Etgar Keret: “Hamas massacra gli ebrei e tradisce i palestinesi”
Lo scrittore israeliano: “Questo è un periodo felice per gli estremisti. Il governo Netanyahu deve andare via prima che la guerra finisca, non dopo: è un nodo gordiano affidare a chi ha creato questa situazione il compito di risolverla”
TEL AVIV – Dal soggiorno della sua casa assolata poco lontano dal centro di Tel Aviv, Etgar Keret riflette sul suo Paese e quanto gli è accaduto dal 7 ottobre a oggi con lo sguardo quanto più possibile distaccato e tagliente che si ritrova nei suoi libri. «È come stare in una serie Netflix, ma di quelle brutte – racconta mentre ci prepara un caffè che, per sua stessa ammissione, non sa fare –: nella prima stagione c’è “Il Governo”, con personaggi come Smotrich e Ben Gvir (il riferimento è ai due ministri dell’ultradestra dell’esecutivo Netanyahu, ndr). Nella seconda “Il Golpe”, ovvero la riforma giudiziaria. La terza sarebbe intitolata “Il Massacro”. Tu, spettatore, resti seduto a chiederti cosa conterrà la quarta stagione, cosa altro può accadere di orribile».
Keret parla accarezzando Hanzo, il coniglio bianco che da otto anni fa compagnia alla famiglia e che in queste settimane, più che mai, ha la funzione di calmante collettivo della casa. Ha appena finito, come fa ogni fine settimana da metà ottobre a questa parte, di inviare via WhatsApp pensieri e parole a chi, nella crisi, si è rivolto a lui. «Persone che non trovavano le parole, o che dicono di non saper scrivere. Per la maggior parte, mi hanno contattato sui social network, chiedendomi di scrivere per loro, o le ho incontrate nei vari eventi a cui ho partecipato. Ogni sabato metto insieme le mie “note” e gliele mando». Fra i destinatari ci sono una ragazzina che ha perso il padre il 7 ottobre, l’ex fidanzata di un soldato che è a Gaza, e molti altri: ogni storia è un mondo a sé. «Magari un giorno confluirà in un libro?», chiediamo. «Non so. Per settimane non sono riuscito a scrivere nulla che fosse fiction. Solo qualche giorno fa mi è venuto un racconto: un ultraortodosso che cerca disperatamente la preghiera giusta, convinto che se la troverà riuscirà a salvare il mondo».
A salvare il suo di mondo, Keret non pensa affatto: a differenza della generazione di scrittori precedenti alla sua, David Grossman, Amos Oz, Abraham Yehoshua, questo 56nne non ha mai voluto essere la voce di Israele, né mettere il tema della convivenza con “l’altro”, inteso come i palestinesi, al centro della sua opera. Ma oggi al confronto è impossibile sfuggire.
Signor Keret, come sta Israele?
«Sicuramente non siamo più quelli che eravamo due mesi fa. Posso dirle come mi sento io: un po’ meno essere umano, un po’ più scarafaggio. Ha molto a che fare con la maniera in cui abbiamo vissuto il 7 ottobre: dentro le stanze delle persone che stavano per morire o per essere rapite. Quel giorno nessuno ha risposto: né l’esercito, né le istituzioni. Chi aveva bisogno di aiuto ha chiamato la televisione: e noi in diretta abbiamo sentito le suppliche di queste persone e poi le abbiamo viste scomparire, gradualmente, sotto ai nostri occhi. In contemporanea, hanno iniziato ad arrivare le immagini delle bodycam di Hamas. Un Paese intero ha vissuto l’orrore in prima persona: questo spiega la totale identificazione che c’è ora nelle storie degli ostaggi e delle loro famiglie, come se fosse un reality show. C’è gente che sta male per loro, per questo gioco a eliminazione che abbiamo vissuto sera dopo sera per una settimana, come fosse “Squid Games”. Settecento famiglie di sono fatte avanti per adottare la piccola Abigail (la bambina di quattro anni che ha visto i genitori uccisi a Kfar Aza ed è stata liberata sei giorni fa, ndr), come se non avesse una famiglia. Abbiamo perso la lucidità, viviamo in uno stato di costante confusione. La mia sfida, ora che ho messo a fuoco questa dinamica, è restare lucido. Ogni tanto mi dico “Vai e prenditi cura del tuo coniglio, altrimenti impazzirai”. E così faccio».
E allora da dove si riparte?
