L’altra Israele contro Netanyahu
DAVID GROSSMAN
REPUBBLICA 17 SETTEMBRE 2020
Nel Libro di Osea leggiamo: “Poiché costoro seminano vento, e mieteranno tempesta“. Per quasi dodici anni Benjamin Netanyahu ha seminato vento. Un vento malvagio, aberrante. Ora, nei giorni della pandemia, i risultati sono chiari: Israele è un Paese diviso e disorientato, sfiduciato nei confronti della sua leadership e di se stesso e facile preda del turbine del coronavirus.
Tiro a indovinare: se gli israeliani dovessero rispondere onestamente alla domanda “cosa vi augurate per il nuovo anno?”. A parte, ovviamente, la salute, immagino che molti di loro, inclusi i sostenitori di Netanyahu, risponderebbero semplicemente: una vita stabile, tranquilla, sicura, in cui non vi sia corruzione e si percepisca la presenza di un governo, della legge. Immagino inoltre che molti si augurerebbero anche un primo ministro (uomo o donna) che anziché essere un “mago” (come spesso viene definito Netanyahu), si occupi di questioni di stato e cerchi con tutte le sue forze di curarne le ferite.
Questo è ciò che augurerei io a tutti noi: una vita cristallina. La augurerei anche a Benjamin Netanyahu, da uomo a uomo. A volte mi chiedo se lui ricordi ancora la sensazione di una vita simile. Se ci sia ancora un posto nella sua esistenza in cui non finga, in cui sia cristallino, libero. Da anni ci ha abituati al fatto che quasi tutto ciò che tocca, in qualche modo, si intorbidisce, si aggroviglia in interessi celati, tortuosi, o ha un doppio fondo. L’ho guardato circa due settimane fa quando, riferendosi all’assassinio di Yaakub Abu Al-Kyan, ha gridato: “I cittadini di Israele pretendono di sapere la verità!” e ho pensato alle taglienti parole del profeta Isaia: “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!”
Indubbiamente Netanyahu è un oratore fantastico, un arringatore straordinario. Questa settimana ha pure conseguito un grande e importantissimo risultato politico che potrebbe influire sulle posizioni di altri Paesi della regione. E allora perché così tanti israeliani si sentono stranieri ed esiliati nel proprio Paese? Perché così tanti di noi avvertono un continuo senso di soffocamento, faticano a respirare? Forse perché oggi siamo sedati e ventilati. Siamo un’ottima materia prima atta a qualsiasi manipolazione, un materiale morbido e flessibile con cui modellare la dittatura “pseudo democratica” che Netanyahu sta instaurando. Per questo motivo il movimento di protesta contro di lui è un’incoraggiante – ed essenziale – ventata di aria fresca. A un tratto echeggiano parole chiare, assertive, che trafiggono il rimbombo capzioso di quell’-Io-Io-Io che ci sommerge da anni. La protesta fa rinascere in noi un senso di benessere e, dopo anni di bugie ed esagerazioni, risuonano finalmente parole di verità.
È vero, i manifestanti appartengono a gruppi diversi e talvolta slegati fra loro, hanno una leadership frazionata e ancora arrancano alla ricerca di una direzione. Ma proprio in questo sta la loro forza, in questa goffaggine, nelle energie di chi deve scrollarsi di dosso il senso di soffocamento, nel ringhio che, corroborato da argomentazioni razionali, efficaci e ben formulate, sale prepotentemente di tono. Netanyahu accusa i manifestanti (e la sinistra e i media e la procura e l’opposizione e chi no…), di essere ossessionati dallo slogan “Chiunque, ma non Bibi”. In realtà lui stesso si è trasformato in una specie di ossessionato, di “posseduto” che stringe in una morsa un intero Paese impotente e quasi apatico dinanzi al suo egoismo aggressivo, alla sua corruzione. Un Paese che per anni, risucchiato nel vortice di Bibi, si è occupato di lui, della sua famiglia, dei suoi capi d’imputazione. È come se, intorno a noi, ci fossero mille specchi e tutti riflettessero l’immagine di Netanyahu e, quando li guardiamo, vediamo lui, non noi. Ma poiché vorremmo tornare a rivedere il nostro riflesso, poiché siamo preoccupati per Israele e abbiamo la sensazione che il miracolo che lo ha creato e la solidarietà che lo ha mantenuto saldo stiano svanendo, manifestiamo ogni settimana davanti alla residenza ufficiale del premier a Gerusalemme, davanti alla sua casa a Cesarea e su 315 ponti e crocevia in tutto il Paese.
E continueremo a farlo. Continueremo a gridare, a urlare: Bibi vattene! Esci dalle nostre vite, vai per la tua strada e lasciaci ricostruire sulle macerie che ti lasci alle spalle. L’intera società israeliana ha bisogno di riprendersi da un lungo periodo in cui ha smarrito il buonsenso. Vorrei potessimo tornare ad apprendere alcuni principi fondamentali: l’essere diversi gli uni dagli altri senza odiarci, l’avere opinioni contrastanti senza manifestare malignità, l’essere capaci di spegnere l’ostilità e il sospetto che si accendono nei nostri occhi quando guardiamo chi (i nostri fratelli, sangue del nostro sangue) la pensa diversamente da noi.
Sarà un processo lungo e complicato perché il guasto è già filtrato nelle pieghe più recondite di Israele. Ma una cosa è chiara: non potremo iniziare questo processo di guarigione fintanto che Netanyahu rimarrà al potere. Lui non porrà rimedio a nulla. Anzi. Un’eventuale prosecuzione del suo governo pregiudicherebbe la possibilità di un risanamento e condannerebbe Israele a un ulteriore deterioramento. Anche l’ipotesi di un provvedimento di interdizione temporanea dalla carica di primo ministro evoca un tipo di interdizione più profondo intrinseco in Netanyahu: lui non è in grado di risanare laddove Israele ne ha più bisogno. Semplicemente non lo è. Chi gli è stato vicino testimonia che non presta mai ascolto. È distaccato dalla realtà e vive, a tutti gli effetti, in uno spazio in cui esistono soltanto lui e i suoi interessi. Esternamente può mostrare – od ostentare con fantastica abilità – potere, aggressività, sicurezza di sé e una sorta di compassionevole e paterna preoccupazione per i suoi sudditi. Senza dubbio gli piace considerarsi un “padre della nazione”. Ma è un padre manipolatore, cinico, sfruttatore e utilitarista.
No, nonostante tutti i suoi sforzi è impossibile percepire in Netanyahu qualità taumaturgiche, terapeutiche. A dire il vero non è nemmeno possibile percepire in lui un sentimento di autentica compassione per i bistrattati israeliani che lui stesso, con il suo operato e i suoi fallimenti, ha fatto precipitare nella situazione in cui si trovano. Perciò, ormai da tempo, non è più questione di “Sì Bibi” o “No Bibi”. È una lotta contro il disfacimento, a favore di una riparazione. Contro la malattia, a favore di un risanamento. Contro la disperazione, a favore della speranza. E in questa lotta ognuno deciderà quale posizione prendere. Buon anno nuovo.
Traduzione di Alessandra Shomroni