Ebraismo, sionismo e antisemitismo nella stampa socialista italiana
Dalla fine dell’Ottocento agli anni sessanta
A cura di Mario Toscano – Marsilio editore
Nel corso di un secolo il rapporto tra il socialismo italiano e il mondo ebraico è stato molto intenso. I grandi momenti dell’esperienza ebraica dell’età contemporanea hanno costituito materia di riflessione e di analisi della stampa socialista. L’affaire Dreyfus e la nascita dell’antisemitismo politico in Europa, le origini del sionismo e le vicende dello Stato d’Israele, la politica razziale fascista e la shoah, la partecipazione degli ebrei ai movimenti rivoluzionari e l’antisemitismo nell’Unione Sovietica hanno costituito problematiche di grande rilievo per la cultura e la politica del socialismo italiano.
I saggi di M. Gabriella D’Amore, Filomena Del Regno, Luca La Rovere, Alessandra Tarquini, Mario Toscano ricostruiscono le cronache, le immagini, le interpretazioni fornite su questi temi dai principali organi della stampa socialista italiana dalla fine dell’Ottocento agli anni sessanta. Sullo sfondo delle vicende politiche, si delinea il rapporto tra due culture e due identità, emerge il ruolo svolto dal socialismo nella costruzione dell’immagine degli ebrei nella società italiana, si chiarisce il contributo offerto per rendere l’esperienza storica dell’ebraismo contemporaneo una componente essenziale di una società democratica.
L’Introduzione: I confini dell’identità di Mario Toscano definisce i criteri della ricerca che, sia pure limitatamente al caso italiano, si poneva l’obiettivo di collegare l’esperienza storica del socialismo con quella dell’ebraismo in età contemporanea, per cogliere le interazioni verificatesi tra i due “mondi” di fronte a complesse vicende politiche, ideologiche, culturali, economiche e sociali e nel quadro dei processi di integrazione degli ebrei nello Stato nazionale.
L’indagine della stampa è incentrata sullo studio dell’“Avanti”, integrato dall’analisi di “Critica Sociale”, per la funzione storica svolta nel rappresentare la “cultura” del socialismo riformista in Italia e di “Mondo Operaio”, per il ruolo culturale e politico dispiegato nel secondo dopoguerra.
L’indagine mostra il tentativo di sfuggire agli stereotipi e alle descrizioni generiche e impressionistiche per proporre alcuni dati concreti di riflessione. I temi della ricostruzione del contributo dei singoli ebrei alla storia del socialismo in Italia e quello delle presunte o eventuali affinità ideologiche tra ebraismo e socialismo, spesso legati al peso di suggestioni provenienti dall’attualità politica, appaiono intrisi di ambiguità, che devono essere pazientemente dissipate, per evitare il rischio di accedere a interpretazioni storicamente generiche o fuorvianti.
Il saggio di Filomena Del Regno, intitolato L’antisemitismo e il sionismo nelle cronache e nelle analisi dell’”Avanti” (1897-1920), copre un lungo periodo in cui vengono riportati i fatti e i movimenti accaduti in Europa, in particolare in Francia con l’affaire Dreyfus e nell’Impero Russo.
Oltre alla cronaca, l’”Avanti” dedicò grande attenzione alla denuncia e all’analisi dell’antisemitismo, considerato uno strumento nelle mani delle forze reazionarie oltre che in Francia, in Austria, Ungheria, Romania e nella Russia zarista. Ugualmente meritevole di considerazione è lo spazio dedicato alle vicende del proletariato e del movimento operaio ebraico dell’Europa orientale.
L’ebreo per i socialisti italiani è l’ebreo capitalista, emancipato e borghese, ma anche l’ebreo rivoluzionario, il proletario appartenente ad una massa sfruttata. Il significato del movimento antisemita appare ambivalente. In occidente è strumento di lotta per motivi economici, e questa è la spiegazione che l’”Avanti” tentò di fornire, mentre in oriente l’antisemitismo assumeva caratteri medievali di barbara caccia all’untore, al vampiro.
