Il piccolo partigiano ebreo. Storia di Franco Cesana, nome di battaglia Balilla
Era un ragazzino ebreo in fuga dalle persecuzioni razziali. Scelse la lotta armata, imbracciò uno Sten e fu ucciso dai tedeschi sei giorni prima di compiere 13 anni
Brunella Giovara – Repubblica 24 Aprile2021
Polinago (Modena)
Il ragazzo era su questa scala, e aveva uno Sten a tracolla. Aveva anche un grande segreto, e non l’ha mai detto a nessuno. Ma ogni cosa si polverizzò in un attimo e in un bagliore, era la sera del 14 settembre del 1944, una raffica tedesca lo prese in pieno, nel buio, nelle urla degli uomini sorpresi dall’imboscata, disse poi il suo comandante di aver gridato «tutti a terra!», e «appoggiai la mano sulla spalla destra del ragazzo affinché eseguisse più rapidamente il mio ordine. Ma egli si svincolò di scatto, e col suo corpo mi si buttò addosso».
Si chiamava Franco Cesana, nome di battaglia: Balilla. Nato a Mantova il 20 settembre 1931, sei giorni dopo avrebbe quindi compiuto i tredici anni. Il partigiano più piccolo d’Italia, o uno dei più giovani, medaglia di bronzo al valore militare, «adolescente pieno di slancio e di spirito patriottico…», eccetera.
E volendo tornare nel punto esatto in cui tutto questo è successo, si deve salire al gruppo di case di sasso a Picciniera, che è una borgata di Gombola, che è frazione di Polinago, in provincia di Modena. Appennino, sole e freddo, nei boschi il bianco dei ciliegi selvatici appena fioriti. Da un cortile esce Sandra Veratti, con una vecchia chiave in mano. «Mia mamma era presente al fatto. Si chiamava Maria Rosa Bonvicini, era del ’35».
Quella bambina restò scioccata, mentre guardava i partigiani raccogliere il cadavere di Franco, che stesero in questo oratorio della Beata Vergine del rosario. A fatica, Sandra apre il portone. È una pieve minuscola, con la croce arrugginita sul tetto, l’altare è corroso dall’umido, è tutto come nel 1944. Sei banchi, bastavano giusto per gli abitanti del borgo, costruito tra il 1400 e il 1500 dai conti Cesi, che lo usavano come base per le loro cacce. «Non si può entrare, è pericolante», ma lo stesso si vedono i quadri con le sante e le madonne, la volta è dipinta di azzurro. Il posto giusto per tenerci un morto, nel fresco delle pietre. Il ragazzo Cesana, però, era ebreo.
E questo era il segreto che aveva promesso alla madre di non dire mai. Nell’unica lettera rimasta, le scriveva «ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare». E «ti raccomando, appena ricevuta la mia, bruciala», le nuove regole della clandestinità che stava appena imparando. La madre conservò la lettera, la mise in una bottiglia che poi sotterrò nell’orto.
Anni dopo, Ada Basevi raccontò che di quel suo figlio le erano rimaste due cose: «Una penna, e una lampadina», forse intendendo una piccola torcia per vedere al buio, utile alla nuova vita di partigiano, e quindi fuggiasco. Ma fuggiasco era già un suo destino, e bisogna qui ricordare le migliaia di bambini che la guerra scaraventò su e giù per l’Italia, spesso soli. I genitori li allontanavano per salvarli dalla fame e dai bombardamenti delle città, affidandoli a parenti lontani, in campagna e in montagna, purché lontano. Le famiglie sfollavano e si disperdevano, i pochi telefoni non funzionavano. Vite piccole, sconosciute, randagie. Poi, c’erano bambini e ragazzi con l’aggravante razziale, che cercavano di scampare alle deportazioni, e quindi in fuga perpetua, finché non venivano presi e mandati ad Auschwitz.
