Antisionismo, una versione dell’antisemitismo
Michael Walzer da Vita e Pensiero 1-2020
(grazie a Giorgio Gomel della segnalazione)
Storicamente l’antisionismo si è manifestato all’interno dello stesso ebraismo, con le sue numerose varianti. Da tempo però coinvolge il mondo della sinistra, in Europa e negli Stati Uniti. Un antisionismo pericoloso come quello di destra
In un certo numero di campus universitari e in vasti settori della sinistra, l’antisionismo è una politica oggi di moda. Le organizzazioni ebraiche e di gran parte degli ebrei che conosco concordano nel dire che si tratta della versione più recente dell’antisemitismo.
Ma l’antisionismo è un problema a sé,e possiede molteplici varianti.Nelle pagine che seguono mi piacerebbe esplorare la sua variante antisemita. Ritengo che il “sionismo” rimandi all’idea dell’esistenza legittima di uno Stato ebraico, niente di più, e che l’antisionismo contesti tale legittimità. La mia preoccupazione, qui, concerne l’antisionismo di sinistra negli Stati Uniti e in Europa.
L’antisionismo ebraico
La maggior parte delle varianti dell’antisionismo si è dapprima manifestata fra gli stessi ebrei.La variante probabilmente più antica vede nel sionismo un’eresia ebraica.Secondo la dottrina ortodossa, il ritorno degli ebrei a Sion e la creazione di uno Stato sono opera del Messia e avranno luogo nei tempi a venire. Nell’attesa, agli ebrei viene ingiunto di accettare l’esilio, di obbedire ai governanti dei gentili e di attendere la liberazione divina. Ogni azione politica mirante ad affrettare il suo avvento è considerata un’usurpazione delle prerogative di Dio. Gli autori sionisti si opponevano alla passività prodotta da questa dottrina con tale passione che gli ebrei ortodossi li bollavano come antisemiti, benché essi non avessero mai chiamato così il proprio rifiuto del progetto sionista.
Attendere il Messia ha la sua versione di sinistra che potremmo chiamare attendere la Rivoluzione. Si è spesso detto agli ebrei (e alle altre minoranze) che tutti i loro problemi si sarebbero risolti solo con il trionfo del proletariato; molti ebrei hanno visto in una simile posizione una manifestazione di ostilità, un rifiuto di riconoscere l’urgenza della situazione in cui si trovavano. Da parte mia, non la ritengo tanto l’espressione di un antisemitismo, quanto una forma di rigidità ideologica e un’assenza di sensibilità morale.
La seconda versione ebraica dell’antisionismo è nata nella Germania del XIX secolo, tra i fondatori dell’ebraismo riformato. Non esiste un popolo ebraico, dicevano, esiste soltanto una comunità di fede – uomini e donne di obbedienza mosaica. Gli ebrei potevano essere buoni tedeschi (o buoni cittadini di un qualunque Stato), perché non erano una nazione come le altre e non aspiravano a fondare un proprio Stato.
Il sionismo era avvertito come una minaccia da parte dei buoni tedeschi perché suggeriva che gli ebrei fossero fedeli a un’altra alleanza.
Questo ha permesso da allora in poi a una corrente importante della sinistra di affermare che uno Stato ebraico è necessariamente uno Stato religioso, paragonabile a uno Stato cattolico, luterano o musulmano; in altri termini: una formazione politica inaccettabile per la sinistra. Tale posizione venne adottata dagli ebrei riformati, seppur consapevoli che gran parte dei loro correligionari non la condivideva.
Se la nazione è davvero un plebiscito giornaliero, come ha scritto Ernest Renan, possiamo dire che gli ebrei dell’Europa dell’Est, in grande maggioranza, votavano quotidianamente per il popolo ebraico. Non tutti erano in cerca di una patria in terra d’Israele, ma gli stessi membri del Bund, che speravano nell’autonomia degli ebrei nell’impero zarista, erano dei nazionalisti ebrei.
