Ben Yitzhak, che resuscitò l’ebraico: “Saremo contadini come tutti gli altri”
Stefano Jesurum – Gli Stati Generali 23 Ottobre 2019
Quando Anna Linda Callow mi regalò “Poesie” di Avraham Ben Yitzhak (nato Abraham Sonne, settembre 1883, Przemyśl, Polonia – maggio 1950, Israele) sapeva bene che i versi non sono esattamente nelle mie corde. Ma da sensibile conoscitrice dell’animo umano qual è, oltre che fine ebraista e ottima traduttrice, credo sapesse di fare centro. Non tanto perché le poche liriche che ci ha lasciato il canettiano dottor Sonne de “Il gioco degli occhi” sono piccole gemme, bensì soprattutto perché questo libriccino curato da Callow medesima e Cosimo Nicolini Coen, pubblicato da Portatori d’acqua, contiene il potente saggio di Lea Goldberg “Incontro con un poeta”. Lea Goldberg, poetessa a sua volta, scrittrice, per me e non soltanto, amata intellettuale, è, per intenderci, l’autrice di queste semplici parole che a mio avviso racchiudono l’essenza più intima delle identità plurime: «Forse solo gli uccelli migratori / sospesi tra terra e cielo conoscono / il dolore per due patrie».
Impossibile fare sintesi di quanto Lea provò, sentì, capì, e racconta di quell’uomo, raro, che visse una esistenza di semina e non di mietitura. Come per altro lui stesso comunica negli ultimi versi pubblicati: «Beati coloro che seminano e non mietono / perché vagheranno più lontano. / Beati i generosi la cui splendida giovinezza / aumentò la luce dei giorni e la loro prodigalità / e si spogliarono dei propri ornamenti – sui crocevia. / Beati i fieri la cui fierezza oltrepassò i confini della loro anima / e diventò come l’umiltà del biancore / dopo il levarsi dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole. / Beati quelli che sanno che il loro cuore griderà dal deserto / e sulle loro labbra fiorirà il silenzio. / Beati loro perché saranno raccolti nel cuore del mondo / coperti dal manto dell’oblio / e la parte loro riservata sarà il “tamid” senza parole». (Il tamid è il sacrificio quotidiano che veniva offerto nel Tempio di Gerusalemme).
Avraham Ben Yitzhak, uno di coloro che alla lingua ebraica ha letteralmente ridato la vita. Come scrivono i curatori: «L’ebraico in grado di assolvere al compito di “ascoltare le fondamenta del mondo” è una realizzazione del sionismo – una conquista politica – soltanto nella misura in cui tale ascolto non è condizionato, o non oltre una certa soglia, dai contenuti del sionismo stesso». Adesso torniamo all’Avraham di Lea, non certo ciò che si dice una personcina socievole. «Chiunque l’abbia conosciuto ne ricorda i lunghi silenzi, che a volte arrivavano all’improvviso, e a volte avevano il potere di zittire un’intera brigata di persone particolarmente esuberanti. Talvolta, se si trovava in compagnia di un individuo che non incontrava il suo favore, o se veniva espressa un’osservazione che non era di suo gusto, tutt’a un tratto sprofondava in quel silenzio duro e renitente (e come ho detto: “serrava il viso con il chiavistello”)». Poteva però essere affettuoso, umano, vicino, paziente con le persone semplici che gli erano care, in particolare con i bambini. Sì, la cifra umana del dottor Sonne è stata l’ostinato e tragico silenzio, il ripudio. Annota Goldberg che pronunciata da lui «la parola “loro” si caricava di un disprezzo profondo, sferzante. Senza fare nomi, senza rivelare a chi di fatto si riferisse, storceva un po’ la bocca, strizzava gli occhi da dietro gli occhiali e diceva: “Loro”, ovviamente questo non lo capiscono”. “Loro” era il simbolo della routine, dell’ottusità, il simbolo di quell’autocompiacimento, di quella soddisfazione spirituale e mancanza di impegno che detestava. Quel suo “loro” aveva una strana qualità: a volte avvicinava, altre allontanava. Vi erano casi in cui sentivi che ti stava parlando come a qualcuno in grado di capirlo, di seguire il suo ragionamento sino alla fine, di stare insieme a lui nel campo in cui “loro” erano estranei; e ve n’erano altri in cui finivi incluso nel “loro” e ti assaliva un senso di colpa e disperazione, mentre lui era lì, davanti a te, nella sua solitudine e inaccessibile indipendenza».
Sognatore, anche, Ben Yitzhak. Da poco arrivato in terra d’Israele, seduto con Lea si mise a chiacchierare del rapporto degli ebrei con la natura, del fatto che erano distaccati da quelle sensazioni di vicinanza alla terra provate da ogni popolo che lavori i propri campi da secoli. «Ma spero che la situazione cambi. Oggi ero nella Commissione agricola, e uscendo di lì ho visto un ragazzo e una ragazza che camminavano mano nella mano, proprio come una giovane coppia del Tirolo, o della Stiria, con gli stessi gesti, ed è stata una sorta di testimonianza di una vita ebraica differente, del fatto che saranno contadini come quelli di tutto il mondo».
Così ho finito di leggere “Poesie” e ho pensato una cosa sola, semplice: come si fa a non commuoversi e a non amare l’Avraham Ben Yitzhak di Lea Goldberg? E pensate che qui vi ho riportato un milionesimo delle emozioni provate…
Stefano Jesurum