BUON ANNO” DI ALEICHEM, UN TRENO A VAPORE CHE CI PORTA IN UN TEMPO PERDUTO
Stefano Jesurum 21 Febbraio 2021
Sono svariati – non tutti degni di vanto – i motivi per cuida sempre gli amici mi chiamano bonariamente l’orso ebreo, e ben da prima che comparisse il mitico sergente Donny Donowitz di “Inglorious Basterds”. Una delle ragioni di questo simpatico soprannome è l’inveterata tenacia con cui durante un viaggio, lungo o breve che sia, in treno o in aereo, non rivolgo rigorosamente la parola ai casuali vicini di posto, né tanto meno cedo a eventuali loro tentativi di conversazione. Che tuttavia spesso ascolto senza isolarmi nelle cuffie e, anzi, spiando con immensa speranzosa curiosità storie che nella stragrandissima maggioranza delle volte non valgono alcunché. Ed ecco che, bizzarra ironia della sorte, Anna Linda Callow mi regala un libriccino destinato a farmi pentire di un’ormai lunga esistenza così, appunto, orsesca.
Perché “Buon anno!”, quattro racconti brevi di Sholem Aleichem, tradotti e curati per Garzanti dalla suddetta Anna con l’apporto di Franco Bezza e Haim Burstin, ti fa invece accomodare sulla carrozza d’un vecchio treno a vapore che collega alcuni shtetl dell’yiddishland (se ne avete la possibilità, immergetevi nelle parole e nei suoni tenendo sulle ginocchia le meravigliose immagini di “Un mondo scomparso” di Roman Vishniac) e ti rende partecipe delle storie incredibili e folli narrate al suo pubblico ferroviario dal commesso viaggiatore alter ego di Aleichem.
Scrittore di cui – credo – non sia necessario riassumere né la grandezza né la torrenziale vastissima produzione (un titolo per tutti “Tewje il lattaio”).Universi chagalliani e rabbini, personaggi di ogni genere e varietà, riti religiosi, tradizioni familiari, trame tanto fantastiche quanto semplici, reali, sovente ironiche. In questi quattro cammei poi, redatti tra il 1900 e il 1915, protagonisti possono essere perfino una vecchia pendolae una lezione di violino. L’immensa dolcissima nostalgia per un universo irripetibile. Vorrei poi aggiungere che in un breve passaggio de “La pendola” c’è – secondo me –una delle più semplici, profonde raffigurazioni di quel segreto tutto ebraico di concezione del tempo/non tempo che tanto unisce e rinsalda ancor oggi – da sempre – gli ashkenaziti e i sefarditi, i laici e i religiosi, gli osservanti e i poco o nulla credenti… «(su quell’orologio. NdR) quasi mezza città regolava i propri doveri religiosi: la commemorazione della distruzione del Tempio, la sveglia per le preghiere mattutine, il rito del pane del venerdì, la benedizione delle candele, l’accensione del fuoco all’uscita del sabato, la salatura della carne e tante altre cose di questo genere che riguardano la vita ebraica». Insomma quella sorta di appartenenza a un mondo che non c’è più, ma a un popolo che vive.
Stefano Jesurum