I primi riformatori volevano cambiare il corso e la natura della storia ebraica, ma non ignoravano la propria storia. Non vale lo stesso per i gauchisti, che si oppongono all’esistenza del popolo ebraico ma sono in gran parte ignoranti. Non sono vittime di ciò che i teologi cattolici chiamano «l’invincibile ignoranza»: in realtà quel che non sanno non vogliono saperlo; è questo che dovrebbe inquietarci.
Se cercassero di interessarsene, potrebbero istruirsi sulle ragioni dell’intreccio radicale tra religione e nazione nella storia ebraica. Non
si può separare la religione dal politico; se non possedete uno Stato non potete costruire un muro fra la Chiesa – o la Sinagoga – e lo Stato.
Fin dalle sue origini, il sionismo si è sforzato di mettere in moto il processo per districare quell’intreccio ed edificare uno Stato dove in cui prevalesse la laicità. Lo Stato di Israele ha oggi i suoi fanatici che contrastano tale sforzo, così come vi sono nazionalisti indù e zeloti musulmani che si oppongono ad analoghi sforzi nei propri Stati.
Affinché la sinistra, come potremmo attenderci, difenda ovunque la laicità, bisognerebbe che essa prendesse in considerazione il valore del progetto sionista originario.
Non direi che il pigro preconcetto secondo il quale l’ebraicità è un’identità puramente religiosa rientri nell’antisemitismo. Ma il rifiuto di riconoscere che un gran numero di ebrei, identificati in quanto tali, non sono religiosi, è un po’ strano. Non diciamo che sono “ebrei non praticanti” (come di un cattolico non religioso diremmo che non è praticante); sono semplicemente ebrei. Questo postulato secondo il quale non ci sarebbe un popolo ebraico che includa a un tempo i fedeli e i non-fedeli deve ben avere una ragion d’essere. Esso consente ai gauchisti, che hanno sostenuto tanti movimenti di liberazione nazionale, di affermare che il sionismo non è paragonabile poiché non esiste una nazione ebraica. È un argomento comodo, ma questa caratteristica non è un valido motivo per avanzarlo.
La terza versione dell’antisionismo ebraico è al tempo stesso politica e religiosa. L’argomento religioso serve anche a spiegare il lungo periodo di diaspora. Secondo i suoi difensori, gli ebrei sono troppo buoni per la forma Stato. Una politica di sovranità esige una fermezza e una brutalità che s’intona meglio alle nazioni dei gentili. Segnati dall’alleanza del Sinai e da una lunga storia di spoliazione e di persecuzione, gli ebrei non possono, e non dovrebbero, tentare di imitare i gentili. Questa dottrina può apparire fi losemita, con la differenza, rispetto ad altre, che non possiede alcun fondamento empirico. Anche prima del 1948, gli ebrei sono sopravvissuti come nazione in ambienti per la maggioranza ostili utilizzando tutti i mezzi politici necessari, spesso con un’arte degna di nota.
La versione politica di questo argomento antisionista non è affatto più convincente: essa afferma che gli anni in cui sono stati privi di uno Stato hanno fatto degli ebrei i primi cosmopoliti. Gli ebrei sono sì un popolo, ma un popolo post-westfaliano. In anticipo sul resto del mondo, hanno trasceso lo Stato-nazione. Il sionismo rappresenterebbe dunque una regressione rispetto all’universalismo della diaspora.
La realizzazione sionista, lo Stato d’Israele, è una confutazione definitiva di questa definizione del popolo ebraico. Essa mostra che, se anche il cosmopolitismo è il programma di alcuni ebrei, non definisce tutti gli ebrei. Del resto, perché il cosmopolitismo dovrebbe essere un programma in primo luogo o soltanto per gli ebrei? Anche se certi ebrei si augurano di essere cosmopoliti, di rappresentare la luce delle nazioni o viceversa una luce contro le nazioni, perché tante persone di sinistra, non-ebree, non assumono il ruolo che riservano agli ebrei?
