Nei giorni dell’orrore Israele ha ritrovato l’unità smarrita
Il racconto del viaggio da Ashhelon a Sderot fino al kibbutz martoriato di Kfar Aza e all’incontro con Herzog e Gantz. Ora si respira un’atmosfera di fraternità che contrasta con i mesi sull’orlo d’una guerra civile
Come al tempo della guerra dei sei giorni e della guerra del Kippur, come al tempo delle guerre del Libano e delle prime guerre di Gaza… in questo funesto 7 ottobre arriva la notizia del pogrom in corso nella terra che gli ebrei credevano fosse per loro un rifugio. E io, come faccio ogni volta da mezzo secolo, per principio, per essere là, proprio là, al fianco di questo Israele fragile e forte, imperturbabilmente democratico nonostante gli si neghi l’esistenza, salgo sul primo volo.
Vado ad Ashdod e Ashkelon, città costiere vicine alla Striscia di Gaza nelle quali, quando suonano le sirene, i pochi automobilisti in circolazione fermano l’auto in mezzo alla strada e si gettano in un fosso. Faccio una deviazione per andare a Be’er Sheva, che si trova più a Est, alle porte del deserto, e ospita il Soroka Medical Center, presso il quale vedo una processione di elicotteri scaricare feriti a un ritmo infernale. Poi torno verso Sderot che, ogni volta che scoppia una guerra, è la più esposta fra le città del Sud e mi accorgo di averla sempre vista sotto una pioggia di missili.
Che aspetto ha Sderot quando i bambini vanno a scuola, quando possono ridere e giocare invece di stiparsi nelle cantine degli edifici di viale Abergel dalle quali, nonostante lo spessore del cemento, si sentono fischiare i razzi? Che aspetto ha Sderot quando non ci si imbatte, in mezzo alla via Menachem Begin deserta, sul cadavere gonfio, con le gambe nerastre nude e l’arma ancora accanto, di uno jihadista ucciso durante le ultime fasi dell’assalto che, come altri più distanti, non si è avuto il tempo di coprire con una coperta di emergenza o con un lenzuolo?
E chi è Yossi, 83 anni, quando non deve trascorrere la notte in cantina sentendo, sopra la sua testa e quelle dei nipoti, i passi degli assassini che lo cercano – sanno che c’è, lo chiamano per nome, chiamano per nome i bambini che lui supplica, in silenzio, portando un dito alle labbra, di non rispondere e di non piangere… e per due volte gli assassini scendono e cercano di aprire la porta senza chiavistello contro la quale egli spinge con le sue poche forze, per tenerla ferma e far credere che sia murata… com’è il suo sguardo, quando non ha quell’aria spiritata e giovanile che il gesto da «padre coraggio» vi ha infuso?
Questa mattina Sderot è una città morta. Le sue strade sono vie dolorose e deserte in cui ci si domanda per chi brilli il sole. Il comandante della caserma dei pompieri è stato ucciso a bruciapelo mentre cercava di spegnere l’incendio divampato nella casa di una coppia di disabili ed è solo in occasione del suo funerale che incontro qualche persona: il sindaco; alcuni cecchini, posizionati all’ingresso, che a turno vengono a raccogliersi davanti al feretro; i pompieri, uniti in un dolore muto.
L’atmosfera da città fantasma, la morte che sovrasta tutto, lo scheletro del commissariato di polizia che si è dovuto distruggere per stanare gli ultimi terroristi e lo strano spettacolo di Gideon Levy, giornalista di Haaretz e vedette del fronte pacifista, in amichevole conversazione con un soldato che porta la kippah davanti alle macerie della facciata, spezzano il cuore. Verso Sud, nei kibbutz dove gli islamisti di Hamas hanno compiuto i loro massacri, la situazione è più dura. Quando arrivo a Kfar Aza, l’esercito ha finito di rimuovere il grosso dei cadaveri. Seguo un’unità di Zaka, un’organizzazione, più o meno integrata nell’esercito, che ha il compito di recuperare resti umani al fine di dare ai corpi, una volta ricomposti, una sepoltura degna, umana ed ebraica.
