“Sogno una pace che cambi le coscienze”
David Grossman
Mentre israeliani e palestinesi tornano a scontrarsi il grande scrittore auspica un cambiamento “come in 67 anni non ho mai conosciuto”
Quando mi è stato proposto di scrivere qualcosa sul tema “metamorfosi” ho pensato a un cambiamento straordinario descritto nella Bibbia, nel libro di Isaia, che dovrebbe avvenire in futuro, alla fine dei tempi, e prevede un mutamento profondo della coscienza e del comportamento di tutti gli esseri umani.
Dio — profetizza Isaia — giudicherà i popoli ed essi «trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non impareranno più la guerra».
Questa è sostanzialmente la descrizione di un “disarmo” globale, universale, durante il quale gli esseri umani trasformeranno le armi in attrezzi agricoli per lavorare la terra, renderla fertile e produttiva. Isaia profetizza che i vari popoli «non impareranno più la guerra». Ovvero, non solo non si combatteranno a vicenda ma saranno talmente determinati a sradicare i conflitti dalla coscienza umana che cesseranno di insegnare e di imparare la “dottrina bellica”.
Isaia, figlio di Amoz, visse a Gerusalemme circa tremila anni fa, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Noi, nel XXI secolo d.C., dovremmo quindi già trovarci nel futuro utopico da lui profetizzato, goderne i frutti e apprezzare l’esistenza pacifica e priva di violenza che ci aveva promesso. Inutile dire che siamo lontani da questa auspicata prospettiva non meno di quanto non lo fosse lui stesso a suo tempo.
Ma scendiamo dalle vette liriche di questa profezia alla prosaica realtà delle nostre esistenze: scrivo queste righe durante un nuovo round di combattimenti particolarmente violenti tra Israele e Hamas, l’organizzazione che controlla la Striscia di Gaza. In questo momento sento suonare l’allarme e missili lanciati da Hamas cadono a poca distanza da me. Al tempo stesso la Striscia di Gaza è sotto un massiccio attacco israeliano. È ancora difficile stabilire chi abbia veramente causato questa esplosione di violenza e di morte ma potremmo pronosticare, sulla base dell’esperienza passata, che presto sarà raggiunto un cessate il fuoco e la situazione si calmerà per qualche mese, o per qualche anno. Entrambe le parti seppelliranno i loro morti, ricostruiranno le case e le città distrutte e torneranno a rifornirsi di armi e munizioni. Nessuno sforzo serio sarà fatto per risolvere veramente e alla radice il problema delle relazioni tra Israele e la Striscia di Gaza e, con ogni probabilità, le cose rimarranno invariate fino al prossimo scontro armato.
Israele si trova in uno stato di guerra da più di un secolo, principalmente con il popolo palestinese, e ormai da cinquantaquattro anni questo popolo è sotto la sua dominazione. Apparentemente non c’è alcuna soluzione a questa situazione distorta e nessuno ne sta cercando una. Da più di un secolo i membri di entrambi i popoli si svegliano ogni mattina con l’annuncio dell’ennesimo omicidio o atto di distruzione, di vendetta o di odio avvenuto durante la notte. «Colui che ride», ha scritto Bertolt Brecht, «probabilmente non ha ancora ricevuto la terribile notizia». Com’è vera questa affermazione per noi israeliani e palestinesi.
Io ho 67 anni e in tutta la mia vita non ho conosciuto un solo giorno di pace. Di pace vera, radicata nei cuori, che cambi la coscienza. Sì, gli accordi firmati da Israele con l’Egitto e la Giordania (e ultimamente con gli Emirati Arabi Uniti) sono importantissimi ma, in fin dei conti, sono stati stipulati tra governi, tra leader, e non si traducono in una pace vera e “naturale” tra popoli. Non creano una situazione in cui le lance si trasformino in falci. I cittadini di questo conflitto non hanno nemmeno mai conosciuto un tipo di pace che esaudisca desideri molto più modesti, che consenta loro di non pensare affatto alla pace ma di abbandonarvisi in maniera semplice e naturale. Una pace che permetta loro di fare respiri profondi, a pieni polmoni, senza avvertire in fondo a ogni respiro una punta di paura, di dolore, di lutto.
