Per salvare se stesso Netanyahu porta Israele sull’orlo della dittatura
David Grossman
Se i promotori della cosiddetta riforma giudiziaria porteranno a termine il processo legislativo, di fatto revocheranno lo Stato di diritto
Israele sta vivendo una delle crisi più gravi che abbia mai conosciuto. Anche dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, i pericoli che il Paese correva erano meno tangibili. Ora la situazione è diversa. Tre dei membri più estremisti e nazionalisti del Parlamento israeliano – il ministro della Giustizia Yariv Levin, il presidente del Comitato per la Costituzione, il Diritto e la Giustizia Simcha Rothman e Benjamin Netanyahu, il primo ministro quasi onnipotente – stanno agendo con tutte le loro forze e senza remore per creare un nuovo sistema giuridico al posto di quello attuale. Dal punto di vista legale, ne hanno il potere: alle elezioni di novembre, i partiti che ora formano la coalizione di governo hanno ottenuto un vantaggio di 4 membri alla Knesset, composta da 120 membri. Ma stanno adottando una procedura affrettata e bellicosa che non ha precedenti in Israele. Il loro obiettivo è introdurre non solo una serie di modifiche al sistema esistente, ma un’alterazione totale del Dna del Paese.
Se i promotori di questa cosiddetta riforma giudiziaria riusciranno a portare a termine il loro processo legislativo, di fatto revocheranno lo Stato di diritto in Israele. La magistratura sarebbe subordinata alla Knesset e al governo e i nuovi giudici sarebbero nominati dai politici. In altre parole, ai cittadini israeliani non verrebbero più garantite le tutele legali contro l’arbitrarietà del regime. Se questo processo verrà portato a termine, Israele cesserà di essere una democrazia e potrebbe trasformarsi in una dittatura.
Netanyahu è coinvolto in un procedimento legale, essendo stato accusato di corruzione, frode e abuso di potere. Ha dimostrato di essere disposto e capace di fare tutto ciò che è in suo potere per alterare l’intero sistema giudiziario per evitare di finire in prigione. A tal fine, si è alleato con gli elementi più messianici, malavitosi e sgradevoli della società israeliana e ha affidato ai loro rappresentanti portafogli governativi cruciali e altamente sensibili. Quest’uomo non conosce limiti.
Netanyahu sostiene che la sua vittoria alle ultime elezioni – con un margine di 30mila voti – lo autorizza a mettere in atto quella che lui chiama la “riforma”. Ma i cittadini israeliani non hanno votato per autorizzare una linea d’azione così drastica. Ogni israeliano appartiene a questa o quella minoranza. Ognuno di noi potrebbe essere vittima di abusi in base a una legge o l’altra, soggetto a discriminazioni basate su sesso, razza, religione, nazionalità o preferenze sessuali. E questo, in parte, è il motivo per cui centinaia di migliaia di israeliani scendono in piazza ogni settimana per protestare contro questo frettoloso colpo di Stato.
Chiedono l’immediata sospensione dell’esame di queste leggi antidemocratiche, seguita da negoziati seri ed equi sulle future caratteristiche del sistema giudiziario israeliano. I prossimi giorni saranno cruciali per il futuro del Paese. Un solo proiettile potrebbe far precipitare il dramma in uno scenario diverso, in cui i membri di entrambi gli schieramenti prenderebbero in pugno la legge – o meglio, l’illegalità – dando vita a una realtà molto più terrificante di quella in cui viviamo. Ma anche se questo scenario non si concretizzasse, Israele deve oggi affrontare una tragica riflessione su se stesso.
Da dove cominciare? Forse dallo stupore per la rapidità con cui la maggior parte degli israeliani ha smarrito il senso del potere e della sicurezza esistenziale, un senso che sembrava solido fino all’arroganza e che ora si è dissolto nella paura che la loro casa nazionale vada a fuoco. Può uno straniero capire questo vertiginoso passaggio da un senso di immenso potere alla fragilità e all’ansia che ha attanagliato un’intera nazione? Se non si comprende questo meccanismo della psiche nazionale, non sono sicuro che sia possibile decifrare “l’israeliano”. E forse il dramma dell’israelianità oggi è la caduta in frantumi di un’illusione che tutti i leader israeliani si sono sempre impegnati ad alimentare: la nostra miracolosa unità nazionale. Ora che le crepe nella nostra società sono state messe a nudo, viene alla luce quanto sia sempre stata fragile e falsa questa cosiddetta unità, e quanto siano ostili gli uni verso gli altri i vari elementi e le loro convinzioni.
