La newsletter N.7 Dicembre 2024
IN QUESTO NUMERO – DICEMBRE 2024
Editoriale
A che punto è la storia – Victor Magiar
Notizie
- Notizie in breve dall’Italia, da Israele e dal mondo – Ludovica De Benedetti
Analisi e commenti
- USA, Europa, Israele: il vento del populismo soffia contro le democrazie? – Intervista a Gianfranco Pasquino
- Trump visto da Israele: timori e speranze – Gabriele Eschenazi
- La politica tra sovranismo e populismo – Intervista a Davide Allegranti
- Il movimento femminista e il Medio Oriente, un anno dopo – Intervista a Paola Tavella
- Pogrom: la nostra parola malata che dal 7 Ottobre ad Amsterdam ci fa pensare (e vivere) male – Sara Natale Sforni
- Enzo Sereni e l’intellettuale europeo, oggi – Colloquio con David Bidussa
- Sul libro di Anna Foa – Anselmo Calò
Dall’Associazione
- Laboratorio Rabin: antisemitismo a sinistra
- Discusso a Roma il libro di Anna Foa – Flavia Di Castro
- Sinistra per Israele: perché? – Aldo Winkler
- Bologna: gruppo di lettura letteratura israeliana – Anna Grattarola
- Torino: Al via la costituzione della sezione Torino-Piemonte
Rassegna stampa
Simone Santucci
EDITORIALE
Victor Magiar
A CHE PUNTO È LA STORIA
Ottanta anni fa tutti gli Stati arabi erano in guerra contro Israele: oggi nessuno.
Un cambiamento enorme reso ancora più significativo dal fatto che in questo ultimo anno, per ben due volte, alcuni Stati arabi hanno addirittura contribuito a difendere Israele dagli attacchi lanciati dall’Iran.
Mondo arabo vs panislamismo.
Il Mondo arabo, lasciata alle spalle la fallimentare esperienza panarabista (con la sua lunga collezione di dittatori sanguinari) sta cercando da diversi anni di liberarsi anche della tragica ideologia panislamista che ha già causato enormi disastri e che ha insanguinato non solo il Medio Oriente ma anche le terre africane e le strade d’Europa.
È infatti islamista l’alleanza contro Israele: un’alleanza di fazioni finanziate ed armate dall’Iran e ambiguamente sostenute dalla Turchia, due paesi, questi, non-arabi. E islamiste sono anche buona parte delle fazioni belligeranti nelle oltre 50 guerre in corso oggi nel mondo.
Il patto “tacito” fra buona parte dei Paesi (regimi) arabi ed Israele è così forte che – nonostante la gravità del conflitto in corso che si trascina da più di un anno – non solo gli Accordi di Abramo restano ancora in piedi ma addirittura i governanti Sauditi (che vietano sul proprio territorio qualsiasi manifestazione pro-Palestina) non perdono occasione per ribadire che sono pronti a siglare anche loro un accordo con Israele una volta individuata una soluzione della questione palestinese, ovvero, più cinicamente, quando Israele “avrà finito il lavoro”.
È bene capire che un patto così forte – che non si rompe dopo 14 mesi di guerra, dopo decine di migliaia di morti, e che comporta addirittura la difesa indiretta di Israele – è qualcosa davvero importante per i regimi arabi: non si tratta di “amore” ma di una fondamentale scelta strategica che permetterà di affrontare e risolvere un ineludibile nodo storico mai sciolto dalla caduta dell’Impero Ottomano, ovvero l’accesso alla modernità del mondo arabo-islamico.
L’accesso alla modernità del mondo arabo-islamico.
Dopo le disastrose esperienze del panarabismo e del conseguente “ripiegamento” islamista, le leadership arabe stanno cercando da alcuni anni di concretizzare una politica pragmatica e realistica capace di conciliare modernità e tradizione arabo-islamica: una visione del resto già delineata negli anni Cinquanta dal lungimirante presidente tunisino Bourghiba.
Dopo le fallimentari collaborazioni con i Paesi occidentali o del Blocco sovietico – che mai hanno realmente contribuito al progresso delle popolazioni dei Paesi arabi – la collaborazione con Israele, che sarebbe una “collaborazione alla pari”, rappresenta la possibilità di una rivoluzione politica, economica e tecnologica senza precedenti.
Non ci vuole molto ad immaginare cosa potrebbe nascere dal sodalizio fra l’avanzatissima tecnologia e ricerca scientifica israeliana e le infinite risorse finanziarie dei paesi del petrolio: un nuovo “mercato comune”, un enorme spazio di scambi commerciali, consumi e turismo; un nuovo Medio Oriente “più sicuro” e la formazione di società più aperte, animate da inedite classi medie lavoratrici, insomma, l’approdo alla modernità.
È questa una decisiva questione storica che sfugge a molti osservatori occidentali abituati a vedere in Medio Oriente solo le dinamiche etniche/nazionali e incapaci di riconoscere le ideologie e i partiti.
Israele è un Paese mediorientale.
Anche per Israele questa sarebbe una svolta storica, non solo e non tanto per la possibilità di vivere in pace, ma soprattutto perché significherebbe il raggiungimento del traguardo, tangibile e produttivo, di essere finalmente un paese mediorientale in mezzo ad altri paesi mediorientali.
Israele è un Paese mediorientale, in tutto e per tutto, nel bene e nel male: anche questa è una questione storica che sfugge agli osservatori occidentali (soprattutto a quelli europei) che percepiscono Israele come un paese europeo fondato da europei.
In realtà gli ebrei europei, pur forgiando il Paese e le sue istituzioni democratiche e socialiste, sono stati maggioranza per pochissimi anni, e sono comunque elettoralmente ininfluenti da quasi 50 anni: l’ottanta per cento degli ebrei israeliani sono in qualche misura mizrahim, cioè, discendenti di quel quasi un milione di ebrei profughi dai paesi arabi.
Inoltre, gran parte di coloro che consideriamo di origini europee in realtà, da almeno due generazioni, sono sabra, ovvero nati in Israele, quindi mediorientali anch’essi. Non bisogna poi scordare che il restante trenta per cento della popolazione israeliana, non-ebraica, appartiene ad antiche comunità mediorientali.
Israele è un Paese mediorientale e segue logiche mediorientali, si confronta e si scontra con altri attori mediorientali, e approderà ad un accordo sostenibile nel contesto politico-culturale mediorientale.
Non sono l’Europa o il Mondo l’orizzonte di Israele: è il Medio Oriente il posto di Israele.
La pace passa da Riyad, la guerra da Teheran.
L’Europa o il Mondo, le grandi potenze o l’ONU, non sono certo in grado oggi di forzare le parti in causa per trovare un accordo; la loro incompetenza e impotenza sono ben dimostrate dagli oltre 50 conflitti in corso oggi nel mondo, con un numero impressionante di morti (quasi 300.000 nella guerra nel Tigray, oltre 280.000 in quella Russia-Ucraina, oltre 500.000 in Siria).
