Israele, tra il dolore e la guerra
di Maurizio Molinari
l reportage. Il pogrom del 7 ottobre perpetrato da Hamas ha risvegliato gli incubi del passato. Stretto nella morsa dell’Iran, il Paese intero prepara la risposta. Per sopravvivere
GERUSALEMME – A due settimane dal pogrom del 7 ottobre, Israele affronta la sua ora più difficile. Le atrocità di Hamas hanno risvegliato i fantasmi della Shoah, l’attacco a sorpresa ha svelato la vulnerabilità delle difese militari, gli oltre duecento ostaggi detenuti a Gaza lacerano il Paese e lo scenario di un conflitto su più fronti con i gruppi armati creati da Teheran — non solo Hamas e Jihad Islamica nella Striscia ed in Cisgiordania ma anche Hezbollah libanesi, Houti yemeniti, milizie sciite in Iraq e Siria — espone tutti gli oltre nove milioni di abitanti al rischio di trovarsi in prima linea. Anche per una nazione abituata da oltre 75 anni a battersi contro vicini che vogliono cancellarla dalla mappa geografica, è una miscela di rischi e incognite che ha ben pochi precedenti.
Tutto inizia con il risveglio da parte di Hamas dei fantasmi della Shoah e per capire cosa significa per Israele bisogna ascoltare la ricostruzione di quanto avvenuto durante il pogrom jihadista dalle voci degli scampati. Perach Filo, sopravvissuta all’Olocausto, era sola in casa nel kibbutz di Be’eri quando sono arrivati i terroristi. Si è chiusa nel mamad — la stanza di sicurezza che ogni casa possiede — con mezzo litro d’acqua, mezzo filone di pane ed una coperta. È rimasta lì per quasi due giorni, gestendo da sola il poco cibo che aveva, facendo i propri bisogni e restando in assoluto silenzio mentre ascoltava i jihadisti che le distruggevano la casa e sparavano contro la porta blindata del mamad tentando di sfondarla.
«Ero chiusa lì dentro e ringraziavo in continuazione Dio per quel mezzo litro di acqua, quel poco pane e quella coperta che avevo portato con me perché mi hanno consentito di andare avanti», racconta, evocando in chiunque la ascolti i ricordi di chi ha subito le persecuzioni naziste. Di chi sa che anche una sola fetta di pane può consentire di sopravvivere. E dai manuali della sopravvivenza ebraica esce anche quanto avvenuto quando Perach Filo ha sentito che i jihadisti si erano allontanati: si è calata da sola dalla finestra del mamad, ha acceso una piccola vettura e da sola ha raggiunto i militari israeliani che fuori dal kibbutz stavano combattendo.
Voci dal pogrom
A Be’eri sono stati commessi alcuni dei crimini più orrendi. È qui che sono stati trovati corpi di bambini bruciati. Fra i primi ad averli visti c’è un responsabile di Zaka, l’associazione che recupera i resti, anche i più piccoli, di ogni singolo essere umano, per potergli dare sepoltura. Quando tenta di descrivere ciò che ha esaminato, allarga le braccia, non riesce a trovare le parole, gli si chiude la gola, ammette di non essersi mai trovato davanti a qualcosa del genere.
Ariel Zohar ha 13 anni, è di Nir Oz ed ha avuto l’intera famiglia sterminata. Si salvato perché di primo mattino — l’attacco è iniziato poco dopo le 6 — era andato a correre. Come chi si salvò dalla razzia degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943 — anche quello era un sabato — solo perché era uscito per comprare le sigarette. Zohar fra una settimana farà il suo bar-mitzwà — la maggiorità religiosa — con al fianco l’unico parente che gli è rimasto, il nonno scampato alla Shoah. Quando la Storia si fonde.
Orrore a Nir Oz
Nir Oz è uno dei quattro kibbutzim più devastati, assieme a Kfar Aza, Be’eri e Nahal Oz, fra le 22 località israeliane dove Hamas ha fatto oltre 1.200 morti, 2.500 feriti e catturato almeno 210 ostaggi. Ma Nir Oz, più isolato rispetto agli altri, ha una particolarità: è l’unico dove Hamas non ha incontrato resistenza, i suoi uomini armati sono entrati ed hanno potuto fare ciò che volevano, senza fretta né ostacoli, facendo strage e poi tornando tranquillamente a Gaza. Visitarlo oggi consente di comprendere il metodo di operare che hanno seguito: prima uccidere tutti i civili che erano a portata di fuoco, poi bruciare le case dove c’era ancora chi si era rifugiato nei mamad. Hanno bruciato qualsiasi luogo dove ritenevano vi fosse una vita umana, casa per casa. Anche l’asilo. Almeno un terzo dei 350 residenti di Nir Oz è stato ucciso, carbonizzato o deportato a Gaza. Uomini, donne, anziani e bambini.
