Esodo moderno, perché la popolazione ebraica europea è diminuita del 60% negli ultimi 50 anni
Simone Benazzo Linkiesta 7 Novembre 2020
Oggi risiede nel Vecchio Continente solo un ebreo su dieci, come nel XII secolo. Una ricerca fotografa il declino demografico di una delle più antiche comunità etnico-religiose
L’Institute for Jewish Policy Research (Jpr) di Londra ha pubblicato uno studio dedicato alla situazione demografica degli ebrei europei, curato dai professori Sergio Della Pergola, nato a Trieste durante l’occupazione tedesca (1942), e Daniel Staetsky.
Il report illustra la costante riduzione del numero di ebrei verificatasi a partire dal secondo dopoguerra in quasi tutti gli Stati europei, includendo nel novero i 27 Ue, i paesi dell’ex Unione sovietica (tre baltici esclusi) e tutti quelli che non rientrano in queste due categorie, come il Regno Unito.
La ricerca inizia sottolineando che, poiché fenomeni come la crescita dell’estremismo di destra e di sinistra e la comparsa della minaccia islamista hanno portato alla diffusione di razzismo e xenofobia, è aumentata in parallelo anche la declinazione di questa ostilità popolare verso le minoranze che colpisce gli ebrei, l’antisemitismo. Osservazione che riecheggia le conclusioni di un approfondito studio sul tema pubblicato nel 2018 dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali.
Anche il futuro di questa longeva comunità europea dipende così dalla tenuta geopolitica dell’Ue e dalla resilienza che essa saprà opporre a estremismi e autoritarismi di sorta. Come sintetizzano le conclusioni, “gli ebrei d’Europa andranno dove andrà l’Europa”.
Gli ebrei, minoranza senza terra, hanno infatti sempre sostenuto storicamente la creazione di strutture multinazionali non esclusive e non vincolanti culturalmente. il genere di entità politico-amministrative dove più hanno potuto prosperare e integrarsi, grazie alla tolleranza de facto garantita dalle autorità. Coerentemente, anche oggi tendono a essere più europeisti dei loro connazionali, soprattutto oltrecortina. Se nei paesi dell’Europa occidentale soltanto una fascia compresa tra l’8% e il 21% si sente “molto attaccata all’Ue”, comunque superiore alle medie nazionali, in Europa centro-orientale – Ungheria e Polonia – questa adesione è invece vistosamente più marcata. Quasi la metà degli ebrei ungheresi e polacchi si definisce “molto attaccata all’Ue”, contro medie nazionali inferiori al 20%.
Si stima che oggi in Europa vivano circa 1,329,400 milioni di ebrei: 788,800 (il 59%) nei 27 paesi Ue, 210,400 (il 16%) in paesi ex sovietici (baltici esclusi) e 330,220 (25%) in paesi terzi – quasi tutti nel Regno Unito (90%).
Tra questi si contano circa 70 mila cittadini israeliani, distribuiti perlopiù tra Regno Unito (18 mila), Germania (10 mila), Francia (9 mila) e Paesi Bassi (6 mila).
Il calcolo è notevolmente influenzato dalla scelta tassonomica, in quanto ci sono vari modi di delimitare il concetto di “ebreo”. Le stime menzionate considerano solo il cosiddetto “nucleo della popolazione ebraica”, cioè le persone che si auto-identificano come ebrei per religione, etnia o cultura. Ma includendo per esempio i possibili beneficiari della Legge del ritorno – la norma che garantisce la cittadinanza israeliana a chiunque possa dimostrare di aver madre ebrea o di essersi convertito all’ebraismo, e non praticare alcun altro culto – il totale arriva a 2,820,800, più del doppio degli ebrei europei identificati tramite la concettualizzazione più riduttiva.
Un divario così cospicuo tra le due cifre si spiega con il fatto che centinaia di migliaia di individui, specialmente in Europa centro-orientale, non si definiscano “ebrei” tout court, verosimilmente perché assimilati o perché timorosi di subire ritorsioni, ma potrebbero rivendicare ascendenze ebraiche.
Un ulteriore problema nomenclaturale, inoltre, riguarda i fondamenti di questa auto-definizione. Nei paesi post-comunisti prevalgono i criteri di etnia e cultura, mentre in Europa occidentale – pur con differenze tra i vari paesi – è la religione il principale tratto distintivo. A Est si è quindi etnicamente o culturalmente ebrei, a ovest lo si è perlopiù per credo.
Conteggiando solo gli individui che compongono il “nucleo della popolazione ebraica”, l’attuale proporzione di ebrei europei (9%) sul totale della popolazione ebraica mondiale è paragonabile a quella (12%) stimata nel 1170 da Beniamino di Tudela, antesignano di Marco Polo. E oggi come allora gli ebrei rappresentano meno dello 0.5% della popolazione europea.
La presenza demografica degli ebrei in Europa, insomma, è tornata ai livelli del XII secolo, dopo aver vissuto una crescita pressoché costante fino al primo Novecento.
Nel 1880 nel Vecchio continente viveva l’88% degli ebrei mondiali, suddivisi tra Europa centro-orientale (75%) e Europa occidentale (13%). Mezzo secolo più tardi (1939), nonostante l’emigrazione in massa verso il Nuovo Mondo, gli ebrei europei costituivano ancora la maggioranza assoluta (58%). Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il nostro continente ospitava più di diciassette milioni di ebrei, un numero vicino all’attuale popolazione dei Paesi Bassi.
