L’antisemitismo di sinistra che la sinistra non sa riconoscere
di Matteo Gemolo – MicroMega 1/2020
È evidente che la lotta all’antisemitismo sia utilizzata da Salvini in chiave strumentale e giustissimo è stigmatizzare l’ipocrisia del leader leghista. Ma la sinistra, per essere credibile su questo terreno, dovrebbe iniziare a riconoscere e combattere l’antisemitismo che serpeggia silenzioso nelle sue stesse file.
Per capire il perché Matteo Salvini si sia ritrovato settimana scorsa a dibattere pubblicamente di antisemitismo nell’inusuale contesto istituzionale della sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, affiancato da intellettuali conservatori stranieri, ricercatori ed ambasciatori dobbiamo fare un passo indietro e guardare all’Europa degli ultimi anni.
Allo stato attuale, 70 membri del moribondo partito Laburista inglese sono indagati dalla Commissione per l’Uguaglianza e Diritti Umani per antisemitismo. A discorsi politicamente legittimi e di critica al governo israeliano si intrecciano affermazioni dal sapore sovversivo e apertamente intollerante come “vorrei tanto essere il presidente dello Stato di Israele. Hanno un bottone per autodistruggersi, vero?” pronunciate da Ali Milani, ex-candidato laburista nel collegio di Uxbridge e South Ruislip e proposte quanto meno imbarazzanti come quelle di “ricollocare Israele negli Stati Uniti” per risolvere “il conflitto arabo-israeliano”, rivendicate da Naz Shaha, altra parlamentare Corbynista.
Nel luglio del 2019, la BBC si fa autrice di un documentario dal titolo incendiario “Il partito laburista è antisemita?” in cui vengono raccolte le testimonianze di otto ex-dirigenti e impiegati Labour che denunciano l’“insopportabile” atmosfera negazionista all’interno del proprio partito in merito a questioni legate all’antisemitismo e a presunti legami tra la cerchia di Corbyn, Hamas, Hezbollah e la fratellanza musulmana. Sempre nello stesso periodo, viene pubblicata una lettera aperta su The Guardian a firma di una sessantina di deputati laburisti che denunciano il proprio leader con argomentazioni simili. Un parricidio?
La convergenza tra sinistra anti-capitalista/anti-imperialista à la Corbyn e nuove forme di antisemitismo subdolo e silenzioso sembra non arrestarsi ai confini naturali della Manica.
Nell’analizzare la débâcle laburista
nelle elezioni nazionali del 2019, Jean-Luc Mélanchon, leader francese de La
France Insoumise ricicla l’argomento delle Epistole di San Girolamo del dum
excusare credis, accusas (mentre credi di scusarti, ti accusi) incolpando Corbyn
di aver dimostrato “debolezza” e generato “allarme tra le fasce più deboli del
proprio elettorato” per il solo fatto di essersi confrontato e poi “scusato”
con chi accusava il suo partito di non aver vigilato a sufficienza in merito a
ripetuti episodi di antisemitismo: ci sono numerosi testimoni che riportano
quanto fosse frequente sentire alle riunioni di partito espressioni come: “Zio
scum” (feccia di sionista), “l’unica ragione per cui abbiamo prostitute a Seven
Sisters è perché ci vivono degli ebrei” e “Hitler was right.” Per Mélanchon,
meglio avrebbe fatto il leader laburista ad ignorare completamente il grido
d’allarme lanciato dal capo rabbino inglese Ephraim Mirvis dalle colonne del
Times alla vigilia delle elezioni nazionali britanniche e passare all’incasso
elettorale.
Come spiegarsi dunque la sconfitta di Corbyn? Semplice: una macchinazione messa in atto da una fitta rete di lobby politico-mediatiche legate a Likud, il partito nazionalista liberale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Quest’interpretazione, promossa da Mélanchon e sposata da tanti altri a sinistra, sembra fare pericolosamente da specchio alle teorie complottistiche demo-pluto-giudaico-massoniche (e chi più ne ha più ne metta…) di stampo fascista del secolo scorso. La cosa più grave è che questo approccio esclude aprioristicamente la possibilità che anche a sinistra si possano infiltrare forme occulte e subdole di antisemitismo.