L’unità è composta da volontari civili e militari. Alcuni sono infuriati per l’incuria del governo, un altro, quando l’unità si raccoglie in cerchio, per la pausa caffè, nel giardinetto di un kibbutz devastato e trasformato in quartier generale, spiega che nessuno può mai fare nulla per fermare la follia del branco.
Sono laici e religiosi che fino alla settimana scorsa si battevano per essere esonerati dal servizio militare ma, quando la guerra è stata dichiarata, si sono precipitati, come tutti i riservisti, come chiunque altro, a raggiungere le proprie unità. Regna un’atmosfera di fraternità che contrasta con gli ultimi mesi trascorsi sull’orlo di una guerra civile. Conta il compito sacro di andare a recuperare, fra le case della zona Ovest, vicine alla barriera di sicurezza in cui gli aggressori hanno aperto una breccia, un pezzo di carne annerita, un piede intatto rimasto infilato nella scarpa, una traccia di Dna, una macchia di sangue.
Presto però ci dobbiamo fermare perché ci imbattiamo nel corpo di uno jihadista e temiamo che possa essere minato. Subito dopo c’è un momento di panico perché pare che ci siano due terroristi nelle vicinanze: si sarebbero appena infiltrati attraverso una nuova breccia, o attraverso la stessa ma allargata, non si sa. Sentiamo un drone sopra di noi e una serie di detonazioni sorde e ravvicinate. A quel punto arriva un’unità da combattimento: alcuni soldati si posizionano con un ginocchio a terra, altri si arrampicano sul tetto, altri ancora si dirigono a balzi verso la barriera di sicurezza tagliata con le cesoie, dalla quale proviene un fascio di scintille.
Mi fanno entrare in una casa sventrata, i cui abitanti sono stati uccisi. Vi resterò per due ore senza nient’altro da fare che ascoltare un vicino sopravvissuto che mi racconta l’assalto e mi accompagna nelle stanze di quel teatro di supplizi. L’intonaco del soffitto sgretolato dai proiettili… I muri crivellati di colpi… Il divano color crema che un’esplosione ha sollevato da terra e scaraventato, attraverso il salone, fino alla vetrata in frantumi… Nella stanza da letto dei genitori vedo il letto disfatto, bigodini, pantofole distrutte… In quella dei bambini un gatto a pile che miagola ogni mezz’ora… In cucina, una tazza di cioccolata intatta, il tostapane, lo sciroppo per la tosse, un peluche, il cesto per la biancheria rovesciato… In fondo a un corridoio c’era la camera blindata, gli assalitori non sono riusciti ad aprirla e hanno dovuto farla saltare con una granata.
Non credevo di potermi emozionare tanto davanti a degli oggetti inanimati. Né davanti al ritratto a carboncino, appeso al muro, di un sessantenne con la camicia ampia, il gilet senza maniche, la pipa in bocca e il cappello floscio gettato all’indietro, che mi ricorda i contadini di Steinbeck o i pionieri di Israele dei romanzi di Abraham Yehoshua o di Amos Oz.
Del resto, che cos’è Kfar Aza? E che cos’ha in comune con Sa’ad, Bé’eri e Re’im, le altre località martiri di questa zona di Israele? Non sono, giustamente, delle località. Né soltanto villaggi. Sono kibbutz, le comunità rurali tipiche dell’Israele degli esordi che qui resistono ancora oggi. Sono la testimonianza vivente di un Israele libertario e liberale, i cui abitanti spesso sono fra i più ferventi sostenitori della pace con i palestinesi.
Hamas contro i kibbutz. Le Einsatzgruppen islamiste contro i seguaci di una delle poche utopie del XX secolo che non sia finita in pezzi. Anche questo fa parte del senso della guerra che sta per cominciare.
Non c’è modo, nel momento in cui scrivo, di prevedere come sarà l’offensiva di terra dell’Idf, se sarà a tappeto o mirata, lunga o breve, né di dire se ci sarà davvero… A Gerusalemme però ho incontrato Yitzhak Herzog, l’undicesimo presidente di Israele; il suo potere, in linea di principio, è puramente simbolico ma il suo carisma e il discredito in cui è caduto Netanyahu ne hanno fatto una figura centrale della scena politica nazionale.
