Il Diario di Eshkol Nevo da Israele, quinta puntata: «I segni di un incubo che non vuole finire»
di Eshkol Nevo
Scrivo narrativa. Ho sempre scritto narrativa. Ho sempre trovato molto più interessante rispondere alla domanda «cosa sarebbe potuto succedere» piuttosto che alla domanda «cos’è successo». Ai miei studenti di scrittura creativa insegno: la realtà rappresenta un buon materiale di partenza. Prendete il necessario, ma non lasciate che vi limiti. Per trasformare un evento biografico che vi è successo in una storia, lo dovete portare all’estremo. Se quello che vi è capitato era in carattere 12, quando scrivete ingranditelo a carattere 48. Sarà più incisivo, più pericoloso, e perciò più interessante. Ma cosa fare durante una guerra, quando la realtà stessa si estremizza, fuoriesce dai propri confini e diventa infinitamente più drammatica? Dal 7 ottobre immagazzino momenti. Ascolto molto. Documento. Per la prima volta nella mia vita scrivo la realtà, così com’è.
Soltanto quando arrivo sul taxi che è venuto a prendermi dopo la conferenza do un’occhiata al cellulare per controllare le notizie, e subito mi sfugge di bocca un’esclamazione: oh! No! Il tassista si ferma con uno stridio di freni. Accosta. Cos’è successo? Si gira verso di me, allarmato. Dall’accento capisco che è arabo. Ha dimenticato qualcosa nella sala, signore? Vuole tornare indietro? No, rispondo, lasci perdere, sono le notizie. Una cosa che ho letto sul sito delle notizie. Cos’è successo? Insiste, vuole sapere. Capisco che non ho scelta, devo raccontare altrimenti non si riparte. È Idan Amedi, il cantante Idan Amedi, gli dico, è stato gravemente ferito a Gaza. Non lo conosco, dice l’autista. Che canzoni canta? Canzoni bellissime, dico, canzoni che ti toccano l’anima. Me ne canta una? chiede. Canticchio il ritornello di Parte del tempo e la prima strofa di Dolore dei combattenti, fermandomi apposta prima del ritornello sugli incubi e il sangue. Il tassista non le riconosce. Mi faccia vedere una foto, prega. Cerco su Google una foto di Idan Amidi senza uniforme. Gliela mostro. Ah, sorride, è Sagi, l’attore di Fauda. Che uomo. Sì, confermo, Idan recita in Fauda ed è un vero uomo. Dopo che ci siamo trovati d’accordo l’autista si tranquillizza, mi restituisce il telefono e si reimmette nel traffico. Le strade sono vuote. La notte è silenziosa. Una luna quasi piena illumina l’autostrada. Se credessi in Dio, pregherei.
Stiamo per congedarci dalla nostra figlia soldatessa, siamo venuti a trovarla alla base. La prima visita dall’inizio della guerra. Mia moglie le consegna gli ultimi contenitori di plastica pieni di cibo. Le sorelle più piccole scattano una foto assieme a lei. Poi un’altra, da un’angolazione diversa. Il mio sguardo vaga, si sposta all’esterno. Attraverso la vetrata noto una soldatessa che si avvicina a un soldato. Sono distanti una decina di metri, che lei percorre veloce. Di volata. Lui si muove verso di lei più lento. Più pesante. Più impolverato. Un attimo prima di toccarsi, entrambi spostano il fucile dietro la schiena in un gesto quasi coordinato, così da potersi abbracciare. Si abbracciano a lungo. Poi scostano un pochino la testa per baciarsi sulla bocca. Non piangevo dall’inizio della guerra. Non ci riuscivo. Ma qualcosa nel modo in cui lei gli ha carezzato la testa mentre lo baciava. Nel modo in cui lui si è lasciato andare tra le braccia di lei. Papà? Mia figlia, la soldatessa, mi guarda sorpresa. Piangi? Annuisco. Non ti preoccupare, papino, mi rassicura, sabato prossimo torno in licenza. Andrà tutto bene.
