Inventarsi il passato. La Polonia, per esempio
David Bidussa Gli Stati Generali 21 Ottobre 2019
“Allora ricostruiamo quello che sappiamo per certo”. È l’invito che Anna Bikont rivolge, nell’ultimo capitolo del suo libro, al procuratore Radosław Ignatiew, dell’Istituto della memoria nazionale, incaricato dal governo polacco, all’indomani della pubblicazione di Neighbors, di Jan T. Gross il libro che nel 2000 ha rotto il silenzio sui massacri di ebrei in Polonia nell’estate 1941, in particolare nella zona orientale del paese.
Radosław Ignatiew: “Sin dalle prime ore del mattino [il10 luglio 1941, a Jedwabne, 170 km circa a NE di Varsavia, n.d.r.] gli ebrei furono trascinati fuori dalle loro case e portati nella piazza del mercato. Fu ordinato loro di strappare le erbacce che crescevano tra le pietre del selciato. Gli abitanti di Jedwabne e dei villaggi vicini erano armati di bastoni, spranghe e altro. Un gruppo numerosi di uomini fu costretto a demolire la statua di Lenin che si trovava in una piazzetta vicino al mercato. Verso mezzogiorno fu ordinato loro diportare un pezzo del monumento demolito prima nella piazza e poi in un fienile distante alcune centinaia di metri. Lo portarono usando due pali di legno. Tra loro c’era il rabbino. Vennero uccisi e i loro corpi gettati in una fossa scavata all’interno del fienile. Sui corpi furono gettati dei pezzi della statua di Lenin. La fossa probabilmente non fu ricoperta, perché nel corso dell’esumazione sono stati trovati segni di bruciature su alcuni pezzi della statua. Un secondo gruppo di ebrei, più numeroso, fu portato via dalla piazza più tardi. Tra loro c’erano donne, bambini e anziani. Furono condotti al fienile, che era di legno con il tetto di paglia. Sull’edificio venne versata della benzina, che probabilmente proveniva sa un ex magazzino sovietico di Jedwabne”
Anna Bikont: “Questo significa che prima di morire le persone del secondo gruppo videro i corpi massacrati dei propri padri, fratelli, figli?
Radosław Ignatiew: È possibile.
Anna Bikont: “Sei stato in grado di ricostruire gli ultimi passi degli ebrei di Jedwabne? Sapevano di andare incontro alla morte?
Radosław Ignatiew: “Tra i resti sono stati trovati oggetti di uso quotidiano, come una scatola con chiodi da calzolaio, ditali da sarto, cucchiai, monete d’oro e un numero sorprendente di chiavi: di cancelli, case, lucchetti, armadi. Come se le persone avessero la speranza, illusoria, di avviarsi per una strada dalla quale un giorno sarebbero tornate indietro”. [Bikont, pp.514-515]
È solo una parte dell’intervista che chiude il lungo libro di Anna Bikont, dove tutti i tasselli che lentamente la giornalista di “Gazeta Wiborcza” (il più importante quotidiano polacco fondato nel 1989 da Adam Michnik) ha raccolto intervistando (spesso con risposte offensive, porte sbattute in faccia, rifiuti, insulti) tutte le voci ancora in vita della scena di quel 10 luglio 1941, ma anche i loro figli, i loro nipoti, il parroco del paese, Edward Orłowski, il vero organizzatore del sentimento popolare.
Alla fine, il quadro è chiaro. Ma la grande maggioranza dei polacchi di Jedwabne, a cominciare dal parroco fino al sindaco, per non dire la maggioranza dei polacchi di tutta la Polonia crede a Jedwabne gli ebrei siano stati uccisi dai tedeschi; crede che la loro morte comunque sia stata una punizione per aver collaborato con gli occupanti sovietici tra settembre 1939 e giugno 1941, e crede che quel rimestare il passato, risponda a un solo obiettivo :far pagare i polacchi per responsabilità non loro, e ricattarli per avere soldi. In breve, l’ennesimo complotto giudaico per sottomettere e schiacciare la Polonia in una condizione di servitù al fine di per impedirle di diventare “nazione libera”.
Così tra il 2001 e il 2004 (gli anni in cui Anna Bikont costruisce e raduna il materiale e da corpo a questo suo libro).
Ma così anche oggi, in questo nostro oggi, ottobre 2019.