I Cesana erano di Mantova, poi trasferiti a Bologna, il padre si chiamava Felice, e i tre figli Vittorio, Lelio e il minore Franco. Nell’unica foto, il bambino ha un piccolo sorriso, un cappottino di tweed, i capelli ricci. Di sicuro all’epoca dello scatto era già stato espulso da scuola, perché era ebreo. Forse era già orfano del papà, per cui la madre lo mandò all’orfanotrofio israelitico di Torino, che accoglieva ragazzi in difficoltà. Ci restò fino al 1941, quando la struttura venne chiusa. Dopo, venne mandato a Roma, come ricorda la cugina Ziva Grazia Modiano Fischer, 87 anni, già presidente nazionale dell’Associazione donne ebree d’Italia, scampata alla deportazione perché rifugiata a Tora, in provincia di Caserta, dove nessuno vendette gli ebrei. «Franco stava all’Istituto Pitigliani, di fronte alla sinagoga, poi chiuso nel ’42. I bambini vennero restituiti alle famiglie», chi l’aveva. La bambina Grazia andava a prendere il cugino Franco la domenica, «lo portavo a casa, così faceva finalmente una bella mangiata. Com’era? Un bambino vivace. Una volta venne punito perché aveva giocato a cuscinate con i compagni».
I Cesana tornano a Bologna, ma la caccia all’ebreo funziona già bene, 5mila lire per ogni cattura. Come tanti, sono ebrei erranti che si fermano qua e là, in una frazione di Serramazzoni, nella stalla di Casa Nuvola, poi a Casa Saldino, nel posto più sperduto della frazione Pescarola, a Prignano sulla Secchia. Qui, ci sono i partigiani. Questo è l’arcangelico regno dei partigiani, Fenoglio chiamava così le Langhe, era così anche la libera repubblica di Montefiorino, che in linea d’aria non è lontano da qui, così come lo è Marzabotto.
Un piccolo libro ha ricostruito la vita breve di Balilla (Dalle leggi razziali al sacrificio di Franco Cesana), fatto prima della pandemia dagli studenti di terza media dell’Istituto Francesco Berti di Prignano, aiutati dai prof Ballesi e Ferrari, dall’Anpi e dalla Comunità ebraica. Nato dalla domanda «ma lo sapete che da queste parti è stato ucciso un ragazzino come voi?», i coetanei di oggi hanno ricostruito le divisioni partigiane, le zone dei comunisti, dei Giustizia e libertà, dei democristiani, chi erano i capi, i rastrellamenti. Uno dei comandanti era “Marcello” Catellani, monarchico, ex ufficiale dell’esercito. Nella guerra contro la Francia era stato ferito a un braccio, che poi gli avevano amputato. In cambio, aveva ricevuto la visita di Mussolini, e poco dopo cambiava idee, riferimenti, saliva in montagna e formava una banda.
Lì arrivò il fratello di Franco, Lelio, e dopo un po’ anche Franco: «Fra gli uomini di Marcello vi è un ragazzetto di circa 12 anni. Si era aggregato alle formazioni azzurre dicendo di non avere famiglia», scrisse poi il partigiano “Roberto”. E il comandante: «Data la sua intelligenza e vivacità poteva essere un ottimo portaordini in momenti delicati. A malincuore, ma tanto era stato il suo entusiasmo, avevo aderito che portasse con sé uno Sten» (le testimonianze sono nel libro La storia mai scritta del Comandante Marcello di Terenzio Succi e Franco Adravanti, editore Youcanprint).
«Franco aveva preso una decisione importante: diventare partigiano», dice Barbara Orlandi, che ha partecipato alla ricerca con i suoi compagni di classe. Era così giovane, «ma aveva fatto una scelta. Era anche uno bravo a scuola», che peraltro gli era proibita. E anche quel soprannome: Balilla. Il balilla non lo aveva mai fatto, proibito anche questo in quanto «appartenente alla religione ebraica».
Quindi, immaginatevi il ragazzo che, un giorno di quel settembre, esce di casa per andare a prendere il latte in una cascina vicina, e invece scappa in montagna. Arrivò alla Picciniera «stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’, l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei contenta?», scriveva alla mamma. «Fui assunto, e siccome ho studiato, fui dislocato al comando. Non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima, solo un po’ precario il dormire».
Gli consegnarono lo Sten, possiamo immaginare l’orgoglio. Era felice? Probabilmente sì. Arrivò quel «crepitio di armi automatiche contro il retro della casa», il gesto istintivo di proteggere il suo comandante, che aveva un braccio solo. Faticarono a seppellirlo. Con tanti preti partigiani nella zona, quello di Pescarola rifiutò di metterlo nel cimitero del paese. Poi lo obbligarono, e solo così Franco andò sotto terra.