Mio padre ha costruito una casa nel kibbutz Malkia per potersi ritirare in campagna negli anni della pensione, ma quando l’ha terminata mia madre si è rifiutata categoricamente di vivere vicino a Hezbollah. Così la casa non ha abitanti permanenti ed è diventata il nostro rifugio. Mi sono rifugiato nella casa di Malkia durante il Covid, mi ci sono rifugiato quando dovevo rivedere i miei libri, mi ci sono rifugiato ogni volta che volevo ascoltare la mia voce interiore. Adesso non ho più un posto dove rifugiarmi. A Malkia — riferiscono i vicini evacuati in un albergo nella città di Tiberiade — ci sono solo carri armati e soldati, e qualche agricoltore rimasto a occuparsi del raccolto dei kiwi. Cosa sarà successo ai cavalli? Penso all’improvviso. Le passeggiate e il maneggio erano l’attività preferita delle mie figlie a Malkia. Una piacevole passeggiata di mezz’ora, lungo la recinzione del confine, su quegli splendidi puledri.
Mando un messaggio a Rotem del maneggio: come state? Non risponde. Immagino che un missile anticarro di Hezbollah abbia distrutto il recinto delle scuderie e i cavalli siano fuggiti al galoppo. Ma dove? Anche loro, in effetti, non saprebbero dove scappare. Dopo una settimana mi risponde con un lungo vocale: il giorno in cui hanno evacuato gli abitanti del kibbutz è arrivato un camion, i cavalli sono stati caricati e trasferiti in un’altra scuderia che li ospita, a Kfar Vradim. Stanno bene lì? chiedo. Secondo lungo messaggio vocale, questa volta in tono più addolorato. Per la verità no, ammette Rotem. Sono irrequieti, non si sentono a casa, non arrivano bambini a cavalcarli, non ci sono lezioni di equitazione, Mika è depressa e si fatica a portarla a fare un giro, Blondie è nervosa, ha mollato un calcio a uno stalliere. Anche gli altri vorrebbero tornare alla loro stalla, dice Rotem. Hanno nostalgia. Aspettano solo che questo periodo terribile finisca.
Sono mesi, ormai, che Galit, la nostra vicina a Malkia, non può ricevere ospiti a casa sua come ama fare, fra due chiacchiere a cuore aperto e una lettura di tarocchi. Inizialmente l’hanno trasferita in un deprimente albergo a Tiberiade. Poi ha trovato un appartamento temporaneo a Pardes Hanna. Mi sento una chiocciola senza guscio, mi ha scritto questa settimana. Una lumaca. Perciò siamo andati a trovarla. Ci siamo incontrati in un caffè e abbiamo cercato di non parlare della guerra, ma tutti gli argomenti portano al 7 ottobre. Prima di salutarci ha tirato fuori un contenitore di plastica. È frutta del vostro giardino. Cosa? Come? Ieri sono stata a Malkia, ha confessato. Non ne potevo più. Ti hanno lasciato entrare? ho domandato, stupefatto. Non ho chiesto il permesso, ha ribattuto. C’è qualcuno nel kibbutz? ho voluto sapere. Non c’è anima viva. Persino i cavalli hanno trasferito a Kfar Vradim. Cos’hai fatto mentre eri lì? Ho chiesto perplesso. Ha alzato le spalle, mi sono seduta in salotto a respirare aria di casa. Poi ho raccolto i pomeli e le arance dal vostro giardino, era un peccato lasciarli lì. Dopodiché sono iniziati i boom e me ne sono andata. Una volta in macchina apro la scatola di plastica e scopro che Galit ha sbucciato i frutti e li ha riposti in spicchi perché ci fosse più comodo mangiarli. Chissà perché, è proprio questo dettaglio a spezzarmi il cuore.
La mia figlia minore mi telefona. Sente dei rumori in casa, mi prega di rientrare in fretta dal lavoro. Le rispondo che ci metterò mezz’ora e chiede che nel frattempo rimaniamo al telefono. Le domando cosa sente esattamente. Mi sussurra: qualcuno parla dentro casa. Le dico, va bene, continuiamo a parlare fino a che non arrivo. Sussurra, la batteria sta per scaricarsi. Allora metti il telefono in carica, suggerisco. Non posso, sussurra di nuovo, sono attaccata alla porta e il caricatore è distante. In che senso? Non capisco. Perché sei attaccata alla porta? Sono attaccata alla porta e tengo la maniglia, per impedirgli di entrare se ci provano, sussurra, e io mi rendo conto che, anche se il 7 ottobre non eravamo in Israele, e anche se abbiamo cercato di proteggerla dall’orrore, qualcosa è comunque filtrato. Allora adesso riattacchiamo e tu mi richiamami solo se le voci si avvicinano, le propongo. Accetta. Premo l’acceleratore. Supero da destra. Supero da sinistra. Brucio un semaforo rosso. Quando arrivo, la casa è silenziosa. Apro la porta ed entro. Sono pronto al peggio. Non c’è nessuno. Mi precipito verso la sua stanza. Busso alla porta. Chiede chi è e le rispondo, papà. Apre, mi si butta tra le braccia, piange. Le dico che è stata molto coraggiosa.