«Questa è una domanda difficile. Le persone più colpite dall’attacco del 7 ottobre sono quelle che più avevano lavorato per costruire ponti, da una parte e dall’altra. Gli abitanti dei kibbutz, gente di sinistra per la maggior parte, che lavorava con e per la popolazione di Gaza. Ma anche gli arabi-israeliani che sono stati licenziati o si sono dimessi perché avevano troppa paura a venire a lavorare. Su Facebook tante persone mi hanno detto: “E ora? Ora tu e quelli come te vi scuserete?”. Scusarci di cosa? Di essere stato contro Hamas mentre il vostro primo ministro (il riferimento è a Netanyahu, ndr) li faceva crescere? Questo è un periodo felice per gli estremisti. Non so da dove ripartiremo, ma credo che la sfida debba essere cambiare questo governo prima che la guerra finisca, non dopo: è un nodo gordiano affidare a chi ha creato questa situazione il compito di risolverla».
Lei ha scritto parole molto belle su come la sinistra israeliana si senta tradita dall’appoggio del mondo progressista per la causa palestinese. Può spiegarci cosa intendeva? Che cosa è che sfugge ai progressisti, secondo lei?
«Faccio un passo indietro e le dico che se guardo le cose a distanza, è l’intero mondo a essere impazzito, non solo chi parla di Israele: è qualcosa di più grande di questo conflitto e ha molto a che fare con i social, con la velocità con cui si prendono posizioni su cose che non si conoscono: salvo poi dimenticarle. Come le bandiere dell’Ucraina, sostituite da quelle palestinesi. Io dico che prima di parlare di Medio Oriente devi almeno – sottolineo, almeno – esserti letto due voci di Wikipedia: quella su Hamas e quella su Netanyahu. Poi, possibilmente, un paio di capitoli di libri di Storia su questa regione. Non venite a dirmi che quelli del 7 ottobre erano palestinesi che si battevano per i due Stati: hanno ucciso in nome del fondamentalismo religioso, è l’Iran a cui rispondono, non alla causa palestinese. Forse che si battevano per i palestinesi era vero anni fa, non lo è più oggi: non parlavano di Palestina, parlavano di uccidere ebrei. Hanno massacrato anche stranieri, donne con l’hijab, chi quel fondamentalismo non lo condivide».
Nei Territori palestinesi però il consenso per Hamas cresce. La gente dice di essersi sentita abbandonata per anni: dai Paesi arabi, dalla comunità internazionale: e che Hamas è l’unica ad aver fatto qualcosa.
«Prima di tutto, la crescita di Hamas è anche frutto delle politiche di Netanyahu: l’idea che ha portato avanti per vent’anni che la violenza di Hamas poteva essere contenuta, interfacciandosi con loro piuttosto che con un partner pragmatico, laico, che non tira fuori Allah ma vuole risolvere le questioni. Io credo che se lei chiedesse in privato alla gente di Ramallah o di Gaza se davvero Hamas ha fatto qualcosa di positivo per la causa palestinese, avrebbe una risposta molto diversa da quella che danno in pubblico. Credo che nessuno pensi che più di 14mila morti, le case distrutte, le famiglie devastate, i rifugiati abbiano contribuito a far avanzare la causa palestinese».
Vorrei tornare sul senso di abbandono di cui abbiamo parlato prima: in queste settimane, abbiamo visto gli israeliani attaccare le Nazioni Unite e le grandi ong, il Comitato internazionale della Croce rossa, chi invoca il rispetto delle convenzioni internazionali sulla protezione dei civili: non sono eccessive queste critiche?
«Conosco una persona che è a Gaza: ha bisogno di medicine, è sopravvissuto all’Olocausto. Ho sentito di bambini marchiati con le marmitte delle moto: e in mezzo a tutto questo, la Croce rossa rifiuta di portare medicine perché non è il suo mandato. A me pare una follia: non solo questo, molto altro mi pare una follia. Pensate davvero che gridare “From the river to the sea”, dal Fiume al Mare, convincerà Israele a fermare le bombe? O piuttosto non ci farà pensare che non c’è nulla di cui possiamo discutere con chi dice certe cose? Non capisco le dinamiche come quelle delle organizzazioni omosessuali che sfilano per un’organizzazione che vuole uccidere gay e lesbiche. Mi pare che sempre più persone vivano lontane dalla realtà, quella autentica, non quella che pensiamo che sia autentica».
dalla nostra inviata Francesca Caferri