Saranno invece i Paesi arabi che ora pazientano e difendono Israele a realizzare un accordo perché questo è il loro più grande interesse.
Di fronte a questo interesse strategico la cosiddetta questione palestinese risulta essere non solo un grande ostacolo ma una seria minaccia, non tanto per l’avventurismo, il fanatismo e l’inconsistenza dei gruppi dirigenti palestinesi, ma soprattutto per la loro storica inclinazione a mettersi al servizio di leader stranieri: un tempo i dittatori arabi di turno, oggi gli ayatollah di Teheran.
Alla fine di questa ennesima crisi, e dopo l’elezione di Trump, i principali Paesi arabi e Israele addiverranno ad un accordo globale che inevitabilmente penalizzerà le aspirazioni palestinesi, che dovranno scegliere una volta per tutte se stare con Teheran o con Riyad.
La posta in gioco.
È tempo che politici ed osservatori occidentali (a iniziare da quelli nostrani) abbandonino le consuete visioni caricaturali sul conflitto mediorientale ed anche che perdano l’attitudine a dare giudizi moralistici e apocalittici (che curiosamente non applicano mai per altri conflitti).
È tempo che politici ed osservatori occidentali comprendano che la vera posta in gioco non è la sconfitta o la vittoria di un popolo su un altro (o di Hamas o di Nethanyahu), quanto piuttosto la costruzione di un nuovo ordine in Medio Oriente, che permetta l’accesso alla modernità e la rinascita dei popoli arabi, prima che finisca la facile ricchezza garantita dal petrolio.
Notizie in breve dall’Italia, da Israele e dal mondo
Ludovica De Benedetti
ITALIA
4 novembre: Il presidente nazionale della Federazione Associazioni Italia-Israele, Bruno Gazzo, scrive ai vertici della tv di Stato e alla Commissione Parlamentare di Vigilanza, segnalando ai responsabili del servizio pubblico il contenuto dell’ultima puntata di Report (il laboratorio di Israele e le prossime elezioni americane), “nella quale lo stravolgimento narrativo e l’unilateralità di una trasmissione finalizzata alla demonizzazione dello stato ebraico credo vadano contro la funzione della Tv pubblica e la responsabilità dell’emittente nazionale”.
10 novembre: Durante la manifestazione Pro Palestina a Milano vengono applauditi i “ragazzi di Amsterdam” in merito agli scontri scoppiati nella capitale olandese dopo la partita tra l’Ajax e il Maccabi di Tel Aviv: polemiche e dure reazioni politiche.
11 novembre: A Roma in Largo di Torre Argentina manifestazione contro le violenze antisemite di Amsterdam.
14 novembre: Belluno, hotel rifiuta ospiti israeliani: “Siete responsabili di genocidio”. I turisti avevano prenotato e pagato due notti, ma l’albergatore ha bloccato tutto alla vigilia della partenza per l’Italia della coppia di Tel Aviv. “Se gradite annullare, garantiremo la cancellazione gratuita”.
16 novembre: La questura di Milano notifica il foglio di via al presidente dell’Associazione Palestinesi d’Italia Mohammad Hannoun per “Istigazione all’odio e alla violenza” per il sostegno “ai bravi giovani di Amsterdam” espresso durante le manifestazioni pro-Palestina. Hannoun, 62 anni, fondatore nel 1994 dell’Associazione benefica di solidarietà con il Popolo palestinese dallo scorso ottobre è stato inserito nella blacklist del Dipartimento del Tesoro statunitense con l’accusa di essere un finanziatore del terrorismo e di promuovere manifestazioni contro Israele.
20 novembre: In Italia è scontro dopo il mandato d’arresto della Corte penale internazionale per Netanyahu e Gallant. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani afferma che il nostro Paese “sostiene la CPI” e “valuterà insieme ai nostri alleati come comportarci insieme su questa vicenda”. Guido Crosetto, pur ritenendo la decisione della Corte “sbagliata”, sostiene che se Netanyahu e Gallant “venissero in Italia dovremmo arrestarli, perché noi rispettiamo il diritto internazionale”. “Mandati d’arresto assurdi e filo-islamici”, attacca la Lega. Il leader Matteo Salvini aggiunge: “conto d’incontrare presto esponenti del governo israeliano e se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto. I criminali di guerra sono altri”. Per il Pd “la sentenza va rispettata”. Il M5s chiede l’embargo delle armi a Israele.
29 novembre: il Consiglio comunale di Pinerolo boccia la mozione per la cittadinanza onoraria a Liliana Segre.
30 novembre: Corteo pro-Palestina a Roma, fumogeni e petardi contro la polizia davanti alla sede della FAO. Imbrattate vetrine negozi. Il Partito dei CARC in piazza con un volantino celebrante il terrorista Sinwar.
2 dicembre: Cancellato a Milano il murale di Liliana Segre e Sami Modiano, già precedentemente sfregiato.
ISRAELE: la guerra e la situazione interna
4 novembre: Israele comunica ufficialmente la cessazione delle proprie relazioni con l’Agenzia per i rifugiati palestinesi. Lo annuncia il ministero degli Esteri israeliano dopo l’approvazione, il 28 ottobre, di due progetti di legge che vietano all’UNRWA di operare in Israele.
5 novembre: Il premier israeliano Benyamin Netanyahu nomina l’ex ministro degli Esteri Israel Katz nuovo ministro della Difesa al posto di Yoav Gallant, la notizia scatena proteste e grandi manifestazioni in tutto il Paese.
6 novembre: Sciame di razzi a lungo raggio dal Libano su Tel Aviv. Razzo esplode in un parcheggio dell’aeroporto di Tel Aviv, non ci sono feriti. Ancora proteste in tutto il paese contro il licenziamento di Gallant, le opposizioni chiedono lo sciopero ad oltranza e le dimissioni di Netanyahu.
10 novembre: Le Forze di difesa israeliane diffondono un filmato che mostra agenti di Hamas mentre torturano detenuti palestinesi sotto interrogatorio. Il filmato, ripreso dalle telecamere a circuito chiuso all’interno di una base di Hamas nota come Outpost 17, nel campo palestinese di Jabaliya (striscia di Gaza settentrionale), è stato trovato su computer sequestrati dai militari durante un’operazione antiterrorismo israeliana del marzo scorso.
11 novembre: Hezbollah lancia più di 200 razzi verso il nord di Israele: 100 verso Haifa e dintorni. Una donna ferita grave a causa delle schegge e 5 feriti lievi.
16 novembre: Lancio di razzi dal Libano su Haifa: danneggiata la sinagoga, ci sono feriti lievi. L’IDF distrugge il Centro Islamico sciita superiore di Beirut.
18 novembre: Continua il lancio di razzi e missili dal Libano sul centro di Israele: morti e feriti.
20 novembre: L’esercito israeliano emette 1.126 mandati di arresto per i coscritti ultraortodossi che non hanno risposto agli ordini di leva.
