I GIUSTI, IL PIÙ ALTO LIVELLO DI UMANITÀ” intervista a Lizzie Doron
In occasione dell’inaugurazione il 6 Ottobre 2019 del nuovo Giardino dei Giusti dopo i lavori di riqualificazione (e le polemiche che hanno accompagnato questa riqualificazione) pubblichiamo l’intervista alla scrittrice Lizzie Doron realizzata nel 2014 da Martina Landi, Redazione Gariwo
Lizzie Doron è nata in Israele da genitori sopravvissuti
all’Olocausto, ed è cresciuta in un quartiere a sud di Tel Aviv, Bitzaron,
popolato dai reduci dei lager nazisti. Proprio questo luogo fa da sfondo ai
suoi libri, che hanno riscosso un grande successo di pubblico e di critica e
hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio Buchman di Yad Vashem.
L’abbiamo incontrata durante la sua permanenza a Milano in occasione del
Festival della cultura ebraica Jewish and the City, per discutere di memoria e
parlare di Giusti, che lei definisce “il più alto livello di umanità”.
Lei afferma che i Giusti tra le Nazioni sono il più alto livello di umanità. Gariwo, attraverso il loro esempio, cerca di raccontare il Male parlando di storie di Bene. Secondo lei qual è il ruolo dei Giusti nell’educazione dei giovani?
Non sono molto ottimista sul fatto che
noi possiamo cambiare la tendenza del mondo: il male e l’odio sono uno dei
principali comportamenti dell’essere umano. Penso tuttavia che le storie dei
Giusti sono uno dei modi principali per fornire ai giovani un’altra prospettiva
delle opzioni dell’essere umano. Credo che raccontando le loro vicende si
riesca a mostrare che, anche nei giorni più bui della storia, è sempre
possibile fare una scelta. E questo è molto importante.
Seguendo l’esempio di Yad Vashem e del Giusti della Shoah, Gariwo ha
istituito una Giornata europea per onorare i Giusti di tutti i genocidi. Cosa
ne pensa?
Sono una grande sostenitrice dell’importanza di ricordare i Giusti, prima di tutto per un motivo che riguarda la mia esperienza personale. Pochi anni fa ho scoperto che mia madre, dopo l’Olocausto, decise di tornare in Polonia per testimoniare in favore di un ufficiale delle SS. Si recò in tribunale e chiese ai giudici di risparmiargli la vita, dal momento che l’uomo l’aveva salvata durante la guerra. Purtroppo non conosco i dettagli di questo episodio, perché mia madre non me ne ha mai parlato. Ho però ritrovato alcuni documenti relativi alla sua testimonianza grazie a un’amica. In seguito a questa vicenda alcuni sopravvissuti all’Olocausto si sono arrabbiati con mia madre, perché sostenevano che l’ufficiale avesse compiuto tante azioni negative, e che una sola cosa buona non fosse abbastanza. Mia madre tuttavia sosteneva la necessità di incoraggiare persone e comportamenti come questo, ed era davvero orgogliosa di quello che aveva fatto per salvare quell’uomo. Quando ho scoperto questa storia ho capito perché per tutta la vita lei ha insistito sull’importanza di raggiungere il più alto livello di umanità, sostenendo che la vera prova nella vita di una persona – soprattutto nei momenti più difficili – è di cercare di essere coraggiosi abbastanza per essere giusti.
Qual è il significato di “fare memoria” per lei? E quale il senso della memoria della Shoah?
La memoria di per sé è qualcosa di passivo, e può anche portarti indietro. Per me le memorie sono pietre miliari che devono servire per tornare indietro nella storia e capire cosa è successo, per poi permetterti di cercare di cambiare qualcosa, di combattere nel tempo presente e costruire un futuro diverso. Le memorie non sono solo storie, non sono solo qualcosa che deve toccare il tuo cuore, farti piangere e creare empatia, ma sono importanti strumenti per guardare avanti. Io scrivo sul passato non perché ho qualcosa di speciale da ricordare o un trauma da superare. Uso il passato per cercare di migliorare il futuro.