Il quotidiano non si occupava dell’ebraismo italiano, sia per l’esiguità numerica sia per l’integrazione raggiunta dagli ebrei. Il progetto sionista suscitava diffidenza e critica: il fenomeno nazionalista ebraico mal si conciliava con l’ideale socialista internazionalista. Grazie al contributo di alcuni intellettuali ebrei queste diffidenze verranno chiarite.
L’affaire Dreyfus, con tutte le sue implicazioni politiche e mediatiche, venne ampiamente trattato per diversi anni dall’”Avanti”. Il J’accuse di Emile Zola fu secondo Claudio Treves un atto rivoluzionario da parte di un bravo borghese teso all’affermazione della verità e della giustizia contro l’alleanza clerico-militarista. In un articolo apparso nell’agosto del 1899 dal titolo Socialisti e antisemiti si affermava che l’antisemitismo non era un’idea ma il brigantaggio, e gli antisemiti non erano un partito, ma una banda di malfattori e concludeva dicendo che il socialismo avrebbe salvato in Francia la civiltà contro la barbarie gesuitico-antisemita per istaurare la democrazia egualitaria della gente del lavoro. E la borghesia sana e intelligente guardava al proletariato socialista come al salvatore.
Nello stesso periodo altri drammatici fatti di antisemitismo venivano ampiamente documentati dall’”Avanti”, come il caso del sindaco antisemita di Vienna Lueger che nel 1897, appena eletto, si recò in Vaticano, o come la situazione in Algeria. Sul massacro di Kishinev, come pure sui successivi pogrom di Gomel, Odessa, Kiev, Bielostock, il quotidiano socialista assunse una posizione netta di denuncia della ferocia antiebraica nella Russia zarista, con la funzione politica ben definita di deviare lo scontento e la ribellione popolare verso l’ebreo. Il propagarsi della Rivoluzione vedeva secondo l’”Avanti” gli ebrei in prima fila, grazie anche all’attività del Bund.
In occasione dell’appello contro lo zarismo lanciato nel 1906 da Bureau Socialiste International Riccardo Momigliano commentava le vicende russe e spiegava che l’essenza dell’ebraismo era il messianesimo, la tendenza incoercibile all’idealismo; egli sosteneva che accanto agli scaltri ebrei che traevano profitto ovunque, c’erano gli ebrei spiritualmente affini ai grandi idealisti e spettava proprio a loro impedire che alcuni correligionari commettessero l’infamia di sostenere finanziariamente lo zarismo.
Anche i disordini antisemiti in Romania furono oggetto in quegli anni di attente corrispondenze ed analisi dell’”Avanti”. Qui il conflitto era sia economico tra i contadini ed il capitalismo agrario accentratore e sfruttatore dei proprietari ebrei, sia lotta di religione.
Particolarmente pesante era l’antisemitismo in Polonia, dove gli ebrei erano il 40% della popolazione. Iniziata la guerra nel 1914 i polacchi accusavano gli ebrei di essere filoaustriaci e gli antisemiti ricorrevano a leggende medievali. La questione ebraica era vista per la prima volta come un problema di una nazionalità oppressa sotto il regime russo e ugualmente perseguitata sotto il regime tedesco, allo stesso modo del popolo polacco. Questo principio era sostenuto da Raffaele Ottolenghi, che affermava che dalla guerra doveva emergere il principio di cooperazione politica ed economica in ogni Stato tra le varie nazionalità, pur conservando la propria identità spirituale. A favore dell’assimilazione ebraica si era invece espresso Arturo Labriola, in netto contrasto con Ottolenghi.
Il 3 novembre 2016 l’”Avanti” pubblicò un intervento di Massimo Gorki in difesa di tutte le nazionalità presenti in Russia, che avrebbero dovuto unire le proprie forze contro un nemico molto astuto che additava l’ebreo come responsabile di tutte le sciagure del popolo russo.
