zuzanna ad Auschwitz per comprendere meglio il dramma dell’Olocausto”. La vera Sara non è mai voluta tornare in quel luogo, sarebbe stato troppo doloroso per lei. Ha sofferto a lungo di stress post traumatico, è scomparsa nel 2018, il ricordo più bello lo regala il figlio maggiore: “Prima che si ammalasse di demenza facemmo una serata in onore dei sopravvissuti, vennero Spielberg e tante star di Hollywood. Il sorriso meraviglioso di mia madre, la sua gioia di quel giorno sono l’immagine di lei che mi porto dentro”.