22 novembre: Due razzi lanciati da Hezbollah colpiscono il quartier generale del Settore Ovest di Unifil a Shama, feriti quattro militari italiani. Crosetto chiede che l’IDF non usi le basi come scudo; Tajani: “Intollerabile quanto accaduto. I nostri militari sono lì a portare pace, non vanno toccati”.
24 novembre: Il governo approva un completo boicottaggio di Haaretz, storico quotidiano di sinistra, fondato nel 1919: nessun ministro o funzionario governativo potrà più avere contatti con Haaretz e nessuna azienda pubblica o ente di governo potrà pubblicare inserzioni a pagamento sulle sue pagine. Il quotidiano Haaretz definisce la decisione “Un tentativo di mettere a tacere un giornale critico e indipendente”.
26 novembre: Netanyahu approva la tregua con Hezbollah, ma sottolinea: “Se violata, colpiremo”. L’IDF denuncia l’invio di missili dal Libano su Israele dopo l’accordo.
27 novembre: il portavoce della Corte dell’Aia Fadi El Abdallah afferma che i mandati di arresto per Netanyahu e Gallant, accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, potrebbero essere revocati se in Israele verrà avviata un’indagine approfondita.
3 dicembre: Moshe Yaalon, ex ministro Difesa di Israele, accusa “i politici, in particolare quelli all’estrema destra della coalizione” di portare avanti un disegno di “pulizia etnica” nel Nord della Striscia di Gaza.
MONDO
6 novembre: Trump è il 47esimo presidente USA “Fermerò le guerre, sarà l’età dell’oro”.
7 novembre: Ad Amsterdam, in occasione della partita Ajax-Maccabi Tel Aviv, centinaia di persone, per lo più olandesi di origine nordafricana e mediorientale, realizzano una generale caccia all’uomo contro i tifosi israeliani, ferendoli anche in maniera grave. Netanyahu manda due aerei a recuperare gli israeliani. Il re d’Olanda si scusa ufficialmente con il presidente Herzog.
11 novembre: Ad Amsterdam decine di persone armate di mazze e petardi danno fuoco a un tram. Lo rende noto la polizia, secondo cui diverse persone sono state arrestate. In un video diffuso dal parlamentare di estrema destra Geert Wilders si sente uno dei partecipanti ai disordini urlare “ebrei cancro”.
14 novembre: Centinaia di manifestanti denunciano la Francia per aver ospitato la partita di Uefa Nations League tra Francia e Israele e esprimono la loro rabbia per la presenza del presidente Emmanuel Macron e di altri politici di spicco.
17 novembre: Il Papa chiede di “Indagare se a Gaza è in atto un genocidio”. Yousef Salman, presidente della Comunità palestinese di Roma e del Lazio afferma: “Sempre grati a Sua Santità per la presa di posizione in difesa dei diritti umani, della pace e per il riconoscimento di uno Stato palestinese”. L’Ambasciata di Israele replica: “Il 7/10 massacro genocida, diritto alla difesa”.
20 novembre: La Camera preliminare della Corte penale internazionale emette mandati di arresto per il premier israeliano Benyamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant “per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi almeno dall’8 ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024, giorno in cui la Procura ha depositato le domande di mandato di arresto”. Ira di Israele: “Antisemiti”. USA e Argentina contrari. L’Ue sostiene che “vanno eseguiti”. Orban invita Netanyahu in Ungheria. Il portavoce del Cremlino Dmitrj Peskov afferma che per la Russia, le decisioni della Corte penale internazionale sono “insignificanti” e quindi “non c’è motivo di commentarle”.
23 novembre: Le autorità di intelligence e sicurezza degli Emirati Arabi Uniti localizzano il corpo di Rav Zvi Kogan, cittadino israelo-moldavo ed emissario Chabad, residente negli Emirati Arabi Uniti, dove si curava della piccola comunità ebraica stanziata o di passaggio a Abu Dhabi, offrendo servizi religiosi e di assistenza. Era scomparso da giovedì 21 novembre a mezzogiorno. Il ministro israeliano della Difesa, Katz: “Un crimine terroristico antisemita codardo e spregevole”.
24 novembre: Oltre 85.000 studenti del Québec, in Canada, scioperano per Gaza, chiedono intifada e “soluzione finale”.
27 novembre: Alice Nderitu, consigliere speciale delle Nazioni Unite sul genocidio, viene rimossa dal suo incarico dopo aver stabilito che le azioni di Israele nella Striscia di Gaza non rientrano nella definizione di genocidio.
29 novembre: Un nuovo rapporto afferma che il numero di episodi antisemiti avvenuti a Berlino ha raggiunto livelli record. Nei primi sei mesi del 2024 gli episodi hanno già superato il totale dell’intero 2023. L’Associazione federale tedesca dei dipartimenti per la ricerca e l’informazione sull’antisemitismo (RIAS) ha documentato 1.383 episodi nella capitale tedesca, con una media di sette-otto al giorno.
2 dicembre: Trump scrive sui social: ” Se gli ostaggi tenuti nella Striscia di Gaza non verranno rilasciati entro il 20 gennaio, giorno dell’inaugurazione, i responsabili la pagheranno cara. Saranno colpiti più duramente di chiunque altro nella lunga e leggendaria storia degli Stati Uniti d’America”.
ANALISI e COMMENTI
USA, Europa, Israele: il vento del populismo contro le democrazie?
Intervista a Gianfranco Pasquino
Massimiliano Boni
Professor Pasquino, cosa ci insegna la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane?
Ci insegna che bisogna saper raggiungere anche gli elettori che non ci piacciono, e che dobbiamo essere in grado di trasmettere un messaggio chiaro, e saperlo ripetere con fermezza. In queste elezioni Donald Trump ha raggiunto non solo l’elettorato che lo aveva già votato nel 2016 e nel 2020; stavolta ha saputo ricevere consenso anche da un nuovo elettorato. Il messaggio vincente è stato MAGA (Make America Great Again, n.d.r.). Probabilmente in molti hanno sorriso con sufficienza a questo slogan; invece è stato un messaggio recepito da quella parte di popolazione, penso ad esempio ai latinos, che una volta ottenuta la cittadinanza vuole riconoscersi in un paese forte e grande, e che hanno visto in Trump il candidato che poteva assicurargli che il loro sogno si realizzasse.
Se uniamo gli USA alle altre grandi nazioni, come la Russia, la Cina, l’India, l’Argentina, per non parlare dei paesi africani, è corretto dire che oggi la democrazia vive la più grande difficoltà dal 1945?