Nel giugno del 1917 l’”Avanti” annunciava che la rivoluzione aveva abrogato la legislazione eccezionale e aveva restituito a 6 milioni di ebrei il diritto di cittadinanza e l’uguaglianza davanti alla legge e alla società. Nell’articolo gli ebrei erano considerati una classe e la questione dell’autonomia della cultura si risolveva applicando il principio della libertà: “autonomia della nazionalità ebraica nei riguardi delle altre nazionalità ed autonomia del cittadino nei riguardi della sua nazionalità”. Così la rivoluzione garantiva la libertà nazionale e le libertà individuali.
L’ipotesi sionista fu oggetto di intense discussioni tra i socialisti. Importante fu il contributo di alcuni intellettuali ebrei, come Felice Momigliano, che descriveva il sionismo come un fattore di rinnovamento dell’ebraismo e come un movimento del proletariato ebraico oppresso. Momigliano non credeva che il sionismo fosse un rimedio all’antisemitismo e distingueva l’antisemitismo orientale da quello occidentale, che aveva radici economiche.
Col passare degli anni l’inconciliabilità tra l’ideale socialista e il sionismo appariva sempre più netta. Angelo Treves analizzava la questione ebraica nella sua complessità, che la guerra aveva acuito. Non si trattava di dare un’esistenza politica a una delle tante entità geografiche, il popolo ebraico non era un’entità etnica, non aveva comunanza di origine, di lingua e tantomeno di aspirazioni. Nel 1917, in seguito della dichiarazione Balfour, l”Avanti” espresse un giudizio di totale dissenso dei socialisti italiani verso la soluzione sionista della “questione ebraica”. Per Treves la missione del popolo ebraico era ormai conclusa; aveva insegnato il monoteismo e attraverso il cristianesimo aveva diffuso la filosofia della libertà e dell’uguaglianza; dopo la dispersione era stato il protagonista della protesta contro le ingiustizie sociali e del progresso. La storia dei popoli andava avanti, “il regno d’Israele è morto: non si resuscitano i morti!”
All’inizio del 1920 lo scontro tra i sionisti italiani e l’”Avanti”, critico verso la presenza di elementi borghesi tra le file sioniste, portò alla precisazione da parte di Dante Lattes sul ruolo del movimento sionista alla soluzione del problema ebraico senza prendere posizioni politiche.
L’analisi di Luca La Rovere nel saggio Fascismo, “Questione ebraica” e antisemitismo nella stampa socialista, un’analisi di lungo periodo: 1922-1967. affronta un arco temporale ricco di grandi avvenimenti storici e politici.
L’avvento del fascismo ridusse l’”Avanti” ad operare in condizioni sempre più difficili, con la denuncia tenace della violenza antiproletaria e della legislazione liberticida.
La questione ebraica veniva affrontata quasi esclusivamente con lo sguardo rivolto alla situazione degli ebrei nell’Europa orientale, dove il socialismo era visto come l’unica speranza di redenzione ed emancipazione del proletariato ebraico mentre il sionismo era considerato come una perniciosa forma di nazionalismo, incompatibile con l’internazionalismo proletario.
Nel 1923 il leader socialista riformista Claudio Treves sul periodico “La Giustizia” indicava l’antiebraismo fascista come disegno di esclusione sistematica dalla vita nazionale. Nel 1928 “La Libertà” scriveva che il fascismo stava regalando “quell’altra schifosa piaga di cui finora era gloria l’Italia essere stata immune: l’antisemitismo”.
Nel 1931 Filippo Turati, denunciando l’accordo tra lo Stato fascista e la Chiesa, accese una dura polemica con il rabbino Angelo Sacerdoti, che sosteneva la piena soddisfazione dell’ebraismo italiano per la recente legislazione sui culti ammessi. Come Treves, anche Turati collegava la restrizione dell’autonomia ebraica alla logica totalitaria del regime e invitava gli ebrei ad unirsi ai socialisti contro il fascismo e le forze della reazione a difesa dei valori della libertà.