L’efferata precisione con cui Hamas ha operato a Nir Oz, bruciando le persone vive nelle proprie case, evoca gli Einsatzgruppen — le truppe speciali delle SS — impiegate dai nazisti in Europa Orientale per uccidere, ovunque li trovassero, il più alto numero di ebrei nel tempo più rapido, prima dell’inizio della fase industriale dello sterminio con i forni crematori. I manuali di Hamas trovati dai militari di Tzahal indosso ad alcuni terroristi — datati ottobre 2020, lasciando intendere i tempi della pianificazione — provano che la scelta dell’uccisione di ogni singolo civile, in qualsiasi modo possibile, era l’obiettivo fondamentale dell’intera operazione. Catapultando nel cuore del XXI secolo il metodo della caccia all’ebreo, le cui prime testimonianze risalgono alla notte della Storia: quando nell’Antica Persia il malefico Aman pianificò la distruzione di tutti gli ebrei o quando nel Medioevo i soldati della Prima Crociata devastarono i villaggi ebraici in Renania.
La lista di Halil
E poi c’è il racconto della signora Tasa di Nativ Ha-Asarà, neanche 45 anni, che ha perso il marito e un figlio. Ecco cosa dice: «I terroristi sono arrivati a colpo sicuro, avevano in tasca una mappa delle case con la lista dettagliata delle nostre famiglie che vi abitavano, sapevano quanti figli c’erano in ogni abitazione ed anche chi aveva animali domestici». La sovrapposizione con le SS che bussavano alle porte con le liste delle persone da portare via non deve neanche essere fatta: è nelle menti di chiunque ascolta. E la signora Tasa va avanti: «L’unica persona che può avergli dato informazioni così dettagliate è Halil, il giovane arabo di Gaza che per anni è vissuto con noi, curando giardini, pitturando le pareti e riparando ogni cosa, era diventato uno di noi, lo consideravamo un uomo di pace, il nostro legame con Gaza. Invece Halil gli ha dato i nostri indirizzi e nomi». Come i collaborazionisti che in tanti Paesi europei tradirono senza alcuna remora vicini di casa, amici di scuola e conoscenti ebrei, consegnandoli ai nazifascisti, e voltandosi dall’altra parte.
Sono storie che entrano dentro le viscere di chiunque in Israele, sovrappongono le atrocità di Hamas a quelle dei persecutori del passato, fanno percepire a giovani e giovanissimi che quanto commesso dai nazisti ai loro nonni si è ripetuto ora. Per un popolo abituato a vivere la Storia come un unico evento immanente — ricordando ogni anno l’Uscita dall’Egitto come se fosse avvenuta oggi — significa il risveglio degli incubi più orribili. Scoprendo che la Notte dei Cristalli, i pogrom zaristi e la caccia agli ebrei si sono ripetute nel 2023. Dimostrando la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo. Certo, la storia dell’odio antiebraico insegna che ogni antisemita impara, ripete ed aggiorna le tattiche del predecessore, anche a distanza di secoli, ma nessuno finora osava pensare che perfino gli aguzzini di Adolf Hitler potessero avere degli emulatori nell’era del web e dell’iphone.
E non è tutto perché le immagini girate dalle telecamere di sicurezza dei villaggi devastati mostrano i saccheggi, da parte dei civili di Gaza mischiati ai terroristi: bambini che rubano le biciclette, uomini che svaligiano case, prendono televisori, rubano carte di credito dai corpi morti, catturano ostaggi personali. Come se fossero al supermercato. In un fotogramma di Be’eri si vede un anziano in jalabiya che esce da un’auto di Hamas, zoppica, aiutandosi con il bastone, ma procede con passo veloce, per seguire i terroristi dentro il kibbutz. Sono immagini di pogrom perché nella Russia zarista come a Baghdad nel 1941 o a Tripoli nel 1945 la gente comune si mischiava ai gendarmi armati, gettandosi contro gli ebrei non solo per scannarli ma anche per depredarli di tutto. Ecco perché, che si tratti di ebrei di origine europea o araba, ashkenaziti o sefarditi, le testimonianze del 7 ottobre devastano il cuore di ogni israeliano.