A mio giudizio oggi la democrazia non è in difficoltà. Guardi i paesi democratici dopo il 1945 e li confronti con la situazione attuale: ebbene, vedrà che, ad eccezione forse del Venezuela, tutti gli altri paesi sono rimasti democratici. Non solo: se ne sono aggiunti altri, per cui oggi sono circa 90. Naturalmente, possiamo discutere della qualità della democrazia, che varia da paese a paese; talvolta siamo indotti a pensare che lo stato delle democrazie non sia buono perché forse lo confrontiamo con una realtà superata in cui esistevano pochi paesi democratici e molto omogenei. Ma in tutte le democrazie oggi si registrano movimenti a tutela delle libertà; anche in quei paesi che oggi non sono democratici ci sono donne e uomini che combattono per arrivare alla democrazia, anche a costo della morte, come dimostra il caso Navalny. Del resto, le ultime tornate elettorali dimostrano quello che dico, come ad esempio in India. Oggi tendiamo a evidenziare i problemi delle democrazie, ma i problemi non sono una crisi.
Anche la democrazia israeliana soffre il populismo?
Non mi pare che il populismo sia la malattia principale della democrazia israeliana. Essa soffre piuttosto perché non ha mai davvero risolto il problema della coesistenza con i palestinesi e gli altri paesi arabi. Questo l’ha portata a una serie di conflitti che l’hanno vista costretta più volte a difendersi. Certo, talvolta la difesa ha travalicato i limiti e ha portato a reazioni esagerate e sproporzionate, come quella che stiamo registrando dopo il 7 Ottobre. Ma credo che dovremo anche tenere in considerazione che slogan come quelli “From the river to the sea, Palestine will be free” configurano un’idea che sostiene il genocidio degli israeliani, ossia la scomparsa dello Stato ebraico. Capisco quindi la reazione del governo in carica, volta alla sopravvivenza dello Stato. Il problema che affronta Israele oggi è quello di ogni democrazia assediata, ossia quello di tendere a un eccesso di difesa.
L’Unione europea potrà sopravvivere ai tentativi di disgregazione dei paesi più populisti?
Non credo che oggi l’Unione europea rischi di finire nelle mani di forze populiste. Certo i movimenti e i partiti populisti sfidano continuamente l’integrazione europea, e talvolta riescono anche ad andare al governo, come ad esempio in Olanda. Tuttavia, in termini assoluti, costituiscono ancora una minoranza, tant’è che l’attuale maggioranza del parlamento europeo rispecchia, più o meno anche in termini di voti, la stessa di 5 anni fa. In altre parole, le forze populiste che agitano l’Europa hanno sempre dimostrato che, una volta che arrivano al governo, non sono in grado di governare.
Nel suo ultimo libro (Fuori di testa. Errori e orrori di politici e comunicatori. Paesi edizioni, 2024) lei si occupa anche di comunicazione e comunicatori. Come le sembra la comunicazione politica oggi in Italia?
Mi sembra tremenda e tremendamente inadeguata. Sono troppi i giornalisti che non sanno di cosa parlano, e si atteggiano a tuttologi pensando che scrivere un lungo articolo sia segno di bravura, quando è esattamente contrario. Trovo che nel giornalismo di oggi difetti la capacità di sintesi, di raccontare, di utilizzare formule eleganti e chiare per spiegare i problemi che dobbiamo affrontare. Inoltre la stampa e in generale i media sono fortemente politicizzati; in alcuni casi, prenda i giornali di destra, non c’è neanche bisogno di leggerli per sapere quello che diranno. Lo stesso discorso può farsi per la Tv. Siamo costantemente bersagliati da messaggi unidirezionali, e sono molti i cittadini che li recepiscono come se fossero delle verità. L’effetto finale è che molti italiani vivono in una bolla comunicativa: all’interno circolano sempre le stesse notizie e la stessa descrizione dei fatti, il che non fa che rafforzare le loro claudicanti opinioni.
A suo avviso il populismo, nella comunicazione e negli attori politici, quanto sta falsando la descrizione della guerra che Israele combatte dal 7 Ottobre?
Per cominciare ormai i fatti del 7 Ottobre sono stati completamente dimenticati. Ormai ci si sofferma soltanto sulla reazione israeliana -a mio giudizio è eccessiva- per alimentare una costante critica a Israele. Ci si dimentica però dell’evento disastroso del 7 Ottobre, del fatto che è stato programmato per tempo, e finanziato tra l’altro anche con fondi europei e aiuti umanitari sfruttati da Hamas. In altre parole, oggi la guerra in corso combattuta da Israele viene raccontata descrivendo soltanto gli effetti, ma dimenticandone la causa. La critica, soprattutto, è troppo spesso manipolata, cosicché nel discorso pubblico ormai è entrato in maniera smaccata anche l’antisemitismo.
A questo proposito: che idea si è fatta del movimento che, anche in Italia, sfila manifestando contro il “genocidio” commesso da Israele?
Non c’è mai nulla di spontaneo in queste proteste. Ci troviamo di fronte ad alcuni gruppi di studenti, quelli più politicizzati, che naturalmente esercita la libertà che va loro garantita, la libertà di manifestazione del pensiero. Io sono infatti favorevole sempre a tutelare tale libertà, purché ovviamente non vengano diffusi slogan portatori di odio e di antisemitismo, non venga esercitata nessuna violenza, nessuna bandiera venga bruciata. Detto questo, le manifestazioni a cui assistiamo non sono né spontanee né unitarie. Alla base credo ci sia molta ignoranza, trasmessa a questi giovani anche dai loro insegnanti e, magari, dai loro genitori. Al contrario occorre una maggiore informazione tra i manifestanti. Detto questo, la mia idea è che in una società aperta e libera è inevitabile che si confrontino posizioni diverse che si possa discutere di tutto.
Per concludere: qual è l’antidoto migliore alla cattiva comunicazione e alla cattiva politica?
Non c’è un unico antidoto. Naturalmente occorre sempre curare la propria informazione. Intendo dire che occorre rivolgersi a più fonti nel raccogliere informazioni che aiutino a farsi un’opinione su ciò che ci interessa; ma non basta. Occorre anche conoscere chi ci fornisce quelle informazioni, occorre avere una solida conoscenza storica di base, e occorre non stancarsi mai di cercare un confronto: con i propri amici, i propri insegnanti ma anche i propri parenti. Servirebbe cercare sempre il massimo della informazione, e selezionare bene le fonti. Naturalmente sarebbe importante anche trovare persone in cui riporre la nostra fiducia. In breve, direi che la salvaguardia del pluralismo è il vero antidoto al populismo.