La posizione dei socialisti riformisti sull’antisemitismo non era condivisa dalla frazione massimalista, che continuava a interpretarlo come strumento ideologico utilizzato dalla borghesia per creare conflitti artificiali, sottovalutando antisemitismo fascista.
Nel 1934 l’arresto di alcuni appartenenti al movimento “Giustizia e Libertà”, molti dei quali di origine ebraica, fornì il pretesto alla stampa fascista per lanciare una campagna di stampa contro gli ebrei, assimilati all’antifascismo e quindi all’antinazione.
L’”Avanti” massimalista si chiese se l’iniziativa era un segnale che Mussolini intendeva seguire la strada di Hitler ma in realtà l’antisemitismo improvvisamente agitato dal duce era un “volgarissimo ricatto” contro certa alta banca israelita per ottenere prestiti di cui aveva bisogno.
La posizione massimalista non mutò neppure in occasione della promulgazione delle leggi razziali del 1938; secondo l”Avanti” Mussolini intendeva sfruttare la campagna contro gli ebrei per proclamarsi nemico del capitale e amico del popolo. La persecuzione non meritava attenzione secondo i massimalisti, che consideravano gli ebrei italiano capitalisti e fascisti della prima ora. L’”L’Avanti” scriveva: “Noi pensiamo che l’antisemitismo non aumenterebbe né diminuirebbe i torti del fascismo, per il fatto di estendere ad altri 40 mila italiani (ebrei) le persecuzioni di cui sono vittime 35 milioni di proletari”. L’antisemitismo, estraneo alla popolazione, era considerato un affare interno alla borghesia italiana.
Diversa la posizione riformista, anche grazie alla collaborazione di Guido Lodovico Luzzatto con l’organo del partito socialista unificato, pubblicato prima a Zurigo, poi a Parigi con il titolo de “Il Nuovo Avanti”. Il giovane esule antifascista seppe comprendere, a pochi mesi dall’ascesa al potere di Hitler, la distinzione tra l’antisemitismo ideologico del nazismo e quello fascista. Il nazismo con la persecuzione razziale escludeva per principio dallo Stato quasi due milioni di cittadini sulla base di un odio dichiarato e inconciliabile.
Gli eventi del 1938 portarono Luzzatto a collegare la svolta antisemita in Italia e la campagna razziale avviata dal regime con la guerra in Etiopia, e a rimarcare il cinismo di Mussolini nel tradire i molti ebrei che avevano aderito al fascismo e nel cacciare gli ebrei stranieri che aveva accolto, in spregio a tutti i principi del diritto internazionale. Colpiva la passiva accettazione da parte del paese della svolta antiebraica, in particolare da parte delle sue élite culturali, senza che si levasse alcuna protesta di professori e accademici. Luzzatto commentò: “maturata non è un’antipatia italiana per gli ebrei, ma lo sprofondamento più in basso, delle coscienze nell’avvilimento, nell’abbiezione”.
In più occasioni il giornale espresse la propria solidarietà nei confronti dei perseguitati, dichiarando offensiva per la coscienza d’ogni uomo civile la persecuzione senza una sola giustificazione contro gente per nulla colpevole, se non di essere nata per caso da genitori ebrei.
“Il Nuovo Avanti” definì “leggi del disonore” i provvedimenti che avevano introdotto il razzismo nella legislazione dello Stato, sanzionando di fatto la rottura del principio di eguaglianza dei cittadini. I socialisti presero l’impegno solenne, in quanto rappresentanti “dell’Italia di domani” di abbattere il vergognoso edificio legislativo voluto dal regime. Luzzatto seguì con partecipazione umana e profondità analitica l’inasprirsi della persecuzione, notando l’assenza di odio contro gli ebrei ma anche l’assoluta mancanza di indignazione per l’ingiustizia, che sarebbe diventata opportunismo e indifferenza, anche se il regime richiedeva l’attiva collaborazione dei cittadini nell’applicazione dei provvedimenti antisemiti.