Eroi improvvisati
Ad evocare il passato ci sono anche i racconti di singoli atti di eroismo da parte di chi si è opposto al pogrom, agendo d’istinto durante le lunghe ore di assenza dell’esercito preso di sorpresa. Come Shifka, una poliziotta madre di dieci figli, che appena saputo del massacro in corso al Rave Party è salita sull’auto e si è diretta a Nova ingaggiando — con altri tre agenti — un combattimento durato 13 ore. Finito il quale, hanno tirato fuori dalle pile di giovani uccisi quelli che ancora respiravano. Oppure Tali Haddad, madre di un giovane ferito sempre a Nova che, corsa in suo aiuto, con la propria auto ha salvato 12 vite. O il soldato beduino che, dentro una base sopraffatta, si toglie la divisa, resta in maglietta bianca, imbraccia un fucile e grida in arabo ai terroristi di andare verso di lui, fingendosi uno di loro, e quando gli sono vicinissimi gli spara a bruciapelo, uccidendoli. Il racconto della scelta dei singoli di agire solo con le proprie forze davanti al Male è un altro tassello della strage, completa ed integra le testimonianze delle vittime.
Il brutale risveglio
È questo il racconto che ha generato la scossa collettiva, risvegliando Israele sul pericolo della distruzione di un Paese che si era oramai abituato a considerarsi una “Start Up Nation”, protagonista delle innovazioni del XXI secolo. Gli israeliani si sentivano proiettati verso le nuove mete della conoscenza globale ma hanno scoperto che devono ancora battersi con tutte le forze per guadagnare il più primordiale dei diritti: quello all’esistenza. Da qui la sensazione di essere in bilico, che questa nazione torna a percepire, proprio come avvenne nel 1948 o nel 1967.
All’epoca della Dichiarazione di Indipendenza, infatti, David Ben Gurion leggendola si impose su molte resistenze interne, da parte di chi riteneva che gli ebrei erano troppo pochi e troppo male armati: sarebbero stati travolti facilmente dagli assai più potenti eserciti arabi, non c’era speranza di farcela. E nelle settimane precedenti alla guerra del 1967 Levi Eshkol, allora premier, fece scavare le fosse comuni dimostrando di prendere assai sul serio le minacce quotidiane dell’Egitto di Gamal Abdel Nasser di travolgere il giovane Stato, sterminarne gli abitanti e gettare a mare i pochi che sarebbero sopravvissuti. Più volte, nella sua breve Storia, Israele si è trovato davanti a sfide senza precedenti, talmente imponenti da poterlo sopraffare. Come fu anche l’attacco a sorpresa di Egitto e Siria nella Guerra del Kippur del 1973, quando l’esercito di Anwar Sadat sciolse con potenti getti d’acqua i bunker costruiti nella sabbia dal generale Bar Lev lungo il Canale di Suez e i tank di Hafez Assad dilagarono sulle Alture del Golan, arrivando alle soglie di Tiberiade. Quanto sta avvenendo in questi giorni ha molte analogie con questo passato.
Vivere sottovoce
Israele teme il peggio e torna, d’istinto, a comportarsi come avveniva nei primi decenni di esistenza, quando lo stato d’emergenza era quotidiano. Ecco perché il Paese vive sottovoce. A Machanè Yehuda, il mercato popolare della Gerusalemme ebraica, i venditori ci sono e le botteghe sono aperte ma non si grida più per attirare gli acquirenti. A Rechov Yafo, la strada principale, prevale il vuoto e nei negozi aperti, coperti di bandiere, le uniche musiche che si ascoltano sono canzoni che evocano l’origine del Paese, come “Erev Shel Shoshanim”, la sera delle rose che Yafa Yarkoni cantò nel 1957. I ristoranti più cari e per turisti sono in gran parte chiusi mentre restano aperti i locali più piccoli, a volte angusti, come “Rahmo” a Machanè Yehuda e “Pinati” su King George Street: pochi tavoli e tovaglie di carta, dove operai e famiglie vengono da sempre per mangiare con pochi sheqel, humus caldo con falafel o con carne.
Ascoltando Kol Israel, la radio che ogni ora aggiorna su tutto. Il traffico è scomparso e con lui l’assordante suono dei clacson. Le strade di Gerusalemme che fino a due settimane fa sembravano diventate troppo strette per una città con 800 mila anime, adesso tornano ad essere troppo grandi per i pochi veicoli che vi transitano.
