David Grossman: “Non scrivo più da maschio” La lezione di un grande autore: “Soltanto l’empatia può salvarci”
Wlodek Goldkorn 25 Ottobre 2019 Repubblica
È come se fossi incinto: una sensazione di felicità che si ha quando ci si accorge che una nuova vita alberga in te e che questa vita sta per venire al mondo”. David Grossman inizia così, con una confessione al femminile, questa conversazione: per dire di essere pronto a scrivere un nuovo libro. E forse non è un caso. Intanto, perché nei romanzi dello scrittore israeliano le donne hanno un ruolo chiave. Sono madri che rifiutano la notizia della morte del figlio militare (A un cerbiatto somiglia il mio amore), cercano addirittura di cambiare il passato (Che tu sia per per me il coltello), riescono a riportare l’amore nel cuore di un uomo che del rancore ha fatto la ragione della sua vita (Applausi a scena vuota). A tutto questo torneremo nel corso di questa intervista, concessa in occasione dell’uscita in Italia (con Mondadori) di La vita gioca con me. Un libro, tradotto da Alessandra Shomroni, che racconta tre generazioni di donne: una nonna, una figlia, una nipote. Ma poi, parlare con la voce femminile riflette l’immaginario e i sogni degli israeliani oggi. Grossman, nato a Gerusalemme nel 1954, sei anni dopo la fondazione dello Stato degli ebrei quindi, è come una specie di barometro che indica il tempo e la qualità dell’aria che si respira. Guardandolo dritto negli occhi (che con molta rapidità alternano espressioni di gioia con altre di una profonda tristezza, ma prevale la gioia), ma anche leggendo i suoi romanzi e libri per bambini, si percepiscono i desideri nascosti, le paure non dette, l’inconscio collettivo di Israele. Oggi fra Tel Aviv e Gerusalemme c’è un’atmosfera di grande incertezza: dopo due elezioni politiche in pochi mesi non si riesce a costituire un governo, mentre l’intera regione attorno sta diventando un luogo più pericoloso che mai, tra guerre vere e minacciate.
Così si assiste a una specie di ritorno o forse al bisogno di recuperare gli inizi della saga di un Paese. Una saga dove si mescolano il racconto della volontà dei pionieri, forti e sicuri di sé, con la narrazione dei sopravvissuti alla Shoah, timorosi perfino di sognare perché la notte portava indicibili incubi. In questa riscoperta delle fonti, mitiche e mitologiche, le donne hanno un ruolo centrale. Sono forti, talvolta soldatesse, ragazze che parlano e ridono a voce alta, non sempre hanno i bisogni dei maschi, e quando occorre, sparano. Si sente perfino la nostalgia di Golda Meir, a capo del governo nei primi Settanta, per anni considerata un pessimo politico e oggi rivalutata, se non nella storiografia, nei sentimenti della gente. In questo ritorno alle origini c’è anche l’immagine delle donne distrutte nel corpo e anima nella catastrofe europea e che una volta approdate qui, hanno tentato una guarigione. Ecco, le tre donne dell’ultimo romanzo di David Grossman sono forti, seppure siano reduci di esperienze estreme in Europa. Hanno sfiorato, direttamente o attraverso il racconto famigliare, la morte, conosciuto il sapore del tradimento e dell’abbandono. Ma alla fine vince la vita. La vicenda si basa su una storia vera. La nonna di La vita gioca con me è stata partigiana con Tito in Jugoslavia, poi prigioniera a Goli Otok, un’isola che fu una specie di gulag nell’Adriatico, infine membro di un kibbutz in Galilea e militante di Donne in nero, un movimento di israeliane e palestinesi che si oppongono all’occupazione. Ed è anche una donna che dopo aver perso la famiglia nella tragedia del Vecchio Continente, nel kibbutz ne crea un’altra e ne diventa il capo, matriarca indiscussa e leader inflessibile.
Lei, Grossman, è entrato nei panni femminili. Racconta i sentimenti più intimi di tre donne. Non ha avuto paura?
“Scrivere come se fossi tre donne, una 90enne, una 65enne e la terza 40enne è stata una sfida. Uno degli sforzi più grandi era introiettare il linguaggio di ciascuna delle tre. E non solo la lingua ma le loro emozioni. Ho voluto fare l’esperimento di far vivere dentro di me donne sofisticate, forti, intelligenti. Io scrivo perché voglio dare la voce a qualcosa dentro di me che non riesco a esprimere in nessun altro modo. Dentro ognuno di noi ci sono tante opzioni che non mettiamo in atto nella nostra vita quotidiana. Potrei forse da un giorno all’altro cominciare a comportarmi da donna? Penso di no. Mi guarderebbero male. E poi sono convinto che ognuno di noi porti dentro tante identità per così dire pietrificate, congelate. Talvolta più che uno scrittore mi sento un massaggiatore. Massaggio e accarezzo certe parti per scongelarle”.