TRUMP VISTO DA ISRAELE: TIMORI E SPERANZE
Gabriele Eschenazi
«La destra americana e l’attuale governo israeliano hanno avuto quello che volevano, ma avranno di che pentirsi. Il messia non sta arrivando». Con questa amara riflessione Yair Golan, leader dei Democratici (11 deputati secondo l’ultimo sondaggio), chiude un suo editoriale scritto per Haaretz insieme all’esperto militare Charles Freilich. Il ragionamento di Golan mette in fila diversi elementi. Trump non è contento né dell’ebraismo americano, che non ha votato in massa per lui, né di Netanyahu che si congratulò con Biden quando fu eletto presidente. Nel 2028 scadrà il pacchetto di aiuti decennale degli USA all’esercito israeliano e non si sa se sarà rinnovato e in quali dimensioni. Il nuovo presidente non ama spendere soldi per aiuti ad altri paesi e potrebbe fare un’eccezione per Israele magari con una riduzione dell’investimento. Per Tzahal sarebbe un grave problema dato che i suoi programmi di sviluppo si basano su aiuti in crescita dell’alleato di oltreoceano. Sul fronte palestinese sembra garantita da Trump la mano libera di Israele per un’annessione parziale dei territori e un’occupazione militare estesa anche a Gaza. Potrebbe, però, essere rispolverato «l’accordo del secolo», dice Golan e allora anche una soluzione del problema palestinese potrebbe essere utile a Trump in funzione di un accordo globale con l’Arabia Saudita su alleanza strategica ed energia atomica. E qui forse si potrebbe aprire un’opportunità per il centrosinistra israeliano, nel quale Trump potrebbe trovare un alleato inaspettato contro un rifiuto di Netanyahu a qualunque forma di stato palestinese. «Dall’opposizione, dice Golan, dobbiamo operare affinché Trump non si accontenti di soluzioni separate con i sauditi». Anche sul fronte iraniano Netanyahu potrebbe essere deluso. Secondo Golan Trump diminuirà i contingenti americani in Siria e Iraq lasciando così spazio a Iran, Russia e Cina. La tattica è sempre quella di evitare ogni coinvolgimento americano in guerre.
Israele si troverebbe quindi solo contro l’Iran ed è proprio per questo che lo storico Benny Morris anche lui su Haaretz consiglia Netanyahu di attaccare al più presto gli impianti atomici iraniani. «Ora che l’Iran è senza difese, è il momento di colpirlo. Un’occasione così non si ripresenterà mai più». Morris ammette che sia difficile conoscere gli effetti di un attacco militare di questo tipo, ma ritiene che gli effetti sulle guerre in corso e la liberazione degli ostaggi potrebbero essere positivi. Che l’impatto di Trump sulla questione iraniana potrebbe non essere quello che il governo israeliano si aspetta è il pensiero anche di Nadav Eyal, giornalista di Ynet autore di podcast. «Con gli ayatollah, Putin o la Nord Corea Trump non imposterà rapporti da superpotenza quanto piuttosto di convenienza americana. Lui non è un repubblicano tradizionale e non attaccherà. Diversa sarà la situazione se davvero l’Iran si doterà apertamente di una bomba atomica minacciando Israele e gli stessi USA», dice Eyal.
Una delle armi vincenti del trumpismo è anche il suo disinteresse per i diritti umani. E questo lo accomuna a Egitto, Arabia Saudita, Iran e sempre di più anche Israele, dove stanno avanzando in parlamento leggi antidemocratiche e il trattamento della popolazione palestinese è sempre più discriminatorio.
L’estrema destra israeliana al governo per bocca del ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha già proclamato che il 2025 sarà l’anno dell’annessione di parti della Cisgiordania. Che poi questo accada davvero non è certo, ma negli ambienti dei coloni c’è il convincimento che l’amministrazione Trump sarà la prima della storia a riconoscere la sovranità israeliana su «Giudea e Samaria». La fiducia è cresciuta dopo la nomina di Marco Rubio a Segretario di Stato, dell’evangelico Mike Huckabee a nuovo ambasciatore americano in Israele, di Steve Witkoff a inviato speciale per il Medio Oriente, Elise Stefanik la nuova ambasciatrice americana all’ONU. Si tratta di personaggi filoisraeliani dichiarati se per filoisraeliani intendiamo filo governo Netanyahu. Difficile che conteranno qualcosa con un presidente come Trump poco disponibile a chi gli espone idee diverse dalle sue. Sono molto lontani i tempi nei quali segretari di stato come Kissinger o Baker contavano davvero qualcosa. Gli ultimi, democratici o repubblicani che fossero hanno davvero pesato poco sullo scacchiere mediorientale.
Di fronte a queste promettenti premesse c’è chi ipotizza che sarà lo stesso Netanyahu a facilitare il compito di Trump all’alba del suo ritorno alla Casa Bianca. Su questa linea è Yossi Ben Ari, ex ufficiale dei servizi segreti, che sostiene su Haaretz come Bibi si starebbe rendendo conto che sia giunto il momento di fermare la guerra per ottenere successi anche sul fronte interno: allentamento della pressione su un esercito sempre più stanco e decimato, rilascio degli ostaggi, ritorno degli sfollati a sud e a nord nelle loro case. C’è da prevedere che Trump sarebbe molto riconoscente a Bibi per un benvenuto di questo tipo. Affinché questo avvenga Netanyahu si deve assicurare la sopravvivenza del suo governo e sua personale: permettere all’ultradestra l’annessione di territori in Cisgiordania, concedere agli ortodossi una legge che esenti i suoi giovani zeloti dal servizio militare, e infine completare la sua rivoluzione antidemocratica con un continuo indebolimento dei media e del potere giudiziario.
Un capitolo a parte rimane la commissione d’inchiesta indipendente sul fallimento del 7 Ottobre. Netanyahu la vorrebbe vietare per legge sostituendola con una commissione politica paritetica. Per cautelarsi intanto si era già portato avanti con il lavoro incaricando alcuni suoi collaboratori di modificare i protocolli di quel tragico giorno come raccontano alcune inchieste aperte di recente dallo Shin Bet e la polizia contro funzionari dell’ufficio del primo ministro.
Quale che sia il «regalo» di Natale che Netanyahu farà a Trump questo non potrà bastare a chiudere tutti i fronti sui quali Israele è impegnato e l’aiuto americano sarà più che mai necessario. Questo aiuto non arriverà più quasi gratis come ai tempi di Biden. Israele dovrà pagare dei prezzi all’alleato americano e tra questi potrebbe esserci proprio l’indigesto stato palestinese come ha ipotizzato Yoav Fromer, storico dell’università di Tel Aviv in un dibattito organizzato dall’Istituto Van Leer. «Se c’è un presidente che può portare a un accordo e persino a uno stato palestinese questo è Trump», ha affermato Fromer. A rispondergli ci ha pensato indirettamente Amir Oren, esperto militare, dalle pagine di Haaretz: «Netanyahu si è incatenato a Trump come a un istruttore di paracadutismo. Non ha nessuno a cui rivolgersi. Come successe con la road map di Bush o il piano di Trump del 2020, egli confiderà nel rifiuto dei palestinesi a ogni accordo». «La realtà», continua Oren. «è che Israele non è in grado di presentare un suo piano per la pace e la sicurezza e salvarsi così da sé stesso. Aspetterà di essere tirato fuori dal fango solo dopo aver pagato prezzi insostenibili».
