Israele, la politica non c’è più Così Netanyahu ha svuotato la contrapposizione destra-sinistra
di ABRAHAM B. YEHOSHUA
La Stampa 8 agosto alle ore 05:26 ·
di ABRAHAM B. YEHOSHUA
Come ho già detto nel mio ultimo articolo nel corso dei miei ottantadue anni, ho assistito a molti eventi politici, tra cui aspri scontri ideologici e manifestazioni turbolente. Molti di quegli scontri erano ovviamente tra rappresentanti della destra e della sinistra, ma anche tra gruppi laici e religiosi.
Ricordo che da ragazzo, nel 1952, l’allora leader della destra Menachem Begin (divenuto in seguito primo ministro di Israele) organizzò una violenta manifestazione a Gerusalemme contro l’accordo per le riparazioni di guerra firmato con la Germania Ovest. Begin esortò a ribellarsi all’accordo e i suoi sostenitori lanciarono pietre contro il parlamento, ubicato all’epoca nel centro di Gerusalemme.
Ricordo bene le manifestazioni di destra e di sinistra del 1974, dopo la guerra dello Yom Kippur, che pretendevano le dimissioni dell’allora primo ministro Golda Meir e del celeberrimo ministro della Difesa Moshe Dayan dopo il fallimento dell’Intelligence e la prova di debolezza data dell’esercito nei primi giorni dell’attacco egiziano e siriano. In seguito a quelle proteste i due leader rassegnarono le dimissioni nonostante il loro partito, il partito laburista, avesse vinto le elezioni poche settimane dopo la fine della guerra.
Libano, 1982
Ricordo le manifestazioni e l’enorme amarezza di molti sostenitori della pace in seguito agli insuccessi della guerra del Libano nel 1982, soprattutto dopo la strage perpetrata dai cristiani con il tacito assenso degli israeliani nei campi profughi di Sabra e Shatila. Durante una di quelle dimostrazioni l’attivista di sinistra Emil Grünzweig rimase ucciso da una granata lanciata da un militante di destra. E in effetti, in seguito a quelle contestazioni, il primo ministro Menachem Begin, divorato dai sensi di colpa, rassegnò le dimissioni e si rinchiuse in casa fino alla morte.
E come non ricordare le violente proteste e le sedizioni della destra contro il governo dopo gli accordi di Oslo firmati nel 1993 alle quali presero parte anche Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, entrambi divenuti in seguito primo ministro? Quelle terribili incitazioni ad opporsi agli accordi di Oslo sfociarono nell’omicidio dell’allora capo del governo Yitzhak Rabin.
Gaza, 2006
Ricordo bene anche le manifestazioni contro Ariel Sharon, primo ministro di Israele durante il ritiro e l’evacuazione dei coloni dalla Striscia di Gaza nel 2006. Contestazioni della destra nazionalista religiosa a detrimento di un primo ministro che era stato lui stesso un estremista di destra ma che, con l’evacuazione degli insediamenti, andava a colpire il Sancta Sanctorum dei conservatori.
Questi e altri eventi, per quanto dolorosi e violenti, erano il risultato di prese di posizioni ideologiche ed etiche. Gli schieramenti che si fronteggiavano si esprimevano con toni forti ma nessuno metteva in dubbio che, dietro l’estremismo, ci fosse una chiara posizione politica che voleva, in base a concezioni diverse, il bene del paese e teneva conto del suo futuro.
Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nessuna soluzione
Il dibattito ideologico è da tempo congelato e si è dissolto. Nel nuovo partito «Blu e bianco», fondato prima delle ultime elezioni, ci sono esponenti indiscutibilmente di destra, come l’ex ministro della Difesa Moshe Ya’alon che ha servito nell’esecutivo di Netanyahu, ma niente serve a risparmiarli dell’appellativo di «sinistroidi» con il quale i sostenitori di Netanyahu li bollano con profondo biasimo e disprezzo.
Nell’Israele di oggi vi è una paralisi ideologica perché nessuno, di fatto, ha una soluzione possibile al problema principale: cercare di raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese. Tutta l’energia politica si disperde perciò in piccole soluzioni localizzate, dirette a cambiare il comportamento di poliziotti e soldati o a fare qualche concessione ai checkpoint.
Fintanto che il dibattito pubblico si è svolto in una specie di palude ideologica e di impasse politico si riusciva ancora mantenere un minimo senso di solidarietà, malgrado il lento processo di apartheid in atto nei territori e il crescente nazionalismo dei religiosi. Ma quando sull’ordinamento istituzionale si è abbattuta la richiesta di incriminazione di Benjamin Netanyahu e il suo astuto tentativo di eludere un processo calpestandole norme dell’attuale regime legale e amministrativo, si è scoperto che dietro un leader di notevole abilità in campo estero, attento a non lanciarsi in avventure militari e politiche e che gestisce con relativo successo l’economia, c’è un uomo corrotto che un apparato legale da lui stesso nominato vorrebbe portare a giudizio. Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi.
Solidarietà addio
Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il Primo Ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico.
Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale.
Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi? — Traduzione di Alessandra Shomroni ®