Amos Oz
A un anno dalla scomparsa
Di Wlodek Goldkorn
È morto a 79 anni il grande scrittore israeliano. Una vita al servizio della sua terra dal kibbutz alle battaglie civili, non ha mai smesso di denunciare l’escalation militare verso i palestinesi e di promuovere la soluzione dei due Stati
Sia perdonato il tono personale ma la storia che segue, per certi versi, riassume il modo di stare al mondo e con gli altri di Amos Oz, scomparso ieri all’età di 79 anni. Eravamo a Novara a presentare il suo romanzo Giuda, l’ultimo che ha scritto e dove, attraverso vari protagonisti lo scrittore israeliano fa i conti con gli ideali cui ha creduto e con l’idealismo che talvolta porta al tradimento e può provocare la morte altrui; un romanzo quindi sulla responsabilità. In una sala piena di gente avevo fatto cenno, coerentemente con il libro e con la vita dell’autore, al dovere di soccorrere i naufraghi e i profughi. A tavola, dopo la presentazione, Oz mi guardò dritto negli occhi e mi domando: «Ti sei sentito contento quando hai fatto quella domanda e hai avuto l’applauso del pubblico?». Amos Oz, proprio perché era un grande scrittore sapeva che per fare “il Bene” non bastano le belle parole. E da gigante della letteratura era conscio dei limiti della stessa letteratura.
Un giorno, a casa sua, a Tel Aviv, parlando di Louis-Ferdinand Céline, disse: «Scriveva benissimo, meglio di tutti gli altri francesi del Novecento, ma non era un grande scrittore». Per Oz erano fondamentali l’etica nella letteratura e il dovere di narrare bene la tragedia insita nell’esistenza di noi umani, ma senza astio. Amava ripetere che un ideale per rimanere ideale non può essere realizzato; che il sogno quando diventa realtà è delusione; che l’amore non è solo altruismo ma ha un lato egoistico; e che nel predicare il Bene, appunto c’è del narcisismo. E ciò nonostante, tutto questo non deve portarci al cinismo, alla rinuncia agli ideali, ai sogni e all’amore. Il compromesso, diceva, era la parola più cara del suo vocabolario e con una certa ironia, faceva un esempio: «Da decenni sono sposato con la stessa donna; quindi so cosa vuol dire compromesso». Per quella donna, Nili, provava, ricambiato, un amore senza limiti.
Amos Oz era nato a Gerusalemme come Amos Klausner, figlio di un intellettuale originario dei territori dell’ex impero zarista, e che lui stesso considerava fallito. Lo ha descritto in modo magistrale in Una storia d’amore e di tenebra, un romanzo e un memoir tenero e crudele al tempo stesso, in cui racconta le vicende della sua famiglia. La madre Fania si era tolta la vita quando Amos era giovanissimo e da quel lutto non è mai riuscito a guarire. A quindici anni lasciò la casa del padre e l’ambiente di destra in cui era cresciuto e andò a vivere in un kibbutz. Cambiò il cognome in Oz, che vuol dire forza e coraggio. Voleva essere pioniere, agricoltore, e con i piedi nudi toccare la terra. E invece diventò scrittore.
Negli ultimi anni, nel saggio Gli ebrei e le parole, scritto assieme alla figlia Fania Oz-Salzberger, rivaluta l’idea di un’identità ebraica legata al testo, alla memoria delle parole e non alla terra. Un ritorno alle origini diasporiche, un ripensamento del messaggio sionista? No: per Oz, l’esistenza di uno Stato degli ebrei era di primissima importanza, questione di vita e di morte. Ma ripeteva spesso: «Sono disposto a dare la vita per la libertà, non per le pietre e i luoghi sacri». Non sopportava i fondamentalismi, li considerava un morbo dei nostri tempi; e intendeva tutti i fondamentalisti: islamici, ebraici, cristiani. Pensava che per curare quella malattia occorreva il senso dell’ironia, quella distanza da se stessi che permette di accettare la rinuncia a qualche diritto, per non ledere quelli altrui. Ecco perché per lui la pace con i palestinesi voleva dire fine dell’occupazione e due Stati, quindi un divorzio ragionevole, senza pretese di amore tra ex nemici. E a proposito dell’occupazione, un giorno mentre lo accompagnavo all’aeroporto mi ha detto con orgoglio: «Sono stato il primo a dire pubblicamente, nel 1967, subito dopo la Guerra dei sei giorni che occorreva ritirarsi dai Territori che erano stati appena occupati». Nello stesso anno si mise a girare i kibbutz per raccogliere le testimonianze dei soldati, racconti duri e crudeli, per niente edificanti né celebrativi della vittoria. Il tutto uscì in un libro e recentemente, in un documentario, Censored Voices. «Volevo raccontare quanto la guerra sia sangue e merda e non solo trionfi», disse. Eppure considerava quella una guerra giusta.
Scrittore instancabile (22 tra i romanzi e le raccolte di storie brevi e 11 i libri saggistici, pubblicati in ebraico), il suo capolavoro assoluto resta un romanzo scritto all’età di 27 anni, pubblicato nel 1968, Michael mio in cui racconta la storia di una donna afflitta da una sorta di mal dell’anima, depressa, instabile, insoddisfatta della vita, con sullo sfondo un marito buono ma incapace di far fronte alla situazione, in una Gerusalemme divisa tra Israele e Giordania. Era contento quando sentiva dire che quello era il suo libro migliore; perché il più profondo nella ricerca della verità interiore. Della Gerusalemme degli anni Cinquanta e primi Sessanta, città degli intellettuali, laica, un po’ sonnolenta, ha avuto sempre nostalgia, mentre dal kibbutz si trasferiva ad Arad nel deserto del Negev e poi a Tel Aviv, per stare vicino ai nipoti. Quando abitava ad Arad, ogni mattina, prestissimo (si alzava alle cinque) andava a camminare, fuori dalla cittadina. Diceva che guardare il deserto con le sue pietre e i suoi spazi, un’immagine che racchiude l’eternità, gli faceva capire quanto fossero ridicole le espressioni “per sempre” o “mai” in bocca ai politici. E ad Arad (cambiando il nome del luogo in Tel Ilan) ambientò un delizioso romanzo, Scene della vita di un villaggio, in cui descrive le piccole vite di piccoli uomini e donne; e ad Arad (questa volta sotto il nome Tel Kedar) è ambientato Non dire notte.
Oz era un gigante perché come pochissimi scrittori al mondo sapeva narrare le più recondite emozioni delle persone comuni, e basti pensare a Una pace perfetta, o a Lo stesso mare: un modo di indagare il mondo, proprio dei grandissimi russi, come Cechov o Gogol. Quando, una volta sentì dire che era un autore russo che scriveva in ebraico, la faccia gli si illuminò (aveva una faccia bellissima): era felice.