Ma non è di certo una novità. In
molti ambienti pseudo-progressisti questo genere di convinzione si salda alla
perfezione con un’altra apodittica certezza: quelli pericolosi ed illiberali
sono e saranno sempre dall’altra parte. Ce lo confermano quelli de Il Manifesto
che scrivono con fervore: “i conservatori (inglesi) hanno sì il razzismo iscritto
razzisticamente nel proprio Dna politico e sguazzano nell’islamofobia come
tutte le destre fasciste…”, aggiungendo con deferenza religiosa: “Corbyn, un
leader politico la cui militanza antirazzista nessun altro deputato di
Westminster può vagamente pareggiare.”
E tornando all’Italia, ecco che ci ritroviamo in queste settimane al cospetto di un Matteo Salvini inedito che discute con opportunismo e fiuto politico eccezionale di antisemitismo, di fatto monopolizzando la conversazione su questioni che fino all’altro ieri sembravano del tutto ininfluenti: esiste un qualche legame tra sinistra ed antisemitismo? Quali sono le differenze sostanziali tra antisionismo ed antisemitismo? Esistono forme di antisemitismo diverse da quelle fascistoidi del secolo scorso? Questioni serie e che sono ormai da decenni dibattute in Europa da intellettuali, accademici e giornalisti provenienti da tutte le culture politiche.
E di fronte a questi interrogativi
come reagisce parte della stampa italiana? Semplice: facendo la solita
deleteria e controproducente (ormai la storia recente lo ha dimostrato)
caricatura al cazzaro verde. “Salvini: l’antisemitismo in Italia? Colpa degli
immigrati” si legge con incredibile spirito di sintesi su La Stampa; oppure
“Salvini organizza un convegno sull’antisemitismo per prendersela coi migranti”
titola Linkiesta.it.
Intendiamoci: fare la parodia al discorso del leader della Lega è facile. Troppo facile. Il suo linguaggio volutamente semplicistico e strumentale si autodenuncia da solo per quel che è: un tentativo prevedibilissimo di allinearsi alle destre conservatrici occidentali – quelle che riescono a vincere le elezioni e a governare paesi ben più complessi e dal peso internazionale ben più rilevante del nostro, come Regno Unito e Stati Uniti d’America.
Ma l’elemento di novità di queste settimane è un altro: Salvini ha finalmente capito che per trasformare il Carroccio da partito populista di protesta – abituato a tessere relazioni ambigue e controproducenti con movimentucoli neofascisti locali dallo scarso impatto elettorale – a forza di governo, deve circondarsi di “menti” esterne che contribuiscano con “argomenti” spendibili dal punto di vista intellettuale a realizzare quella mutazione genetica a cui il suo partito aspira da tempo e che gli garantirebbe un posto di tutto “rispetto” sul piano internazionale. Ed è così che tra un rigurgito al Mojito, i “bacioni” alla sinistra e i “bacini” al rosario, Salvini si ritrova per la prima volta supportato da intellettuali e pensatori appartenenti ad una destra conservatrice moderata, tutti provenienti da fuori Italia, pronti a dibattere in un contesto altamente istituzionale argomenti sui quali tra le file della sinistra italiana purtroppo sono ancora in molti a tacere. “Le nuove forme dell’antisemitismo” del 16 gennaio scorso segna il via a questo percorso di lifting intellettuale a cui si vuole sottoporre il Carroccio, a cui seguirà a breve un’altra conferenza intitolata “National Conservatism. God, Honor, Country: Presitdent Ronald Reagan, Pope John Paul II, and the Freedom of Nations”, che si terrà al Grand Hotel Plaza di Roma il 4 febbraio prossimo e che vedrà come ospiti anche il primo ministro ungherese Vicktor Orban.
Cosa ribattere dunque ad un discorso articolato come quello di Douglas Murray (autore tra i vari del best-seller “La strana morte dell’Europa: immigrazione, identità e Islam”) che da anni parla di antisemitismo di matrice religiosa? Come reagire di fronte a chi come Ramy Aziz (ricercatore egiziano copto e analista politico del Middle Eastern Affairs Journal) e Dore Gold (presidente del Jerusalem Center for Public Affairs) porta avanti una perorazione che tende ad erodere la già precaria e sottile linea di confine che vi è tra una legittima critica alle politiche governative israeliane e la negazione del diritto al popolo ebraico all’autodeterminazione?