Oggi ci sono leggi che istituiscono Giornate della Memoria, celebrate in molti Paesi. Cosa pensa di queste ricorrenze? Possono essere uno strumento utile per i giovani, o possono portare al rischio di banalizzare la memoria?
Credo che entrambe le opzioni siano rilevanti, e dobbiamo combattere contro questa celebrazione e “banalizzazione della memoria”. Dobbiamo anche essere molto creativi: forse mettere in risalto le storie dei Giusti lasciando il male alle nostre spalle può servire a cambiare qualcosa.
Secondo lei esiste un solo modo per parlare della Shoah?
Per risponderle voglio raccontarle un episodio veramente molto interessante che mi è capitato in Italia. Era il 27 gennaio dell’anno scorso. Io ero a Forlì, per le celebrazioni della Giornata della Memoria, e ho visto tantissimi cittadini sfilare dalla casa ebraica al comune per giurare che “mai più” si dovesse verificare una cosa del genere a causa di una religione, di un gruppo etnico o di altri motivi. Ho trovato che questo fosse uno dei modi migliori per commemorare la Giornata, con una promessa per il futuro e non solo con il ricordo del passato. Credo infatti in un modo innovativo di fare memoria, che deve essere creativo e stimolante per i giovani, e avere dentro di sé il seme della speranza di poter cambiare qualcosa.
Durante la Giornata della Memoria spesso sentiamo ripetere le parole “mai più”…
Credo che queste parole siano diventate degli slogan vuoti. E se ci sono solo slogan, ci si ricorda di quanto è avvenuto solo durante le ricorrenze, e poi la memoria scompare. Non amo questo tipo di discorso perché penso agli slogan come a qualcosa che tende a coprire, che spesso può far sentire bene ma che in realtà non serve per costruire un futuro diverso.
Pensa che la memoria della Shoah possa essere utile nella prevenzione di altri genocidi?
Credo che, in generale, per essere attratti da qualcosa si ha bisogno di un lieto fine, di una bella storia, di credere o sperare di poter fare la stessa cosa. I Giusti quindi sono buoni esempi da seguire. Ritengo che rappresentino il massimo livello dell’umanità, perché insegnano l’importanza del compiere una scelta e, non limitandosi a predicare di non fare il male, mettono in evidenza valori alternativi. Possiamo quindi usare i Giusti come esempio per noi, ma anche come “strumento”. Di fronte al male, infatti, ci si sente confusi, si pensa di non poter far nulla, si vuole solo scappare, e in questo contesto i Giusti possono essere la luce che indica la via.
Nei suoi libri le donne – e in particolare sua madre – hanno un ruolo centrale. Può spiegarci il motivo?
Sicuramente questo deriva dalla mia
esperienza personale. Sono cresciuta in un quartiere di sopravvissuti alla
Shoah, e quello che mi colpiva era che tutte le donne erano più forti degli
uomini. Gli uomini andavano a lavorare, ma erano le donne ad insegnare ai
bambini i valori della vita. Mia madre poi era una persona davvero
forte, sapeva che avrei capito quello che mi insegnava e mi diceva. Non parlava
mai dell’Olocausto, e credeva davvero che i Giusti fossero uno degli esempi che
io avrei dovuto comprendere profondamente. Mi diceva che, anche se comportava
il rischio della vita, era quello il modo in cui gli esseri umani dovrebbero
comportarsi.
Un altro aspetto interessante è legato al coraggio delle donne del
quartiere dove sono cresciuta. Israele doveva combattere per la propria libertà
come nazione, e per farlo avevamo bisogno di soldati e potere. Tuttavia nel mio
quartiere nessuno dei sopravvissuti all’Olocausto, specialmente le donne,
accettava questa idea che essere forti significasse necessariamente essere il
vincitore. È molto interessante questa presa di posizione, perché era una sorta
di ribellione contro il pensiero canonico della nazione israeliana. Io stessa
ne ero sorpresa a quei tempi, ma quando sono cresciuta ho realizzato di aver
avuto leader eccezionali in quel piccolo quartiere il Tel Aviv.