Le pubblicazioni di entrambi i periodici socialisti si interruppero nel 1940 e solo dopo l’8 settembre ’43 le edizioni clandestine dell’”Avanti” diedero notizia delle deportazioni in atto, pur in qualche articolo, con la persistenza dello stereotipo dell’”ebreo ricco” e di vecchi pregiudizi.
Con la Liberazione e la ripresa dell’attività politica l’”Avanti” ritornò come organo ufficiale del Psiup. Il primo articolo dedicato agli ebrei prendeva atto della abolizione della inumana legislazione antiebraica e richiedeva alla nuova Italia la rapida reintegrazione degli ebrei nella società, a partire dagli impieghi statali.
Il tema del coinvolgimento degli italiani nella deportazione venne riportato solo a guerra finita, con una differenza di giudizio sulle efferatezze compiute dai nazisti e le responsabilità dei fascisti, mancando un collegamento tra la deportazione e l’eliminazione fisica di massa ai provvedimenti legislativi del 1938 e alla passività degli italiani.
Fu Pietro Nenni nel 1947 a denunciare la tendenza all’oblio che si registrava intorno la “più colossale delitto della storia umana” che aveva visto come vittime i milioni di sovietici, i milioni di ebrei e di ebree e le centinaia di migliaia di militanti antifascisti, e a chiedere che venisse attuata pienamente l’epurazione in Germania ed il rinnovamento del paese, che le forze di occupazione tendevano a limitare per paura del bolscevismo.
Ancora non si affrontava la connessione tra la fase della “persecuzione dei diritti” a quella della “persecuzione delle vite” ma venivano messi in luce il trauma patito con l’espulsione dalla società italiana nel 1938 e la grande difficoltà per gli ebrei di trovare ascolto nel clima postbellico.
L’alleanza degli ebrei italiani con l’antifascismo fu suggellata dall’episodio dell’assalto da parte dei neofascisti il 14 aprile 1948 e l’”Avanti” dichiarò che il Fronte popolare avrebbe difeso le minoranze religiose e in modo speciale le eroiche comunità ebraiche, che tanto sangue avevano versato per l’Italia e la libertà.
Nel corso degli anni cinquanta il rapporto tra sinistra antifascista e ebraismo si andò consolidando, con un’opera di vigilanza contro ogni reviviscenza di antisemitismo.
Significativa è la negazione assiomatica della presenza di antisionismo nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa Orientale, particolarmente evidente nelle cronache del processo Slanski e di quello dei medici nell’Urss del 1953, accompagnata dalla fideistica e acritica ripresa della denuncia dei complotti titoisti e sionisti.
Nel corso degli anni cinquanta e sessanta l’”Avanti” portò avanti una puntuale informazione sulla formazione della memoria dello sterminio, stimolando la comprensione delle ragioni di quella catastrofe e a tramandarne la memoria alle nuove generazioni. A questa azione contribuirono in maniera significativa alcuni intellettuali e uomini politici socialisti. E’ del 1956 la prima Mostra sulla deportazione, organizzata a Torino con il contributo di Primo Levi. Tuttavia a questa azione corrispose una forte reticenza nel riconoscere che l’antisemitismo sopravviveva e, anzi era coltivato a fini politici anche nei paesi del socialismo reale.