Come può esserci una vera unità tra fazioni che si considerano reciprocamente una minaccia esistenziale? Come può esserci unità se non abbiamo fatto un vero lavoro nazionale e civico per affrontare la furia, l’ostilità e l’offesa, così radicati ormai che comincia a sembrarci degna di considerazione l’idea di dividere il Paese nell’Israele e nella Giudea dei tempi biblici? Come può esserci unità tra le centinaia di migliaia di coloni che si sono impossessati di porzioni considerevoli delle terre occupate in Cisgiordania, che considerano terre ancestrali donate loro dalla stessa Bibbia, e, al contrario, quegli israeliani che percepiscono i coloni come il principale ostacolo a un accordo di pace tra Israele e i palestinesi? E che dire degli oltre un milione di ebrei ultraortodossi che si rifiutano di mandare i loro figli al servizio militare, perché, secondo la loro fede, ciò che garantisce la continuità dell’esistenza del popolo ebraico sono la preghiera e lo studio della Torah? Come può esistere unità tra loro e gli israeliani i cui figli e figlie sono obbligati per legge a prestare fino a tre anni di servizio militare?
Per tanti anni, da quando è stato fondato lo Stato di Israele, la maggioranza degli israeliani ha accettato questo accordo distorto, in cui la religione si lega alla politica come l’edera, se ne nutre e impone a tutti gli altri israeliani uno stile di vita a loro estraneo. Stiamo forse facendo i primi passi verso la separazione tra religione e Stato? Ci sono altri problemi, altre aree infette – lo status dei cittadini arabi di Israele, per esempio – che sono rimasti irrisolti nei 75 anni di esistenza dello Stato. Dopo le onde d’urto di ostilità e odio reciproco provocate dall’attuale governo, queste domande potrebbero richiedere risposte concrete e costringere a creare un nuovo ordine, una revisione del contratto tra le diverse tribù di Israele e tra ciascuna di esse e il loro Stato.
Abbiamo parlato appena dell’occupazione. I leader del movimento di protesta hanno saggiamente deciso di sospendere – almeno per ora – il dibattito più cruciale attorno al quale la società israeliana si è divisa per 55 anni, da quando Israele ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Anche chi, come me, lotta contro l’occupazione da più di quarant’anni, riconosce che una discussione pubblica sull’occupazione non farebbe altro che dividere e smantellare il movimento di protesta. Al momento, la maggior parte degli israeliani non riesce a guardare con chiarezza all’occupazione. Non ancora. Ma trovo una certa consolazione nel fatto che questioni politiche e sociali che per anni sono rimaste stagnanti, potrebbero ora iniziare a smuoversi.
Sotto i nostri piedi si stanno spostando delle placche tettoniche. Immagino che le persone che stanno cercando di dirottare il Paese, che hanno l’audacia di riscrivere il sistema giuridico israeliano, non si aspettassero una resistenza così diffusa e zelante. Persino i manifestanti sembrano sorpresi dalle loro stesse capacità di fervore, passione e coraggio. Per anni, molti di questi attivisti sono stati accusati di essere egoisti, cinici, viziati, di non avere radici né senso di appartenenza al proprio Paese. E sono stati sottoposti alla peggiore accusa possibile in Israele: essere antipatriottici. Ma poi è arrivato questo incredibile sconvolgimento che ha spinto centinaia di migliaia di israeliani a scoprire nuove e vecchie riserve di identità, valori e appartenenza. Persone che per decenni non hanno sventolato la bandiera di Israele, ora la brandiscono con orgoglio. Molti israeliani hanno scoperto che è possibile amare il proprio Paese con una devozione lucida, che nasce dal desiderio di fare di questo Paese la nostra casa e da una genuina aspirazione a vivere in pace con i nostri vicini. Questa nuova emozione si fonda su un senso civico ponderato e maturo e su una comprensione dello spirito della democrazia, del liberalismo, dell’uguaglianza e della libertà.
David Grossman
(Traduzione di Luis E. Moriones)