Conosco candidati migliori per una politica post-westfaliana. Che i francesi superino lo Stato-nazione! Sono loro, dopo tutto, a essere all’origine di questo intero affare, con la leva in massa del 1793, La marsigliese, il primo inno nazionale, la bandiera tricolore, la prima bandiera nazionale, e tutti i sermoni rivoluzionari. O i tedeschi, i danesi, i polacchi, i cinesi…
L’odio per lo Stato-nazione
Ed è questo il punto cruciale. La forma di sinistra più comune dell’antisionismo nasce, dicono i suoi difensori, dall’opposizione al nazionalismo e allo Stato-nazione. Questo fu, agli inizi della storia della sinistra, un argomento convincente e diffuso, sostenuto dagli ebrei stessi.
Rosa Luxemburg, ad esempio, parla con eguale disprezzo dei polacchi,degli ucraini, dei cechi, degli ebrei e delle «nazioni e delle mininazioni si annunciano da ogni parte e affermano il loro diritto a costituire degli Stati. Cadaveri putrefatti escono da tombe centenarie, animate da un nuovo vigore primaverile, e popoli “senza storia” che non hanno mai costituito entità statali autonome avvertono il bisogno violento di erigersi in Stati» (Tra guerra e rivoluzione [1918], trad. it. Milano, Jaca Book, 2019). La sola cosa che ammiro nel disprezzo della Luxemburg è il suo universalismo. Ebbene, è proprio questo che manca nel gauchismo contemporaneo dove il disprezzo è ben più circoscritto.
L’argomento della Luxemburg può applicarsi a una gran quantità di situazioni. La seconda metà del XX secolo ha visto la caduta degli imperi britannico, francese, sovietico e la creazione di più Stati-nazione di quanti la storia ne avesse conosciuti fino ad allora.
Alcuni gauchisti sognavano di trasformare i vecchi imperi in nuove federazioni democratiche, ma la maggior parte di loro ha semplicemente
approvato le creazioni post-imperiali – nel caso sovietico senza dubbio con un po’ meno entusiasmo –, a eccezione di una sola. Pensate a tutte le opportunità mancate di opporsi allo Statonazione! Perché sostenere il nazionalismo vietnamita, ad esempio, quandola giusta posizione rispetto al Vietnam, al Laos e alla Cambogia (i tremembri dell’Indocina francese) sarebbe stata in tutta evidenza la creazionedi uno Stato multinazionale? Perché la sinistra non ha difeso l’idea di un’Algeria che, all’interno della Francia, avrebbe dato a tutti i cittadini i diritti proclamati dalla Rivoluzione francese? Non lo ha fatto, e ha sostenuto il Fronte di liberazione nazionale (Fln) che ha creato uno Stato-nazione e ha pietosamente fallito nel garantire quei diritti. Mi ricordo l’entusiasmo della gente di sinistra per la Birmania di U Nu – oggi Myanmar –, esempio paradigmatico dello scacco del nazionalismo. La Birmania avrebbe dovuto costituire una provincia dell’India e riunire i buddhisti, gli indù e i musulmani all’interno di un solo Stato, ma nessuno, a sinistra, ha patrocinato questa soluzione.
I britannici hanno amministrato il Sudan “anglo-egiziano” prima che fosse liberato dal giogo imperiale; i due Paesi africani avrebbero allora dovuto essere uniti all’interno di un unico Stato. Perché i gauchisti non si sono opposti alla liberazione del Sudan? O alla scissione fra l’Eritrea e l’Etiopia? Perché non si sono appellati alla formazione di un solo Stato baltico invece della triade nazionalista formata da Lituania, Estonia e Lettonia?
Potrei prolungare l’elenco delle mie domande, ma la risposta è sempre la stessa. In tutti i casi, i popoli hanno scelto lo Stato-nazione: era questa l’opzione democratica, anche se non ha sempre condotto alla democrazia. La sinistra aveva dunque ragione di sostenere i vietnamiti, gli algerini e tutti gli altri. Ma allora, perché non gli ebrei? E perché, adesso che lo Stato ebraico esiste e che assomiglia più o meno a tutti gli altri Stati, è il bersaglio di una così singolare variante del disprezzo luxemburghiano?
