ISRAELE: SCACCO AL RE
L’incriminazione di Benjamin Nethanyahu irrompe sulla scena politica israeliana già in piena paralisi istituzionale. ‘Re Bibi’ rilancia e accusa la magistratura di “golpe”. Ma nel Likud già parte la fronda. Dovrà dimettersi? Gli alleati lo molleranno? Per ora nulla è certo, se non che il voto, il terzo in un anno, appare sempre più vicino.
ISPI 22 novembre 2019
La notizia era nell’aria. Eppure l’incriminazione di Benjamin Netanyahu per frode, corruzione e annunciata dal procuratore generale Avichai Mandelblit si è abbattuta sulla scena politica israeliana con la potenza di un uragano. La reazione di Netanyahu non si è fatta attendere: in conferenza stampa , ‘King Bibi’ – così soprannominato per la sua longevità politica – ha denunciato un “colpo di stato” basato su “accuse politicamente motivate” in un “momento politico delicato per il paese”. Una scelta di parole tutt’altro che casuale: il paese si trova senza un governo e in uno stallo politico che si trascina da mesi. L’incriminazione arriva subito dopo la remissione del mandato esplorativo da parte di Benny Gantz, ma prima dello scadere dei 21 giorni per lo scioglimento della Knesset, il parlamento israeliano. Con Ganz dimissionario e Netanyahu alla sbarra, si ha la quasi certezza di dover tornare alle urne per la terza volta in un anno.
Per la prima volta dalla creazione dello Stato di Israele, i leader dei due partiti maggioritari, il Likud e la coalizione Blu e bianco, non sono stati in grado di formare un governo di coalizione. Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro uscente e Benny Ganz, hanno rimesso uno dopo l’altro a distanza di un mese il mandato esplorativo nelle mani del presidente Reuven Rivlin, ammettendo di non aver saputo dar vita a un governo di unità nazionale. Nessuno dei due è infatti riuscito ad ottenere il sostegno di Yisrael Beitenu, partito laico e ultranazionalista guidato da Avigdor Lieberman che con i suoi 8 seggi è diventato l’ago della bilancia parlamentare. Secondo la giurisprudenza, ora i deputati della Knesset hanno tempo fino all’11 dicembre per designare un qualsiasi deputato in grado di formare il governo. Se anche in questo caso tutto finisse con un buco nell’acqua, si tornerà al voto entro 90 giorni, al più tardi nel marzo 2020.
A complicare ulteriormente la situazione, nel tardo pomeriggio del 21 novembre, il procuratore generale Avichai Mandelblit ha rinviato a giudizio Netanyahu per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Anche questo è un caso inedito: nessun primo ministro israeliano in carica, prima d’ora, aveva mai dovuto difendersi in tribunale. Le accuse rivolte al premier uscente sono tre. Il “Caso 1000” che vede Netanyahu accusato di aver accettato champagne, sigari e altri regali da facoltosi imprenditori (Arnon Milchan e James Packer) in cambio di favori. Il “Caso 2000” relativo all’intesa con Arnon Mozes, editore del quotidiano Yediot Ahronot, per una copertura giornalistica benevola, in cambio di una riduzione delle tirature di Yisrael Hayom, un giornale rivale. E il “Caso 4000”: il più delicato, sull’operato di Netanyahu come ministro delle Telecomunicazioni, e le presunte agevolazioni a Shaul Elovitch, tycoon dei media e del colosso di Internet, Bezeq. Per ottenere coperture favorevoli da parte del sito web Walla News, di proprietà della società di Elovitch – sostiene l’accusa – Netanyahu avrebbe disposto leggi e norme a beneficio economico del magnate. Ma econdo la legge israeliana, un primo ministro è tenuto a dimettersi solo se viene condannato in via definitiva. Quindi Netanyahu potrà rimanere in carica durante tutto il procedimento legale, ricorsi inclusi.
È un’immagine quasi “trumpiana” quella che vien fuori dagli atti dell’indagine, e di un premier che manipola, corrompe e piega le persone e l’interesse nazionale, per il suo tornaconto. Inoltre reazioni dei due leader “sono così simili – osserva Ishaan Tharoor sul Washington Post – che si è tentati di supporre che Trump e Netanyahu si stiano consigliando a vicenda o stiano prendendo spunti da uno stesso spin-off de “le regole del delitto perfetto”. In teoria, la differenza tra i due paesi sta nel fatto che gli Stati Uniti sono nel pieno della campagna elettorale. Ma in Israele sono in pochi a dubitare che il conto alla rovescia per un nuovo appuntamento con le urne non sia già cominciato. E che la campagna elettorale che sta per aprirsi non sarà la più velenosa e vendicativa nella storia del paese. Al punto che nel Likud già volano gli stracci: Gideon Saar, il principale avversario di Netanyahu nel partito, ha annunciato che chiederà le primarie. Sulla sua strada, Saar troverà un primo ministro ferito ma non “abbattuto” dall’incriminazione e pronto a parare i colpi in arrivo. Tra questi, anche quelli dei partiti della destra nazionalista e religiosa che da dieci anni compongono la sua coalizione, sempre più tentati di sganciarsi da un leader alla sbarra per corruzione. Nelle ultime 48 ore è accaduto di tutto. E di tutto può ancora accadere. Di sicuro, come sottolinea oggi Haaretz, “Netanyahu non se ne andrà senza prima aver dato battaglia”.
Il commento di Ugo Tramballi, senior Advisor ISPI
“L’incriminazione di Netanyahu e la paralisi politica in Israele, sono due facce della stessa medaglia. Era l’elefante nella stanza di cui fino a ieri nessuno parlava. In questi mesi, l’incertezza sulla sorte dell’attuale primo ministro è diventata l’incertezza di tutti”. “La reazione del premier mette in crisi la democrazia Israeliana. Come il suo alleato americano Donald Trump, più che a governare il paese, il premier è impegnato a garantire la sua sopravvivenza politica”.