Diciamolo, lei è un maestro di empatia. Tanto che anche quando parla di sé lo fa attraverso i protagonisti dei suoi romanzi. Lei abita davvero i corpi e le anime delle persone cui dà la voce e immagine. Ma poi queste persone del tutto inventate quella voce gliela restituiscono, come se fosse vera. Già in “A un cerbiatto somiglia il mio amore” lei entra nella testa e nella pancia di Ora, una donna ribelle, che rifiutando una notizia cerca di rifiutare il linguaggio e il sistema.
“Ci ho messo due anni e mezzo per capirla. Non riuscivo a raccontarla. Poi, all’improvviso ho compreso. Il mio errore era un errore da maschio, volevo che Ora si concedesse a me. E invece dovevo essere io ad aprirmi a lei. Il personaggio di Ora ha qualcosa di unico. Non è classificabile. In una società polarizzata come è quella israeliana, lei è una donna che talvolta parla come se fosse di destra, altre come una militante della sinistra. Forse questa capacità di vivere la contraddizione nella propria carne è una caratteristica femminile. Non saprei”.
Lo è. E infatti lei è così bravo a vivere nei personaggi che inventa e crea, perché è conscio come pochi altri che il mondo non è bianco o nero. Ma vorrei insistere. In fondo, da maschio, non ha paura di questa intimità femminile?
“Paura? No. Guardi, in tutti gli ambiti della vita si può essere un po’ codardi, ad eccezione della letteratura. Se sei vigliacco non sarai mai capace di scoprire qualcosa di nuovo, di darti a qualcosa o qualcuno che non conosci ancora, o diventare appunto persona di un genere diverso del tuo. Faccio un esempio: Nina”.
Aiutiamo i lettori. Nina è la figlia di Vera, la nonna di “La vita gioca con me”. Vera l’ha abbandonata quando era bambina, per restare fedele alla memoria del marito accusato, sempre in Jugoslavia, di essere un traditore. Vera è una donna che ha scelto di andare in prigione, di finire ai lavori forzati, incurante delle conseguenze sulla figlia. E così Nina, traumatizzata, una volta diventata adulta non riesce a trovare da nessuna parte un suo posto. E finisce per fuggire verso l’estremo Nord dell’Europa.
“Finisce oltre il circolo polare, a Svalbard, il luogo più estremo sulla faccia della Terra. Ci sono andato due volte. Ero in un paesino abitato da duemila persone e, attorno, tremila orsi polari affamati, che qualche volta attaccano gli umani, per cui per strada devi camminare armato o accompagnato da qualcuno con il fucile. Una notte, ho camminato solo e disarmato dal bar dove avevo cercato la compagnia di qualche persona fino alla pensione dove abitavo. Volevo sentire la paura. Volevo provare le emozioni di Nina. E giuro, ho avvertito gli artigli dell’orso sulla mia schiena, nella mia carne. Lei mi ha chiesto se ho mai temuto a causa delle cose che racconto: non mi è concesso aver paura, anche perché parlo di donne in rivolta e che si rifiutano di dare allo Stato il diritto di gestire la morte dei loro cari”.
Viene in mente la vicenda di suo figlio Uri, morto da soldato nella guerra in Libano nel 2006.
“Sì, sono un padre che ha perso il figlio. E da quel giorno, il mio cognome è lutto (lo scrittore usa il termine ebraico riservato ai genitori che hanno perso figli, shkol, ndr), ma dentro quel cognome “shkol”, congelato, generico, quasi da cliché, posso rivendicare il mio diritto a un nome che non sia il cognome. Posso muovermi liberamente e non in ubbidienza alle definizioni che mi dà il governo, il lessico militare, l’esercito. Io posso continuare a scrivere le mie storie”.
Lei come le donne dei suoi romanzi si rifiuta di essere una vittima ma rivendica allo stesso tempo il diritto al dolore. Dice, nella vita e nei libri, che il lutto non esclude il desiderio.
“In questo romanzo racconto le protagoniste che si rifiutano di essere vittime e che cercano di guarire la ferita che passa di generazione in generazione. E forse alla fine sono capaci di provare un sentimento che assomiglia al perdono e alla pietas. Smettono di incolpare l’una l’altra”.