L’interazione fra Trump e Bibi non è prevedibile, ma il primo, aspirante premio Nobel come ha più volte dichiarato, è il più forte e potrà imporre la sua volontà se lo riterrà opportuno. Netanyahu e sua moglie Sarah come si racconta nel documentario Bibi Files vorrebbero avere a disposizione la stessa servitù e lo stesso lusso della Casa Bianca, essere ricevuti come re e regina ovunque tra fiori e applausi. Pare invece che dopo la sentenza dell’Aja non potranno più trascorrere weekend romantici a Londra o Parigi (forse a Roma sì) e persino la trasvolata negli USA potrebbe essere problematica. La piscina della loro residenza di Cesarea restaurata dal contribuente israeliano e le bottiglie di champagne donate dal miliardario Arnon Milchan rischiano di essere la loro magra consolazione.
LA POLITICA TRA SOVRANISMO E POPULISMO
Intervista a David Allegranti
Marco Pierini
Cerchiamo prima di intenderci sulla parola chiave, populista. Viene usata in senso dispregiativo dagli avversari politici, che etichettano come populista qualsiasi posizione vagamente antitetica alla loro. Per me va intesa come la intende il politologo Marco Tarchi, in senso avalutativo, per dirla in termini weberiani. Come dice Giovanni Orsina nel nostro libro sull’antipolitica (Luiss University Press), “i termini che utilizziamo di continuo nel dibattito pubblico, come sovranista, populista, antipolitico, antieuropeista, si sono caricati di un significato valutativo. Per l’opinione pubblica moderata, centrista o di centro-sinistra, quella che troviamo rappresentata nei media mainstream e che dà il tono al dibattito pubblico, sono tutti concetti negativi, deteriori”. Il politologo Jan-Werner Müller, nel tentativo di descrivere il funzionamento della mentalità populista, spiega che essere critici nei confronti dell’élite è una condizione necessaria ma non sufficiente per individuare i caratteri tipici del populismo. Tutti sono “contro Washington”, anche Barack Obama lo era. All’antielitarismo si deve dunque accompagnare l’antipluralismo, essendo i populisti, per autodefinizione, gli unici a poter rappresentare il popolo. Nel caso di Trump, le categorie del Politico appartenenti al populismo sono rispettate. Nel suo rivoltarsi contro i “nemici del popolo” definisce sé stesso. D’altronde la logica populista prevede che “chiunque non sostenga i populisti non possa essere considerato a buon titolo come facente parte del popolo, sempre definito come virtuoso e moralmente puro”, come dice Müller. Per Müller infatti il populismo, che ambisce a rappresentare il 100% del popolo, è una particolare visione moralistica della politica. Un cardine dell’ideologia populista, osservano Cas Mudde e Cristóbal Rovira Kaltwasser, è costituito dalla “nozione di volontà generale”. Facendo ricorso a quest’ultima, gli attori ed elettori populisti “alludono ad una peculiare concezione politica”, strettamente legata al lavoro del filosofo Jean-Jacques Rousseau, che distinse tra la volontà generale e la volontà di tutti. “La prima si riferisce alla capacità del popolo di unirsi in una comunità e di legiferare per realizzare l’interesse comune; la seconda denota la semplice somma degli interessi specifici in un dato momento. Significativamente, la distinzione monistica e morale tra il popolo puro e l’élite corrotta operata dal populismo rafforza l’idea che la volontà generale esista”, dicono Mudde e Kaltwasser. Dunque, in definitiva, i populisti pensano e parlano da populisti; nella loro comunicazione quotidiana e pubblica, hanno come riferimento costante il popolo che si contrappone al Palazzo, alle istituzioni, al sistema tradizionale (anche quello dei media). C’è un “noi” e c’è un “loro”. Anche se per qualcuno deve esistere soltanto un collettivo Noi nel quale non c’è spazio per altri, o, per dirla con Byung-chul Han, “l’altro”.
Il tuo ultimo libro appena uscito per Mimesis si intitola “Come parla un populista. Donald Trump, i social media e i fatti alternativi”. La prima domanda sorge spontanea, dunque: come parlano i populisti?
A distanza di otto anni dalla sua prima elezione, Donald Trump è stato rieletto. Quanto hanno pesato, secondo te, lo stile comunicativo e la campagna di Donald Trump e quanto, invece, le debolezze dei Democratici?
Trump ha fatto una campagna elettorale molto efficace dal punto di vista comunicativo. Ha anche ben selezionato, con l’obiettivo di conquistare l’elettorato giovane, maschile, under 30, le sue partecipazioni a podcast di successo come quello di Joe Rogan. “The Joe Rogan Experience” è il podcast più popolare degli Stati Uniti, secondo Edison Research. Secondo YouGov, il 56% dei suoi ascoltatori ha fra i 18 e i 34 anni e l’81% di questi è maschio. I Democratici hanno avuto non poche debolezze. La gestione del caso Biden è solo una fra le tante. In più hanno scelto Kamala Harris, che aveva molte difficoltà a promuovere il suo lavoro di vicepresidente degli Stati Uniti. Aveva il problema di “farsi conoscere meglio”. Barack Obama entusiasmava le folle, non doveva spiegare chi fosse. A sponsorizzare Harris c’erano le stelle di Hollywood, mentre Trump era direttamente lui una stella. Il che lo rende perfetto per la politica dell’intrattenimento, ma anche per l’intrattenimento della politica.
Il fenomeno Donald Trump non sembra, tuttavia, essere un’esclusiva americana: in tutte le democrazie liberali assistiamo a una destra che è sempre più a traino di leadership populiste e autoritarie. È il caso dell’Ungheria, ma è anche il caso di Israele, il cui capo del governo Benjamin Netanyahu ha mostrato una grande affinità nei confronti del Partito Repubblicano in generale e del trumpismo in particolare. Esiste, dunque, una “internazionale” sovranista o populista?
Distinguerei il sovranismo dal populismo, ma non voglio fare qui la genealogia delle differenze. Rimando ancora al libro scritto con Orsina, “Antipolitica”. Non penso però che esista un qualche tipo di internazionale, per il motivo che ognuno di questi leader bada al proprio particulare, per dirla in termini guicciardiniani. Per ciascuno di questi leader il loro paese viene prima di altre organizzazioni sovranazionali. Non desiderano cedere sovranità o delocalizzarla. Anche quando tentano di opporsi al mercato o alle regole comunitarie di cui fanno parte. Oltretutto: protestano contro le istituzioni europee, ma poi hanno bisogno dei loro denari. Ma questo è un altro discorso. Per tornare al punto: una internazionale prevedrebbe valori comuni e visioni comuni del mondo, mentre in quest’epoca di frammentazione della politica, dei partiti e delle società, è caratteristica comune il ripiegamento su sé stessi. Per non parlare della mancanza di contaminazione. Chi promuove identità di popolo e volontà generali si ferma ai confini della propria Nazione. Il che non significa che non ci possano essere formule e forme di collaborazione. Ma vedere le cose allo stesso modo e combattere all’unisono per realizzare un progetto, fosse anche di trasformazione dell’esistente (mi riferisco all’Unione Europea e alla sua governance) ha bisogno di ben altri collanti.
A tuo avviso anche la politica di Putin può essere classificata come populista?