Governo e Stato: Israele ieri e oggi
Le risposte più comuni all’ultima domanda sono le seguenti. In primo luogo, la creazione dello Stato d’Israele ha richiesto lo spostamento di 700 mila palestinesi. Israele è uno Stato di “occupazione coloniale”– come pressappoco tutti gli Stati, se risaliamo sufficientemente lontano nel passato; ma lasciamo da parte questo ragionamento, la storia recente è più istruttiva. Non c’è stato spostamento di arabi palestinesi negli anni Venti e Trenta del Novecento: malgrado la colonizzazione sionista, la popolazione araba è aumentata grazie alla natalità ma anche grazie all’immigrazione, essenzialmente dalla Siria (nel 1922, il primo censimento britannico contava 660.267 arabi; erano 1.068.433 nel 1940). E neppure vi è stato spostamento durante la Seconda guerra mondiale, in un momento in cui l’immigrazione ebraica era menoforte. La creazione dello Stato di Israele è stata proclamata nel 1947dapprima dall’Onu, in seguito a Tel Aviv nel 1948, prima dell’inizio dello spostamento su grande scala: l’idea secondo cui lo Stato “richiedeva”uno spostamento non può dunque essere corretta. È l’invasione del nuovo Stato da parte di cinque eserciti arabi che ha costretto
alla fuga un gran numero di arabi palestinesi (gli ebrei non fuggivano,non avevano un luogo dove andare) da un lato, all’espulsione di molti altri abitanti (gli ebrei non sono stati espulsi perché gli eserciti arabi hanno perso la guerra) dall’altro. Il dibattito sul rapporto tra coloro che sono fuggiti e coloro che sono stati espulsi è ancora vivo; le cifre sono importanti in entrambi i casi. Resta il fatto che il dibattito non esisterebbe se la guerra non fosse avvenuta, e vi sarebbero ben pochi rifugiati oggi nei campi. La Nakba [l’esodo palestinese del 1948, NdR]è una tragedia provocata da due attori, da due movimenti politici, e dai soldati delle due parti.
Cosa ne è delle fughe e delle espulsioni che avvennero altrove – in
particolare nel corso della creazione degli Stati moderni turco o pakistano?
È curioso che gli autori di sinistra non contestino la legittimità di questi Stati, anche quando criticano, come è giusto, le politiche dei loro governi (si contesta spesso la potenza del whataboutism [neologismo inglese più o meno equivalente a ciò che in italiano viene indicato come “benaltrismo”, NdR], ma io penso che costituisca una critica potente della cecità di uomini e donne che si indignano degli eventi che avvengono qui, dovunque si collochi questo qui, ma non manifestano interesse particolare per analoghi eventi che avvengono altrove. Mi sembra che si debba insistere su questo fenomeno.
Il secondo elemento spesso invocato per giustificare l’antisionismo è questo: Israele opprime i palestinesi, in Israele e nella Cisgiordania occupata. Questo è vero e i miei amici sionisti, in Israele, si mobilitano da anni per l’uguaglianza di tutti nello Stato e contro l’occupazione e il trasferimento dei coloni. Ogni critica severa del governo attuale mi sembra giustificata, e più è severa meglio è. Elenco qui sotto ciò che mi sembra importante dire a questo proposito, perché voglio essere riconosciuto come un difensore del sionismo e non come l’apologeta di ciò che viene compiuto in Israele oggi, o di ciò che si è fatto ieri, in nome del sionismo (i difensori del nazionalismo palestinese avrebbero interesse a fornire un elenco analogo delle patologie della politica palestinese).
– Gli arabi israeliani, cittadini di Israele, devono far fronte a numerose discriminazioni nella vita quotidiana, in particolare nell’ambito dell’alloggio e delle richieste di finanziamento per l’educazione e le infrastrutture.
– Adottando la legge «Israele, Stato-nazione del popolo ebraico»(19 luglio 2018), la Knesset ha alzato il dito medio verso i suoi cittadini arabi.Benché la legge non abbia conseguenze legali, prefigura una cittadinanza di seconda classe.
– La Cisgiordania è il teatro di una colonizzazione invasiva, di un’appropriazione di terre e di sorgenti, e di un governo militare senza
legge.
– I coloni si comportano da delinquenti violenti nei riguardi dei palestinesi,
senza subire effettive sanzioni da parte della polizia o dell’esercito israeliano.