Al di là dell’evidente uso strumentale che Salvini fa di questi argomenti, mescolando con una certa abilità la proposta di vietare per legge il Bds (boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele) con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Isreale (seguendo la lezione di Trump), cos’altro hanno da dire gli intellettuali di sinistra di fronte all’emergere di effettive nuove forme di antisemitismo? Basterà affermare che non esistono perché a parlarne è Matteo Salvini?
Chiunque sia genuinamente interessato a comprendere le cause dell’aumento esponenziale degli attacchi antisemiti degli ultimi decenni in Occidente dovrebbe compiere prima di tutto un gesto di onestà intellettuale: spogliarsi per un istante della propria casacca ideologica, allontanarsi dallo specchio su cui le stesse idee trite e ritrite si riflettono narcisisticamente da decenni e confrontarsi con i dati che provengono dal mondo reale.
L’Alto commissario delle Nazioni Unite (UNHCHR) riporta che gli atti antisemitici in Francia nel 2018 sono aumentati del 74% rispetto al 2015. Il numero delle minacce antisemite sono anch’esse in crescita del 67% e fanno riferimento a 358 incidenti registrati nel 2019 (comprendenti insulti orali e scritti, email di minaccia, graffiti, svastiche ecc.) rispetto ai 214 riportati del 2017. Sul suolo francese sono ancora 824 gli istituti ebraici sotto sorveglianza militare e poliziesca. Ancora più preoccupante appare la situazione in Francia se prendiamo in considerazione un ulteriore dato: rispetto alla tendenza generale che vede diminuire gli attacchi a sfondo raziale (scesi del 4,2% secondo DILCRACH, la Delegazione interministeriale alla lotta contro razzismo, antisemitismo e omofobia) e quelli di matrice anti-musulmana (il 2018 registra il livello più basso di attacchi contro cittadini di fede islamica dal 2010), gli atti antisemiti rappresentano più della metà, il 55%, di tutti gli atti violenti a sfondo razzista registrati nel 2018, a discapito del fatto che la comunità ebraica francese costituisca meno dell’1% della popolazione totale.
In Germania la situazione è altrettanto allarmante. Secondo l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) gli attacchi antisemiti hanno raggiunto un totale di 1.799 unità rispetto alle 1.239 del 2011. Le statistiche della polizia attribuiscono l’89% di tutti i crimini antisemiti tedeschi agli estremisti di destra, ma i membri della comunità giudaica descrivono un’altra realtà: secondo un’indagine dell’Unione Europea, il 41 % degli intervistati afferma che gli attacchi degli ultimi anni siano fondamentalmente di matrice islamica. Un’indagine della Anti-Defamation League sembra confermarlo, riportando un’inquietante dato: il 56 % dei musulmani in Germania nutre atteggiamenti apertamente antisemiti, rispetto al 16 percento della popolazione complessiva.
Individuare le diverse radici ideologiche, politiche e religiose di questo sentimento crescente d’odio e pregiudizio nei confronti dei nostri concittadini ebrei è tanto fondamentale quanto urgente. Molti osservatori, non tra gli ultimi l’Agenzia tedesca per la sicurezza interna, hanno iniziato ad allargare il proprio campo d’indagine anche a fette della popolazione di confessione musulmana, dando risposta concreta al timore largamente diffuso all’interno della comunità ebraica rispetto a quel fenomeno noto come “antisemitismo d’importazione” che si affianca a quello del tutto locale d’origine neonazista. Dal 2015 in avanti, la crescente presenza di rifugiati provenienti dalla Siria e dall’Iraq ha allarmato molti ebrei in Germania che già si percepivano minacciati su due fronti opposti: da un lato, dall’avanzata della destra nazionalista dell’Afd, dall’altro da una più generale atmosfera d’intolleranza alimentata a distanza dal conflitto israelo-palestinese, soprattutto a partire dalla Seconda Intifada di inizio anni 2000.