Quella di Vladimir Putin la definirei imperialista, secondo lo schema ideologico del Russkij mir. Anche in questo caso distinguerei il populismo dall’adozione di un modello politico plebiscitario-autoritario. Mi pare che “imperialismo” dunque definisca meglio l’aggressività del regime.
Giorgia Meloni è una leader populista? E se sì, che caratteristiche ha il suo populismo?
Prendo in prestito le parole di Orsina: “Siccome Meloni è sovranista ed euroscettica, ipso facto dev’essere pure populista e antipolitica. Ma non è così. Non saprei anzi da quale punto di vista la si possa definire antipolitica. Stiamo parlando di un partito (Fratelli d’Italia) impostato in una maniera quanto mai tradizionale, il cui obiettivo primario è difendere lo Stato nazionale, e che proviene inoltre da una tradizione iperpolitica come quella del Movimento sociale e poi di Alleanza Nazionale (AN), fatta di politica sul territorio e di professionismo politico. Direi ancora di più: alla lontana proviene da una tradizione tipicamente novecentesca come quella fascista, che vedeva nella politica uno strumento primario di trasformazione del mondo”. Mi viene da dire quindi che Meloni sia iperpolitica. Che poi, come altri leader, persino leader democratici o liberal democratici, utilizzi anche lei stilemi populisti nella sua comunicazione, è un altro discorso. Ed è peraltro oggetto delle mie ricerche: penso che alla fine anche un leader non populista utilizzi, per comunicare, uno stile populista. Ma ci tornerò sopra in altre sedi.
Abbiamo finora parlato della destra, ma conviene anche concentrarsi sul campo opposto. Sembra sempre di più che i partiti del centrosinistra tradizionale fatichino di fronte alla destra populista. Per citare Lakoff: “pensano all’elefante”, cioè si fanno dettare l’agenda dalla destra?
Faticano non poco. Solo per restare all’Italia, ho spesso parlato della subalternità culturale del Partito Democratico nei confronti del Movimento 5 Stelle. Il cedimento sul taglio del numero dei parlamentari è un esempio, ma ce ne sono anche altri. Alcuni riguardano l’atavica questione dei quattrini. La comunicazione del referendum costituzionale del 2016 citava espressamente il “taglio delle poltrone” per far risparmiare soldi alla cittadinanza, dunque allo Stato. L’idea che la democrazia abbia un costo e che questo costo sia da difendere è fortemente impopolare. Anche la sinistra, non solo i Cinque Stelle, ha una responsabilità nell’aver avallato questa mentalità.
Di fronte a questa apparente assenza di strumenti culturali per rispondere all’avanzata della destra, sembra che qualcuno a sinistra provi a farsi uguale e contrario e dunque a sviluppare una sorta di populismo di sinistra. A me sembra eclatante il caso di La France Insoumise di Melenchon. Condividi questa lettura? Che caratteristiche ha il populismo di sinistra?
Sì, mi torna quello che dici. La politologa Chantal Mouffe individuava nel suo libro “Per un populismo di sinistra” (Laterza), due cause del successo populista: l’erosione della sovranità del popolo e l’erosione dell’uguaglianza. Mi pare che un ipotetico “populismo di sinistra” voglia ripristinare la sovranità popolare seguendo sempre però lo stile e gli stilemi di cui parlavo poc’anzi e anche all’inizio della nostra conversazione.
Nella vicenda mediorientale che da oltre un anno vede il governo più a destra della storia di Israele combattere su più fronti, a tuo avviso il populismo europeo, di destra e di sinistra, come ha letto il conflitto?
Mi sembra che il conflitto mediorientale sia stato strumentalizzato dai populisti per i propri interessi. In Italia il M5S lo ha usato come strumento di propaganda politica, al pari del conflitto in Ucraina, per promuovere una irenica piattaforma pacifista, senza porsi mai qualche dubbio sulle conseguenze di posizioni tese a indebolire la capacità militare e strategica di Israele (e anche dell’Ucraina). È anche vero però che il conflitto mediorientale è così polarizzante e trasversale da essere strumentalizzato anche dai partiti non populisti.
Il sottotitolo del tuo libro pone il tema, centrale, dell’informazione. Di fronte alla saldatura tra Trump ed Elon Musk, per esempio, il quotidiano britannico “Guardian” ha deciso di non utilizzare più la piattaforma X. Prima ancora che Musk comprasse l’ex Twitter, era stato Trump a esserne stato rimosso. Che ruolo gioca l’informazione nell’ascesa e nel declino del populismo?
L’arrivo di Trump su Twitter è datato marzo 2009, quando Barack Obama è appena diventato presidente degli Stati Uniti. Rapidamente, diventa lo strumento preferito del miliardario americano. Trump avrebbe vinto senza Twitter? Lui è convinto di no, ma non esiste una controprova. Si può però constatare, per esempio, quanto siano stati rilevanti social media come Facebook e Twitter come fonte d’informazione per gli statunitensi durante la campagna elettorale. Il che fa capire anche quanta risonanza possa aver avuto un intervento manipolatorio effettuato su tali mezzi. Secondo un report del Pew Research Center, centro studi statunitense che conduce sondaggi e ricerche demografiche, nel 2016 il 44% degli statunitensi adulti ha seguito le news sulla campagna elettorale sui social media e il 24% ha detto di aver letto post di Trump e Clinton. Il giorno delle elezioni, l’8 novembre 2016, Trump aveva 12.9 milioni di follower, due in più dell’avversaria Hillary Clinton (10.2 milioni di follower). La differenza, in termini di engagement, era però più elevata, a vantaggio di Trump: il Pew Research Center ha analizzato, nel maggio del 2016, tre settimane di tweet e post dei candidati alle elezioni presidenziali. Trump twittava e postava con la stessa frequenza di Clinton o di Bernie Sanders, ricevendo però molta più attenzione da parte degli utenti. I tweet di Trump erano cinque volte più retwittati di quelli di Clinton, e il numero delle condivisioni su Facebook era 8 volte più alto in Trump rispetto a Clinton. Numeri che fanno guadagnare a Trump l’appellativo di “Commander-in-Tweet”, secondo Klaus Kamps. Colui che usa Twitter per veicolare il messaggio. Un messaggio che non necessariamente deve passare attraverso un testo scritto, ma che è fatto di simboli, immagini, riferimenti iconici. Come un brand. Il messaggio di Trump è immediatamente riconoscibile, spendibile, resiste alla prova dei fatti e della verificabilità. Non c’è fact checking che possa resistere a un’idea condivisa da una base, da un pubblico di elettori che non si lascia convincere dagli avversari: “Make America Great Again”. Non è importante che l’America alla fine sia tornata davvero grande; l’importante è che la gente, i seguaci, lo pensi, che gli elettori di Donald Trump continuino a pensarlo. Magari solleticati dalla continua comunicazione online del 45esimo presidente degli Stati Uniti. Nei suoi tweet, Trump insulta, fa propaganda, rilancia teorie complottiste, governa (in senso