Questo nel romanzo. E nella vita vera?
“Sono sempre stato affascinato dalla questione di colpevolezza. Per me la scrittura è un modo per capire una colpa primaria, una colpa di cui qualche volta ero complice”.
Sta dicendo una cosa che aveva intuito Primo Levi, la vergogna è anche quella del testimone.
“La colpa e la vergogna del testimone non è la stessa del carnefice. Però spesso siamo colpevoli perché non abbiamo impedito che qualcosa succedesse, anche se potevamo farlo. In Applausi a scena vuota c’è la storia di Dovale e di come il suo amico ha girato lo sguardo altrove, mentre a lui stava succedendo una cosa terribile. Così, noi qui in Israele. Io vivo in un luogo dove da 52 anni c’è l’occupazione e uno dei sintomi della malattia di cui soffriamo è che ci siamo abituati a girare lo sguardo altrove. Dobbiamo invece costringerci a guardare. Aggiungo un’altra cosa riguardo al ruolo del testimone. Io, nella vita, cerco un testimone empatico e penso che ognuno abbia il diritto a un testimone appunto che lo guardi con benevolenza”.
La benevolenza può guarire la ferita?
“Sotto la cicatrice la ferita resta. Ma parlando – e questo fanno le donne, in fattispecie quelle che io racconto – la carne sotto la cicatrice si fa più flessibile, meno rigida”.
Un’altra donna che lei racconta è Miriam del “Che tu sia per me il coltello”. Il titolo richiama le lettere che Franz Kafka ha scritto a Milena Jesenska. Miriam si mette nei panni di Milena e dice: “Fossi in lei, sarei andata a casa di Franz, lo avrei costretto a guardarmi dritto negli occhi”. Sembra che Miriam voglia cambiare perfino il passato. È una follia la sua, una volta si sarebbe detto una follia tutta femminile. Per noi maschi il passato è passato, si va oltre. Miriam invece pensa di riaprire il rapporto fra Milena e Franz. Ma leggendo quelle righe, ho pensato che in fondo quella è anche una sua follia, Grossman.
“Forse sì (ride)”.
Per lei cosa sono le donne nella vita, non nei romanzi?
“Posso dire che ho imparato molto dalle donne, dalle amiche, e tantissimo da mia moglie. I miei due grandi amici sono maschi, ma vedere il mondo solo con gli occhi del genere cui appartengo è limitativo e stupido. Non tutte le donne sono coraggiose e ricche d’animo. Ma io ho avuto la fortuna di aver incontrato nella vita donne sensibili, sagge, dotate di senso critico che mi hanno insegnato cose su me stesso. Grazie a loro capisco di più chi sono. Le mie lettrici migliori sono donne. E poi, le donne hanno il coraggio di esporsi al testo, anche a un testo estremo. I maschi invece vogliono solo vincere, o superare se stessi: e del resto in ebraico vincere, superare se stessi e maschio sono parole che hanno la medesima radice”.
Ancora una domanda. La nipote della Vera del romanzo è cineasta. Ma alla fine (e non facciamo spoiler) lei suggerisce che la parola è più importante dell’immagine, che in fondo la parola resta, l’immagine invece è provvisoria e volatile.
“Ne sono convinto. Ma vorrei aggiungere poche frasi su come è nato il libro”.
Prego.
“Un giorno, mi chiamò al telefono Eva Nahir-Panic, questo è il vero nome di Vera, per criticare un mio articolo che secondo lei non era sufficientemente duro con i coloni nei Territori occupati. E cominciò a raccontarmi la sua vita. La sua storia era quella di una ragazza ebrea borghese in Jugoslavia, che sposò un ufficiale serbo di origini contadine e si unì assieme al marito ai partigiani. Ma poi il suo uomo venne arrestato e morì in una prigione di Tito e lei finì ai lavori forzati a Goli Otok. Ogni settimana mi chiamava. Mi chiedeva se avrei scritto la sua storia. Dicevo che forse sì, ma che la sua storia sarebbe dovuta passare per il filtro della mia immaginazione. Un giorno sono andato a trovarla nel suo kibbutz. Lei raccontava e io, per una notte, un giorno e una notte ancora, scrivevo su un quaderno con la penna. Mi ha regalato la sua storia perché sapeva che avrei ascoltato anche quello che lei non ha detto. È morta quando aveva 97 anni. E mi manca”.
Wlodek Goldkorn