Un episodio su tutti: nell’Aprile del 2018, nel distretto di Prenzlauer Berg a Berlino un ragazzo israeliano di nome Adam Armoush, viene aggredito da un 19enne siriano di origine palestinese mentre passeggia con un amico indossando uno yarmulke; il siriano prende la propria cintura e frusta il ragazzo israeliano al grido di “yehudi” (“ebreo” in arabo). La scena è filmata da un testimone ed il video, diffuso sui social media, genera una tale indignazione nell’opinione pubblica internazionale che Angela Merkel si ritrova costretta pubblicamente a parlare per la prima volta di “matrice islamica” in riferimento ad un episodio di violenza antisemita.
Anche in Svezia, il numero di crimini a sfondo antisemita registrati nel 2018 ha raggiunto il record più alto degli ultimi decenni, aumentando del 53% rispetto ai dati forniti dal governo nel 2016. Nei Paesi Bassi la polizia parla di casi raddoppiati tra il 2008 e il 2018, da 141 a 284 (dati Poldis). La comunità ebraica del Belgio, che conta circa 40.000 abitanti e si divide principalmente tra la capitale ed Anversa, ha subito un numero crescente di minacce ed intimidazioni negli ultimi anni a partire dall’attentato al Museo Ebraico di Bruxelles del 2014 per mano dell’ex miliziano dell’ISIS Mehdi Nemmouch, costato la vita a quattro persone. Il rabbino capo Albert Guigui non indossa più la kippah dal 2001, a seguito di un assalto antisemita alla sua persona per mano di un gruppo di giovani magrebini. L’esibizione del copricapo tradizionale ebraico viene percepito come pericoloso da un numero crescente di ebrei europei. Nel 2014, in Danimarca una scuola ebraica di Copenaghen ha invitato i suoi studenti ad indossare cappellini da baseball sopra i loro yarmulke. Nel 2016 Tzvi Amar, presidente del concistoro israelita di Marsiglia, ha consigliato agli ebrei della sua città di adottare una simile forma precauzionale. Anche in Italia gli incidenti antisemiti si sono quasi quadruplicati passando da 16 episodi nel 2010 a 56 nel 2018 (DIGOS).
Questi dati ci insegnano tre cose. Primo: il problema dell’antisemitismo è reale, vasto e radicato. Secondo: sottovalutare l’antisemitismo per pigrizia intellettuale o presunta superiorità morale, pensandolo come un problema che non ci affligge, significa solo rendersi complici della sua diffusione. Terzo: lasciare alle destre sole il monopolio su di un argomento che è molto più complesso di quello che ci fa comodo credere, è da irresponsabili.
E per concludere, si stia certi di una cosa: la comunità ebraica se ne fa molto poco delle nostre critiche nei confronti di Matteo Salvini, se a nostra volta non dimostriamo di esser capaci di riconoscere e combattere l’antisemitismo che serpeggia silenzioso tra le nostre stesse file.
Mattia Gemolo (24 gennaio 2020)
Matteo Gemolo è un musicologo e flautista italiano. Laureato in Filosofia all’Università di Padova, in Musicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e in flauto traversiere al Conservatorio Reale di Bruxelles. In qualità di interprete e ricercatore il suo lavoro si situa in prima linea nella ricerca, studio ed esecuzione del repertorio contemporaneo per il traversiere. Di origini veneziane, vive da 8 anni a Bruxelles (Belgio). Suona regolarmente con orchestre barocche di fama internazionale e si esisisce nei principali teatri e festival in tutta Europa. Ha inciso per Warner Classics & Erato e per Arcana (Outhere Music). Ha collaborato con varie riviste tra cui FaLaUt (IT), The Flutist Quarterly (US) e come conferenziere per il Royal Northen College of Music di Mancheste (UK), l’Università di Cardiff (UK) e l’Università di Aveiro (PO). E’ attualmente titolare di una borsa di studio di dottorato in Music Performance all’Università di Cardiff (Galles). Appassionato di filosofia, politica, storia dell’arte, cinema e giornalismo. Scrive e parla fluentemente in Inglese e Francese.