Intorno a ciò che accade in quella parte di Polonia che a partire dal 22 giugno 1941 viene occupata dall’esercito tedesco, mentre le forze dell’Armata Rossa di ritirano confusamente e precipitosamente è abbastanza chiaro: il tipo di occupazione tra fine settembre 1939 e giugno 1941 è stata avvisata dai polacchi come invasione, come tentativo di rovesciare e cambiare radicalmente la natura della identità polacca. Per la maggior parte dei polacchi l’arrivo dell’esercito della Germania nazista non era avvisato come una minaccia dello stesso tipo. Non c’era simpatia, ma per certi aspetti i nuovi venuti erano anche percepiti come liberatori.
Dentro a questa dinamica complicata, con cui ancora molti devono fare i conti, compreso noi che da questa parte dell’Europa, guardiamo quei fatti, si collocano vari episodi di pogrom e poi di massacro nei confronti degli ebrei locali.
Per la precisione: un pogrom è essenzialmente un attacco alle case, un furto più o meno sistematico delle proprietà e raramente, o occasionalmente, l’uccisione di persone. In altre parole, il suo obiettivo principale non è uccidere (anche se non è escluso). Un massacro, invece, è un atto che ha come obiettivo la vita delle persone e si propone la loro uccisione.
Dunque, nei giorni compresi tra l’ultima settimana di giugno e le prime due settimane di luglio 1941, avvengono vari episodi di pogrom che si trasformano in massacri. L’episodio più noto di tutti (anche se, per divenire episodio noto sono stati necessari 60 anni e che Jan T.Gross, lo raccontasse) accade a Jewadbne, tra il 10 luglio 1941.
Il libro di Anna Bikont è una paziente inchiesta intorno a quei fatti, mosso dalle reazioni che in Polonia si scatena nell’estate 2000 all’uscita del libro di Gross in polacco.
Si potrebbe leggere quel libro come un documento storico collocato in un tempo preciso (e sarebbe già significativo).
Ma il fatto è, invece, che quel libro, consente di capire molti elementi del nostro oggi, 2019.
Ovvero per dirla esplicitamente: a un lettore di oggi, quel testo non appare un’inchiesta datata intorno a un episodio di storia di circa 80 anni fa, ma assomiglia di più alla traccia archeologica del nostro tempo.
In questo senso il libro di Anna Bikont va letto come un’immersione nella “la pancia” dell’opinione pubblica in Polonia. Più precisamente è contemporaneamente, l’archeologia, ma anche la genealogia e la descrizione dei sentimenti della Polonia di oggi (ottobre 2019)
La prima edizione del libro è del 2004, ma il fatto che arrivi oggi in Italia, nel 2019 (l’edizione americana è del 2015) non lo rende un libro superato.
In breve, Anna Bikont con 15 anni di anticipo, rispetto alla nostra consapevolezza, ma in tempo reale rispetto alle dinamiche che in Polonia prendevano corpo nel primo quinquennio di questo nostro secolo, descrive stati d’animo, emozioni, convinzioni, che oggi noi riconosciamo nelle forme del linguaggio sovranista, ma che hanno radici profonde, e non sono figlie della delusione delle politiche dell’Unione Europea, della crisi economica (anche se si servono di questi riferimenti nella loro propaganda quotidiana).
Quelle parole, quelle metafore, quel linguaggio, e quell’immaginario -in breve quel sentimento diffuso e quella convinzione radicata – sono figlie ed espressione di un apparato culturale, mentale, emozionale, prima ancora che ideologico, che ha una sua lunga storia nella tradizione culturale europea tra prima Età moderna e XX secolo.
Un codice che si nutre dell’antigiudaismo cattolico e dalla convinzione che la presenza ebraica in Europa sia un elemento di disturbo, comunque sia un corpo estraneo da sottomettere e rappresenti sempre la “quinta colonna” di un potere e di un nemico, il cui fine è sottomettere gli “indigeni” (la campagna contro Soros non è che l’ultima espressione di questo paradigma politico e culturale). Un nemico che ha in animo di sottomettere i buoni “venerdì” nazionali e che di solito è collocato immediatamente al di là del confine orientale.
Un nemico da cui occorre proteggersi erigendo muri e il cui fine è distruggere l’Europa cristiana.
Una convinzione fondata sul panico che vede nemici ovunque e la cui matrice originaria è una visione autoassolutoria della storia.
Anche questa una scena già vista molte volte nella storia d’Europa, non solo in Polonia.
David Bidussa