Il motivo è che una buona parte della popolazione, qui come ovunque, è sotto le armi. Sono rimasti in città solo i più giovani, gli anziani, i funzionari necessari per tenere aperti uffici pubblici e trasporti, uomini o donne non più in età per essere richiamati. La parte più produttiva, vitale, creativa, d’Israele semplicemente non si vede più: è altrove a preparare la difesa più difficile e imprevista. I più anziani ricordano che fu così anche prima del 1967 — quando le ostilità arrivarono dopo tre settimane di assedio dei Paesi arabi — e dopo l’attacco a sorpresa del 1973. Tutti sanno cosa sta avvenendo perché ogni famiglia ha qualcuno sotto le armi: padri, madri, figli e figlie, nipoti.
E come avveniva negli anni Sessanta e Settanta, l’unica cosa nota è se i propri cari in divisa sono “al Nord”, “al Centro” o “al Sud”, i tre fronti da presidiare. Shalom, con un figlio e tre nipoti — due maschi ed una femmina — richiamati, lo spiega così: «Ci hanno detto in che area sono, non cosa stanno facendo, quello che rischia di più è mio nipote al Sud». Quando dice «al Sud» gli occhi diventano rossi. Shalom ha 83 anni, ha visto tutte le guerre e in molte ha combattuto, è un insegnante, appartiene alla vecchia generazione laburista, non ama il premier Netanyahu né il Likud ma dice «ora dobbiamo eliminare questi barbari, poi torneremo ad occuparci di politica». A pensarla come lui è Harel Wiesel, il proprietario della rete di grande distribuzione “Fox”, uno dei businessmen più in vista del Paese, indomita voce di spicco del movimento di protesta contro la riforma della Giustizia proposta dal governo. Ecco le sue parole: «Davanti a ciò che è successo non c’è più destra o sinistra, Netanyahu è il premier di tutti, è il mio premier, se non vinciamo contro Hamas non ci sarà più alcuna Israele, le mie idee adesso non contano, ciò che conta è l’esistenza della nostra nazione e del nostro popolo».
Il padre di Harel Wiesel sopravvisse ad Auschwitz, i figli sono nelle unità speciali e lui sente la responsabilità del momento: il ruolo dei civili che restano a casa è unire il popolo. Congelando le laceranti divisioni interne che nelle ultime 40 settimane hanno indebolito il Paese. Per questo c’è un’altra Israele, che non si vede a occhio nudo, fatta di decine di migliaia di persone che ovunque possibile si incontrano ed organizzano iniziative per sostenere i soldati e prepararsi ad affrontare un lungo conflitto. Ci sono catene di volontari — donne e uomini — che cucinano in continuazione per inviare pasti caldi ai militari, organizzano come trasportarli, preparano gruppi di docenti online se il conflitto dovesse causare la chiusura prolungata delle scuole e pensano alle attività da far svolgere ai bambini in tenera età. Più i centri urbani sono piccoli, più i gruppi di volontari sono meticolosi. L’effervescenza è sotterranea ma è ovunque, chiunque può fa qualcosa. Ma sempre sottovoce. È una nazione che torna alle origini, perché è lì che c’è la ricetta della sopravvivenza.
Accerchiati dall’Iran
La pianificazione della vita civile in tempo di guerra ha una partecipazione universale e ricorda quanto avvenne nel 1948, allorché la guerra d’Indipendenza fu combattuta in ogni angolo del Paese, dentro ogni città, villaggio e kibbutz. Come potrebbe essere anche ora. Perché il nemico non è solo Hamas ma anche l’Iran che lo sostiene, assieme a tutti i gruppi militari che eseguono gli ordini di Teheran. C’è un’infografica iraniana, pubblicata online da Iran International News, che descrive la strategia di Teheran: attaccare lo Stato Ebraico da ogni direzione usando i missili a lungo raggio e tutte le milizie armate create dai Guardiani della rivoluzione in Libano, Siria, Iraq, Yemen, Gaza e Cisgiordania.
Questo significa che l’operazione di terra nella Striscia può rivelarsi solo uno dei teatri di combattimento. «Due settimane fa nessuno di noi immaginava che l’Iran volesse realizzare il piano di distruggere Israele — afferma l’analista Alon Ben David dagli schermi di Canale 13 — ma ora dobbiamo fare i conti con questa realtà». Ciò comporta essere uno dei fronti del conflitto fra le democrazie ed i loro nemici di cui il presidente Joe Biden ha parlato giovedì notte agli americani. Anche per questo all’inizio di Rechov Yafo, proprio dove fino al 1967 passava il confine che divideva la città, il “Putin Pub” ha chiuso i battenti, ed anche la sua insegna non c’è più.