All’inizio del 1960 l’”Avanti” riportò con preoccupazione la notizia della profanazione di sinagoghe e latri luoghi simbolici avvenuti a Londra, Parigi, Vienna e diverse città tedesche. Anche in Italia apparvero simboli ed episodi neonazisti in più di venti città ad opera della componente giovanile dell’MSI. L’allarme generato dal riapparire della svastica a soli 15 anni dalla fine della guerra portò l’”Avanti” a dedicare un’intera pagina allo sterminio degli ebrei europei, dedicata soprattutto all’educazione dei giovani. Mario Berti dalle pagine di “Critica Sociale” bollava come “cretinismo” l’antisemitismo degli sparuti gruppi di giovani, che totalmente ignari di quanto avvenuto in Europa solo pochi anni prima, erano manovrati da forze reazionarie.
I fatti di Genova del luglio 1960 rappresentarono il culmine della mobilitazione antifascista contro l’MSI. Il Parlamento, grazie all’impegno dei socialisti, tra cui l’ex deportato Piero Caleffi, ratificò la Convenzione per la prevenzione e repressione del genocidio.
Con l’avvio nel gennaio del 1961 del processo a Eichmann si riaccese la battaglia per l’affermazione del carattere antifascista della democrazia italiana e l’”Avanti”, in parallelo, lanciò un’inchiesta a puntate dal titolo “I nazisti sono tra noi”, che riportava le infiltrazioni e le connessioni tra ex nazisti e neofascisti in Italia e in Europa.
Il tema dell’antisemitismo sovietico venne sollevato in termini nuovi da Piero Caleffi in un articolo che riassumeva le vicende della nascita dello Stato ebraico e la posizione dell’Unione Sovietica, sia verso Israele sia verso i cittadini ebrei della Federazione. Si coglieva il mutamento intervenuto da parte dei socialisti, ora più autonomi rispetto ai comunisti, nell’affrontare criticamente la questione dell’antisemitismo sovietico.
Dopo qualche anno si sarebbe verificata, con la guerra dei sei giorni, la rottura tra la sinistra comunista e Israele. Questo tema è ampiamente trattato nel saggio di Alessandra Tarquini dal titolo “Il Partito Socialista fra Guerra fredda e Questione ebraica: sionismo, antisemitismo e conflitto arabo-israeliano nella stampa socialista, dalla nascita della Repubblica alla fine degli anni sessanta”.
Il PSI aveva accolto con entusiasmo la nascita dello Stato di Israele e si era schierato decisamente a favore degli ebrei nella guerra del 1948, criticando apertamente la politica inglese, volta a tutelare i propri interessi economici e militari nella regione. La stampa socialista accusava gli inglesi di essere artefici di una politica colonialista e imperialista, augurandosi che il proletariato ebraico potesse allearsi con quello arabo per dar vita a una nazione socialista libera dal colonialismo e dal feudalesimo dei grandi proprietari terrieri. Il PSI chiese al governo di riconoscere immediatamente lo Stato ebraico e esprimere una posizione ufficiale di sostegno.
A questa posizione aveva contribuito Gustavo Sacerdote, spiegando le origini culturali del movimento sionista fondato da Herzl ed il legame tra socialismo e sionismo, nati dalla medesima matrice filosofica della sinistra hegeliana. Per la maggior parte degli intellettuali del PSI gli ebrei avrebbero portato il progresso e la democrazia in Medio Oriente e Sacerdote citò i kibbuz come modello di società alternativa al capitalismo.
La posizione del PSI verso Israele mutò a partire dal 1951, in particolare con una dura campagna contro Ben Gurion e con il dissenso sul ruolo di Israele nella guerra di Suez del 1956. Su “Mondo Operaio” il sionismo veniva considerato da un anonimo inviato come “un ibrido di razzismo e religione” e si sollecitava il popolo di Israele ad imporre al proprio governo una nuova politica fatta di buone relazioni con gli arabi.
Da allora i giudizi sugli israeliani divennero sempre più critici. Nel 1953 veniva pubblicato un articolo che accusava il sionismo di essere diventato uno strumento dell’imperialismo.