Non pronuncia mai la parola «vendetta». Nemmeno per un momento, questo ex avvocato intriso di cultura ebraica e di umanesimo si discosta dall’atteggiamento saggio e misurato che ha sempre avuto. Ma percepisco che è inquieto. Quasi impaziente. È convinto di una cosa: il massacro del 7 ottobre è la «peggiore tragedia della breve storia di Israele». E di un’altra: Hamas non è «né un’organizzazione di resistenza né un movimento di liberazione nazionale, è un gemello dello Stato islamico». E il mondo occidentale – insiste – ora si trova al «momento della verità»: capirà che è impossibile non punire chi ha sgozzato i ragazzi del festival musicale Supernova? Farà in modo, assieme a Israele, «che chi ha ordinato questa infamia, che si trovi a Gaza, a Doha o a Teheran, non possa farlo mai più?» E che cosa dirà l’Europa davanti allo spettacolo di quella che «il nostro amico Claude Lanzmann», in un bel film, chiamava la ritrovata forza degli ebrei?
A Tel Aviv, incontro l’ex vicepremier Benny Gantz prima che accetti la proposta di Netanyahu di entrare nel governo di unità nazionale. Sa di correre un rischio politico personale. Ma non è più una questione personale, mi dice. Prova ne sia che si è ripromesso di lasciare il Gabinetto nel momento stesso in cui la guerra sarà vinta… Prima però bisogna combatterla. Bisogna rendersi conto che lo Stato ebraico, minacciato lungo tutte le sue frontiere, è sull’orlo del precipizio. E bisogna tenere presente che ci sono momenti difficili in cui tutto Israele, sotto la duplice spinta dei nemici all’esterno e, all’interno, del cedimento degli animi, rischia di sprofondare. Per Gantz come per il presidente, non ci sono dubbi: i palestinesi non sono nemici di Israele ma Hamas deve assolutamente essere distrutta.
E poi ho visto le unità dell’Idf sul campo, posizionate intorno alla Striscia di Gaza, che si preparano a entrare in azione con bulldozer antimine, carri armati veri e finti e una miriade di riservisti. Il rombo dei cingoli dei carri armati che si scaldano. Gli elicotteri sopra le nostre teste, il brusio indistinto di questa massa di giovani donne e uomini, venuti da tutte le nazioni del mondo per affrontare una delle prove più tragiche della storia dello Stato.
Riusciranno a salvare allo stesso tempo il loro popolo e gli ostaggi? Sapranno restare fedeli alla morale ebraica che, per esempio, al pronto soccorso di Be’er Sheva impone – l’ho visto con i miei occhi – di curare sia gli jihadisti catturati, sia i bambini ebrei miracolati?
E la famosa purezza delle armi, tanto cara ai pionieri di Israele? Quella tohar haneshek secondo cui in ogni unità dell’Idf, assieme agli uomini d’armi, devono esserci uomini di legge e di principi capaci di discutere o respingere un ordine se non lo ritengono conforme al diritto internazionale o all’etica? Che valore avranno, quegli imperativi, di fronte al cinismo smisurato di un avversario che prende in ostaggio il suo stesso popolo e non esita a farne un bersaglio, se in quel modo può trasformarlo in uno strumento di propaganda?
Che cosa farà l’Egitto, nazione a suo dire alleata e sorella del popolo palestinese? Aprirà la sua frontiera alle centinaia di migliaia di gazawi a cui verrà chiesto di lasciare la parte settentrionale della Striscia per mettersi al riparo dalle bombe che cadranno sui depositi di munizioni, i centri di comando e i tunnel di Hamas? E questi giovani soldati torneranno vivi da Gaza? Fra loro ci sono persone di sinistra e di destra. Sostenitori di Netanyahu e suoi oppositori, che loro malgrado lo riconoscono come comandante in capo. Ebrei che portano i tefillin e altri che non li portano. Non ho sentito nessuno di loro negare che questa guerra, ahimè, sia giusta e che sia necessario vincerla.