Nel 1945 saranno undici. La Shoah estirperà quasi interamente le comunità ebraiche di alcuni Stati, principalmente in Europa orientale e nei Balcani. Un trauma collettivo di questa portata renderà impossibile a gran parte dei sopravvissuti e dei loro discendenti sentirsi di nuovo sicuri e accettati nei territori che erano abituati a considerare la propria patria, invogliandoli a emigrare non appena si fosse presentata l’occasione propizia. Che arriverà tre anni e una settimana dopo la resa della Germania nazista. Il 14 maggio del 1948 David Ben-Gurion fonda lo Stato di Israele.
La nascita dello Stato ebraico è stato il primo evento geopolitico post-Seconda guerra mondiale a plasmare radicalmente le traiettorie demografiche degli ebrei europei. Ha agito fin da subito da catalizzatore per gli ebrei di tutto il mondo, ma in particolar modo per quelli europei, traumatizzati dalla Shoah. Tra 1948 e 1968 circa 620 mila ebrei abbandonarono l’Europa orientale; mezzo milione di loro si trasferì in Israele.
Tuttavia, il calo della popolazione ebraica nell’Europa comunista (-22%) venne in parte contemperato dall’aumento di quella in Europa occidentale (8%), principalmente a causa della disgregazione degli imperi coloniali.
La decolonizzazione è stato infatti il secondo degli eventi destinati a stravolgere le vicende umane e collettive degli ebrei del nostro continente.
Il graduale ritiro soprattutto della Francia dai possedimenti coloniali in Africa settentrionale e Asia, ma anche quelli di Regno Unito, Italia, Belgio e Paesi Bassi, fu nefasto per gli ebrei residenti – a volte da secoli – in queste colonie extra-europee. Non solo, avendo sovente svolto la funzione di intermediari sociali ed economici tra potenza occidentale occupante e popolazione locale, gli ebrei furono reputati collusi con gli invasori, ma dopo l’esplosione dei conflitti arabo-israeliani iniziarono a venir sempre più identificati con Israele, il nemico numero uno delle popolazioni arabo-musulmane. Sottoposti a intimidazioni e soprusi continui, molti di loro scelsero di emigrare, spesso nelle metropoli europee, rimpinguando le comunità ebraiche di questi paesi decimate dalla Shoah. A partire dagli anni ‘50 la Francia da sola accolse oltre 250 mila ebrei, provenienti perlopiù dal Maghreb ex-francese.
Un terzo evento è stato però quello più determinante nell’epopea degli ebrei d’Europa: il collasso del sistema comunista nel biennio 1989-91. Già a partire dai tardi anni ‘60, alcuni minimi allentamenti dei divieti imposti dal potere sovietico avevano permesso a molti ebrei di lasciare il paradiso dei lavoratori ed espatriare (solitamente in Israele). Il crollo del Muro di Berlino innescò però un esodo ingente, trascinatosi anche per i tre decenni successivi. Tra 1969 e 2020 più di 1,8 milioni di ebrei hanno lasciato la metà (post)comunista del continente.
In termini percentuali, nell’ultimo mezzo secolo l’Europa ha perso il 59% della propria popolazione ebraica: solo il 9% di quella rimasta in Europa occidentale, ma l’85% di quella dell’Europa orientale.
Se il picco dell’emorragia demografica si è avuto negli anni ‘90, ancora negli ultimi due decenni circa 335 mila ebrei europei sono trasmigrati in Israele, quasi due terzi dei quali dalle sole Russia e Ucraina. Secondo gli autori del report, si sarebbe ora in una fase di assestamento: la stragrande maggioranza (84%-92%) degli ebrei che abitano in Europa ha in programma di rimanerci. Tuttavia, anche qualora l’emigrazione cessasse, le comunità ebraiche europee potrebbero comunque assottigliarsi a causa di altri fattori – aumento dei matrimoni misti, assimilazione, progressivo invecchiamento.
Gli ebrei non sono fuggiti dai paesi del Patto di Varsavia solo per le motivazioni che hanno spinto migliaia di concittadini a compiere la stessa scelta dopo il Crollo del Muro di Berlino: salari più alti e benessere a Ovest, polverizzazione dello Stato sociale e insicurezza generalizzata in patria. Come testimoniano le opere di Vasilij Grossman, l’antisemitismo era molto diffuso anche in Unione sovietica. E non ne soffriva solo il popolino, bensì anche l’intelligentia e le alte sfere, si veda il cosiddetto “complotto dei camici bianchi” scatenato da Stalin poco prima di morire.
Un’interpretazione storiografica grossolana – opposizione dicotomica e irriducibile tra nazisti persecutori degli ebrei e sovietici liberatori dei lager – e le scorie della martellante retorica sovietica dell’amicizia tra i popoli, con cui il regime tentava di negare le tensioni interetniche e la xenofobia latenti nella popolazione, sono tra i fattori che hanno contribuito a occultare questa pagina ingloriosa. Iniziative propagandistiche come la tragicomica vicenda dell’Oblast’autonoma ebraica poco riuscirono a scalfire il radicato antisemitismo cui indulgeva così volentieri anche l’homo sovieticus.