Nella diffusione della memoria della Shoah nell’”Avanti” mancò una riflessione sulle ragioni dell’antisemitismo nazista. Un esempio di questa tendenza fu la recensione pubblicata nel 1954 dal giornale socialista al Diario di Anna Frank, in cui non fu citato il fatto che era una giovane ebrea.
Il processo Slansky vide in quegli anni l’”Avanti” schierarsi con il suo corrispondente Carlo Bonetti per la tesi del complotto sionista e quindi per la colpevolezza degli imputati. Bonetti spiegava la distinzione fra antisionismo e antisemitismo, sostenendo che il sionismo era un movimento di classe, nemico della classe operaia, che faceva di Israele un paese pericoloso per il futuro del socialismo. Anche il processo e la condanna dei medici ebrei furono riportati dall’ “Avanti”, rigidamente in una posizione filosovietica, come la giusta conclusione di un tentativo di complotto imperialista.
In questo quadro appare chiaro come l’”Avanti” nel 1956 si schierò a favore di Nasser, che nazionalizzò il canale in risposta al rifiuto della Banca mondiale di finanziare la costruzione della diga di Assuan.
Nel 1959 la rivista “Il Ponte”, fondata da Piero Calamandrei,
dedicò un numero speciale al decennale della nascita dello Stato di Israele. I giudizi dei socialisti all’iniziativa furono discordi tra “Critica Sociale”, che accolse con entusiasmo l’iniziativa, e l”Avanti”, che colse l’occasione per criticare Israele e la sua classe dirigente.
La posizione dei socialisti mutò a partire dagli anni sessanta, con maggior attenzione all’antisemitismo in Unione Sovietica e con la riflessione proposta su Israele e sul mondo ebraico dopo il processo ad Adolf Eichmann. Alla metà degli anni sessanta ormai il PSI si schierava in favore della società israeliana e in difesa dello Stato ebraico, come si vide chiaramente in occasione della guerra dei sei giorni, in aperto contrasto con la posizione del PCI.
Dopo la guerra del giugno 1967, la stampa socialista cambiò ancora una volta la propria posizione, con riflessioni sul conflitto e sulla politica estera israeliana ed in particolare sulla questione palestinese
Gli anni successivi videro un cambiamento del clima politico generale e, soprattutto, della linea di politica interna e internazionale del PSI. In particolare, negli anni della segreteria di Bettino Craxi il partito si impegnò a favore del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. All’interno del partito si svilupparono due orientamenti divergenti che la stampa socialista puntualmente registrò con alternarsi di articoli. La corrente filoisraeliana aveva fra i suoi esponenti più autorevoli Aldo Garosci che il 15 maggio 1968, in occasione del ventennale della nascita di Israele, raccontò ai lettori dell’”Avanti” la nota di angoscia con cui aveva assistito alle celebrazioni di un paese che non aveva ancora ottenuto il diritto di esistere.
In quegli anni l’ebraismo fu definitivamente riconosciuto come una componente fondante dell’identità italiana e socialista. Nel marzo 1987, aprendo il Congresso del partito, Craxi citò l’opera di Carlo Rosselli
e Giorgio Spini, nel quadro di una rivalutazione del pensiero liberal-socialista, citò l’ebraismo del fondatore di “Giustizia e libertà” come un esempio del contributo fornito dagli ebrei alla causa della libertà e del socialismo nella storia italiana. Si trattava di un riconoscimento importante, che portava a conclusione un lungo e complesso processo di evoluzione del rapporto tra l’ebraismo e il socialismo italiano.
Nel complesso il rapporto tra ebraismo e socialismo nella storia dell’Italia contemporanea sembra pienamente in linea con la storia del PSI, segnata da contrasti interni, lacerazioni ideologiche. Gli ebrei guardarono con ottimismo e fiducia al socialismo, cui apportarono un contributo di vitalità ed esperienze, accorgendosi però che veniva più facilmente accettato il singolo mentre più difficile era il riconoscimento come comunità.
Edmondo de’Donato