La mia ex studentessa mi racconta che i messaggeri dell’esercito hanno cercato lui, il padre, e solo dopo averlo rintracciato a casa della nuova compagna a Holon hanno potuto notificare anche a lei. È la procedura se i genitori sono divorziati. Bisogna sincronizzare l’annuncio. Il suo ex marito è seduto di fronte a noi, sul divano, mentre lei me lo racconta. È curvo. Non sapevo che avessero divorziato. E adesso il loro figlio è stato ucciso a Gaza. Significa che saranno uniti per sempre, penso. Nel lutto. Nella nostalgia. Nel sapere cosa avrebbe potuto essere, e invece. Ma forse chiunque divorzia e ha figli non si separa mai davvero. Suo figlio aveva la ragazza, mi racconta la madre. Una storia seria. Già da due anni. Si sono conosciuti nella gelateria dove lavoravano insieme.
Eccola lì, indica una ragazza a disagio, con una treccia bionda, seduta su una sedia di plastica vicino alla finestra. Nessuno si avvicina a confortare lei. Il fidanzato di mia zia Margalit è stato ucciso nella guerra del Kippur, mi torna in mente, e ha continuato a parlarne per anni. Mi ha sempre stupito, quanto fosse vivo per lei. Quanto non riuscisse a dimenticarlo. Forse non si riesce mai a separarsi davvero da una persona a cui non si ha avuto la possibilità di dire addio. Arriva una nuova ondata di visitatori a portare le condoglianze. Restano in piedi e cercano un posto per sedersi. Mi alzo, e mentre mi congedo dalla mia studentessa e dal suo ex marito mi offro di aiutare, in caso vogliano fare qualcosa con tutte le lettere lasciate dal figlio. È così che mi comporto quando non so come salutare: offro aiuto.
«Ciao Eshkol, sono Tomer, papà di Omri Schwartz, caduto a Gaza poco più di un mese fa. Questo foglio si trovava tra l’equipaggiamento che ci hanno restituito insieme a lui. L’ho letto alla cerimonia per il trentesimo giorno dalla sua sepoltura». Clicco sulla fotografia allegata e scopro che è un brano dell’ultima pagina di Nostalgia, che contiene un elenco di buoni propositi per il futuro e termina con la frase «E poi, voglio tornare a casa». Sono seduto al food truck di Sho’eva. Mi sono fermato lungo la strada mentre viaggiavo da Gerusalemme verso casa, in teoria per bere un caffè ma di fatto per restare in giro più a lungo: attenua un pochino l’oppressione al petto. Avevo intenzione di rispondere ad alcune mail di lavoro, e all’improvviso questo WhatsApp. Quando guidi sotto la pioggia battente che infuria sui finestrini dell’auto e passi sotto un ponte, di colpo cala il silenzio. Assordante. Così mi sento quando leggo il WhatsApp di Tomer, papà di Omri. Lo rileggo. E anche il brano allegato. Mi manca l’aria. Tutte le promesse che Omri non potrà mai realizzare. Rifletto a lungo su come rispondere a suo padre Alla fine scrivo: «La ringrazio per avermi scritto. Mi emoziona sapere che ha letto queste parole alla cerimonia per Omri. Vi mando un abbraccio e le mie condoglianze, sono disponibile per qualunque cosa vi possa servire». Il cielo ricomincia a piangere. I lavoratori del food truck piegano le sedie e poi chiudono del tutto. Sono costretto ad andare a casa. Questa guerra va avanti da cinque mesi ormai, calcolo, genitori perdono figli e figli perdono genitori, da entrambe le parti, e non ci sono segni che l’incubo stia per finire. Sulle colline vicino a Sha’ar Hagai i mandorli fioriscono in una meravigliosa nuvola candida e io non ho alternative, devo chiamare a raccolta tutte le risorse della mia immaginazione per credere che alla fine qui nascerà una realtà diversa.