– Il governo attuale incoraggia l’ostilità nei confronti degli arabi e ne fa una regola di governo; ha di mira la creazione di un solo Stato dominato da quella che sarà ben presto una minoranza ebraica.
Potrei proseguire l’elenco, ma quello che ho scritto basta a far comprendere il mio pensiero: le critiche di questo tipo non hanno niente a che vedere con l’antisionismo o l’antisemitismo. Si tratta di politiche governative, e i governi non fanno altro che governare gli Stati, non li incarnano. I governi vanno e vengono – almeno è quel che speriamo – mentre gli Stati si iscrivono nella durata per proteggere la vita comune dei loro cittadini, degli uomini e delle donne. Di conseguenza, criticare il governo d’Israele non dovrebbe comportare un’opposizione alla sua esistenza. È stato necessario opporsi con fermezza alla brutalità dei francesi in Algeria, ma non ricordo nessuna voce che mettesse in discussione l’esistenza dello Stato francese. Il trattamento brutale dei musulmani nell’ovest della Cina invoca la stessa fermezza, ma nessuno chiede l’abolizione dello Stato cinese (anche se, in pratica se non in teoria, la Cina è uno Stato-nazione dell’etnia han).
Alcuni, a sinistra, affermano che i lunghi anni di occupazione e il nazionalismo di destra del governo Netanyahu rivelano l’“essenza stessa” dello Stato ebraico. Questo argomento dovrebbe suonare strano alle orecchie di tutte quelle persone di sinistra che hanno imparato, molto tempo fa, dalle autrici femministe in particolare, che bisogna rinunciare agli argomenti “essenzialisti”. La lunga storia dell’interventismo degli Stati Uniti in America Centrale rivela l’“essenza stessa” degli Stati Uniti? Forse sono gli oppositori all’intervento e all’occupazione a essere più “essenziali”. Comunque sia, uno Stato ha davvero un’“essenza”?
Oggi molti a sinistra approvano il nazionalismo palestinese senza preoccuparsi del suo carattere “essenziale” e senza riflettere sul programma dei nazionalismi che chiedono, spesso esplicitamente, il grande
tutto: «Dal fiume al mare». Vi sono oggi, al governo d’Israele, ebrei sionisti che chiedono il grande tutto con analogo fervore. La sinistra dovrebbe dunque opporsi a entrambe le rivendicazioni con la stessa determinazione. Quanti, a sinistra, reclamano “uno Stato”, con pari diritti per gli ebrei e i palestinesi, direbbero senza dubbio che fanno esattamente questo, perché il loro programma sembra tradurre un disprezzo fermo del nazionalismo e dello Stato-nazione – fermo, sì, ma applicato a un solo caso.
In realtà, “uno Stato” significa l’eliminazione di uno Stato: lo Stato ebraico esistente. In che modo i partigiani di “uno Stato” hanno in mente di realizzare questo programma? Qual è il loro piano per distruggere lo Stato ebraico e il movimento nazionale che gli ha dato nascita?
E come vedono la disfatta del nazionalismo palestinese? A cosa assomiglierebbe questo nuovo Stato? Chi deciderebbe le politiche d’immigrazione (è la questione che ha fatto fallire il bi-nazionalismo immediatamente prima e dopo la Seconda guerra mondiale)? Infine, ed è l’esito più probabile, cosa accadrebbe se il nuovo Stato somigliasse al Libano di oggi? La storia recente del Medio Oriente e quelle di Israele e della Palestina mostrano che la coesistenza pacifica è una pia illusione. Anzi, nemmeno un’illusione.
Se si vuole permettere ai due movimenti nazionali di ottenere (o di mantenere) la sovranità cui aspirano, è sicuramente opportuno aggiungere uno Stato piuttosto che sottrarne uno all’equazione. La soluzione dei due Stati è forse anch’essa un’illusione – esiste in effetti dai due lati uno schieramento significativo di forze che vi si oppongono – ma l’idea è più realistica. Sappiamo, infatti, come creare degli Stati-nazione; abbiamo una lunga esperienza in materia. Non sappiamo come creare la comunità politica ideale che i partigiani dello Stato unico dicono di desiderare, ma non vogliamo – e non dovremmo volere – il genere di Stato che essi creerebbero, se lo potessero.