Nella realtà delle nostre vite la paura è sempre in agguato. Abbiamo sempre una spada che pende sopra la nostra testa. E anche se di tanto in tanto affiorano momenti di tranquillità e di calma, questi vengono percepiti come una pericolosa illusione, una cospirazione tramata nell’oscurità. Quindi, se allentassimo anche di poco la vigilanza, la tensione, se ci mostrassimo distratti, se concedessimo fiducia ai nostri vicini-nemici, questa illusione potrebbe esplodere all’improvviso e, come al solito, ci ritroveremmo nella realtà della guerra.
Ecco una piccola storia vera: nel 1977 il presidente egiziano Anwar Sadat annunciò di essere pronto a venire in Israele per firmare il trattato di pace con lo stato ebraico, il più grande nemico dell’Egitto. Israele fu travolto da un’enorme ondata di emozione ma il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito avvertì che Sadat stava forse architettando una trappola e, approfittando dell’euforia che regnava in Israele, si accingeva a sferrare un attacco a sorpresa come aveva fatto nella guerra dello Yom Kippur. Questo era ciò che pensava seriamente il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, e non ho dubbi che molti israeliani condividessero i suoi timori.
«Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, e non impareranno più la guerra». Questa frase racchiude un’aspirazione grande e autentica ma anche una certa dose di ingenuità. Un’ingenuità che io però invidio, come invidio il coraggio di esprimere con voce chiara e forte un auspicio tanto ardito, una possibilità tanto anelata.
Un popolo che ha vissuto per innumerevoli anni in uno stato di guerra è condannato a definire se stesso e la situazione in cui si trova in termini bellici, violenti, di sopravvivenza. Un popolo simile, che non conosce una realtà che non sia stata plasmata dalla guerra, farà fatica a credere che esiste la possibilità che non ci siano conflitti. Nell’anno 2000, a Camp David, si tennero colloqui di pace tra israeliani e palestinesi nel tentativo di raggiungere un accordo. I colloqui fallirono. La diffidenza reciproca fu più forte della volontà di pace e innescò una brutale spirale di violenze. A quel tempo, nei giorni della seconda Intifada, molti israeliani si sentirono ingannati, traditi, e non solo dai palestinesi. Vedevano se stessi come traditori, avevano l’impressione di aver tradito la loro impietosa ed eloquente esperienza storica, accumulata nel corso di generazioni, di guerre, di sofferenze. Un’esperienza che avrebbe dovuto metterli in guardia dal non lasciarsi tentare da “illusioni di pace”.
E invece era successo, si erano lasciati “tentare”, avevano tradito il loro istinto guerriero di eterni sopravvissuti, l’amara convinzione che noi ebrei siamo un popolo condannato a vivere e a morire con la spada in mano, per l’eternità. È possibile che israeliani e palestinesi abbiano mai una vita diversa, sicura e pacifica nella loro terra? Che possano godere di rapporti di buon vicinato? Potrà mai avvenire dentro di noi l’agognato cambiamento, la metamorfosi vaticinata dal profeta Isaia?
Come ho già accennato di recente sono stati firmati accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e tra Israele e Marocco. Questi sono sviluppi importantissimi e positivi. Ma, in fin dei conti, questi accordi hanno sancito una pace tra ricchi mentre quella più vitale, tra israeliani e palestinesi, non è stata ancora firmata. Una pace tra popoli che cambi la coscienza, l’esistenza, la percezione del futuro e l’approccio alla vita, in tutti i suoi substrati. Una pace che al giorno d’oggi non ha molti sostenitori e quasi nemmeno “agenti” che la promuovano. Gli agenti presenti nella nostra regione fomentano infatti più che altro il sospetto, la violenza e la disperazione. Il profeta Isaia visse in un’epoca di guerre tra i regni di Giuda, di Egitto e di Assiria. Se oggi resuscitasse rimarrebbe sicuramente sbalordito nel vedere che i guerrieri sono cambiati ma la guerra c’è sempre. L’auspicata trasformazione da lui pronosticata non è ancora avvenuta.
© David Grossman