Edificare Stati-nazione, questa è la politica che la sinistra ha difeso nel periodo post-coloniale. La Jugoslavia è l’eccezione degna di nota: la maggioranza delle persone di sinistra si sono opposte alla creazione di sette nuovi Stati-nazione, preferendo a essi il regime tirannico che li aveva un tempo mantenuti uniti. E questa è un’ulteriore incoerenza:
se l’alternativa alla liberazione nazionale è la tirannia, la sinistra dovrebbe optare, e in genere ha optato, per la liberazione. È la scelta giusta, perché sappiamo che le nazioni hanno bisogno di Stati, non fosse altro che per proteggerle dall’oppressione straniera. Ne è prova la storia degli ebrei, o degli armeni, dei curdi, dei kossovari e dei palestinesi. Le inchieste mostrano che, in ognuna di queste nazioni, larghe maggioranze desiderano uno Stato per se stesse. E se gli altri lo vogliono, perché non gli ebrei?
L’antisionismo è una cattiva politica
Perché non il sionismo? Perché gli ebrei non sono un popolo; perché dovrebbero essere più cosmopoliti degli altri; perché lo Stato sionista ha avuto la sua quota di cattivi governi; perché nessuno dovrebbe avere uno Stato (anche se, in pratica, quasi tutti ne possiedono uno).
Possiamo trovare delle ragioni, ammissibili, a ognuna di queste affermazioni, ma il modo in cui sono avanzate oggi non manca di suscitare
sospetto. È possibile, talvolta probabile, che quanti le avanzano credano anche che gli ebrei siano stati responsabili della tratta degli schiavi, che le lobby sioniste controllino la politica estera americana (come ha sostenuto la deputata Ilhan Omar) e che i banchieri ebrei governino il sistema finanziario internazionale. Troppe donne e troppi uomini credono queste cose, a sinistra come a destra. Sono antisemiti o compagni di strada degli antisemiti, e il loro antisionismo è probabilmente strettamente legato al loro antisemitismo – anche se esistono ormai antisemiti pro-israeliani, ad esempio fra gli evangelici americani o fra i nazionalisti di destra in Europa dell’Est.
Gli uomini e le donne di sinistra devono essere vivamente critici, particolarmente nei confronti degli altri membri della sinistra che adottano queste vedute. È evidentemente più facile condannare gli antisemiti di destra e pretendere che l’antisemitismo non esista a sinistra.
Ma l’antisemitismo esiste a sinistra. Forse è vero che l’antisemitismo di destra è una minaccia più grande per il benessere ebraico, ma non bisognerebbe comunque sottovalutare la sua versione di sinistra. Detto questo, sono convinto che gran parte degli antisionisti e anche numerosi antisionisti di sinistra non credono alle favole antisemite.
Forse ignorano volontariamente cos’è il popolo ebraico, forse sono particolarmente preoccupati dallo Stato ebraico, forse alla fin fine non amano semplicemente gli ebrei (è quel che ha detto George Carey, l’ex arcivescovo di Canterbury, a proposito di Jeremy Corbyn).
Forse. Ma quando si parla di Israele nei dibattiti di sinistra, il vero problema è il sionismo, ed è dunque del sionismo che bisogna parlare. Per tutte le ragioni che ho fornito, quel che non va nell’antisionismo è l’antisionismo stesso. Che voi siate antisemiti, filosemiti o indifferenti al semitismo, l’antisionismo è una cattiva politica.
(Traduzione di Mario Porro)
Michael Walzer è uno dei più importanti teorici della politica viventi. Ha insegnato a lungo all’Institute for Advanced Study di Princeton, di cui è professore emerito di Scienze sociali. È considerato uno degli esponenti di spicco della corrente “comunitaria” del pensiero politico contemporaneo, assieme ad Alasdair MacIntyre e Michael Sandel. È autore dei fondamentali saggi Sfere di giustizia (1983) e Esodo e rivoluzione (1985) e di molti altri contributi sul pensiero politico moderno e contemporaneo. È anche condirettore della rivista «Dissent».