proprio, appunto, non metaforico). Tutto insieme, tutto in una volta. La brevità dei messaggi su Twitter e la possibilità di creare conversazioni in cui c’è spazio solo per affermare qualcosa, mettere un like o fare un retweet di certo non aiuta una conversazione socratica, nella quale vige la pazienza dell’ascolto, la volontà del dialogo, l’attesa per le conclusioni dell’interlocutore. Ma forse è per questo che Trump ci si è trovato così bene, con Twitter. Soprattutto nella sua fase iniziale, quando il limite era di 140 caratteri, poi innalzato a 280. L’importanza dei social media in una campagna elettorale si era già rivelata centrale nelle elezioni presidenziali del 2008. Dopo la sfida fra Barack Obama e John McCain, infatti, non si è più tornati indietro e Twitter, nel 2016, anche a dispetto dei suoi fondatori, ideologicamente orientati altrove, è stata la voce di Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti ha potuto contare nella sua carriera politica – e qui sta un punto interessante, per rispondere alla tua domanda – anche su una radicata sfiducia nel sistema tradizionale giornalistico. Fin dal 1972, e regolarmente ogni anno dal 1997, l’istituto di ricerca Gallup interpella gli statunitensi sulla loro fiducia nei media. Oltre 50 anni fa, gli americani che dicevano di fidarsi molto o abbastanza dei media erano il 68%. Nell’ottobre 2023, a un anno dal voto, la percentuale è scesa al 32%, peraltro la stessa del 2016, quando Trump vinse le elezioni presidenziali contro Hillary Clinton. Allo stesso tempo, un altro 29% degli statunitensi adulti dice di non avere molta fiducia nei media, mentre il 39% – cifra record – afferma di non averne affatto. “Questi quasi 4 americani su 10 che mancano completamente di fiducia nei media sono il record più alto mai registrato”, scrive Megan Brenan, analista di Gallup. Il 39% di sfiducia totale nei media è persino di 12 punti superiore al sondaggio del 2016, quando, tra l’altro, gli statunitensi che dichiaravano di non avere molta fiducia nei media erano il 41%. Nel 2016, gli elettori Repubblicani che dicevano di fidarsi molto o abbastanza dei media erano il 14%. Nel 2023, l’11%. Trump ha alimentato questa sfiducia nel sistema mediatico attraverso continui attacchi, alcuni anche personali, contro giornali, radio e tv. È anche così che crescono e si alimentano le teorie del complotto, nell’impotenza dei media, anche a fronte di youtuber e podcaster che hanno fatto della disintermediazione una chiave del loro successo.
IL MOVIMENTO FEMMINISTA, UN ANNO DOPO
Intervista a Paola Tavella
Massimiliano Boni
Paola Tavella, qual è lo stato di salute del movimento femminista oggi?
Secondo me il femminismo strettamente inteso, questa nostra “politica appassionata”, è ben vivo.
Alessandra Bocchetti, una delle madri del femminismo italiano, da qualche anno organizza in febbraio una discussione libera e aperta a Roma, sempre affollatissima. Stavolta, a quanto capisco, l’incontro sarà dedicata proprio al femminismo.
La grande filosofa Adriana Cavarero ha un eccezionale successo con i suoi libri. Librati, la Libreria delle Donne di Padova, è molto seguita e organizza presentazioni e incontri. RadFem Italia pubblica online una rivista utilissima ricca di informazioni e riflessioni. E potrei proseguire. Eppure, mi chiedo se ancora si possa parlare di “movimento femminista”.
Perché?
Noi chiamavamo movimento quello che, appunto, era vero movimento. Lo era non solo perché ci spostavamo da una parte all’altra del paese, ma anche perché ci muovevamo in massa verso obiettivi che avrebbero cambiato la società e la vita delle donne. Volevamo la riforma del diritto di famiglia, l’aborto sicuro nelle strutture pubbliche, l’abolizione del delitto d’onore, la classificazione dello stupro come un delitto contro la persona e non contro la morale. Queste battaglie hanno portato a mobilitazioni enormi. Oggi, conquistate le leggi di parità, la pratica e l’opinione femminista non hanno i cosiddetti “obiettivi concreti”. Fanno eccezione la battaglia – fondamentale – per il cognome materno e quella, molto importante, contro l’alienazione parentale, la vittimizzazione secondaria delle madri che subiscono violenza, la cosiddetta “Pas”, una vera truffa psico-giuridica perpetrata nei tribunali nonostante le sentenze della Cassazione e una vasta mobilitazione. Ritengo invece che alcune influencer che si definiscono “femministe” siano un fenomeno di conformismo, marketing e self branding. Certune sono incapaci perfino di distinguere dal femminismo le battaglie maschili travestite da “diritti universali”. In alcuni gruppi di formazione più recente ho l’impressione di riconoscere vecchie facce, e non solo femminili. Persone che magari facevano tutt’altro e ora strattonano la bandiera femminista per ricavarne quel che gli pare.
A che punto è oggi il processo di piena uguaglianza delle donne?
Sono una femminista della differenza, non sono particolarmente mobilitata sul tema dell’uguaglianza. Certo, ho lottato per le leggi di parità e contro le discriminazioni ma non è l’uguaglianza il mio obiettivo.
Come giudica il contributo delle donne italiane in politica?
Giudico una donna per quello che fa, per le relazioni che tesse, non in base allo schieramento. Ho osservato da vicino donne potenti all’opera e ho collaborato con loro, non ho quasi mai visto una donna fare carriera e arrivare in alto senza essere costretta a diventare almeno un po’ un “mostro”, anche nel senso latino del termine: un prodigio. Le donne pagano da sempre un prezzo sproporzionato per avere successo in politica, perché la politica è organizzata e congegnata a misura degli uomini, è un sistema che non ci appartiene, cui restiamo estranee. Possiamo adattarci ma qualcosa si sacrifica sempre, e a volte è qualcosa di essenziale.
Il fatto che una donna oggi guidi il governo italiano è una buona notizia per le donne?
Quando Giorgia Meloni ha giurato davanti al Presidente della Repubblica ho sentito un tuffo al cuore, perché non avevamo mai visto una donna italiana lassù. Sono stata felice per lei, e perché questo obiettivo di parità è stato conquistato. Semmai quello che trovo interessante è capire perché vincono le donne di destra mentre la sinistra ha neutralizzato le sue fuoriclasse – e ce ne sono! – una dopo l’altra. Avremmo potuto avere una Presidente della Repubblica, una donna al Quirinale, vi ricordate come è andata a finire?
Lo scorso anno il movimento femminista “Non una di meno” di fatto disconobbe le ripetute violenze sessuali compiute da Hamas contro le donne israeliane lo scorso 7 Ottobre. Che idea si è fatta al riguardo?
Sono stata molto polemica rispetto alla manifestazione dello scorso anno. L’atroce ferita inferta da Hamas il 7 Ottobre era ancora freschissima, cominciavamo appena a comprendere cosa fosse successo, l’enormità di quella tragedia. Mi è sembrato disgustoso escludere da un corteo contro la violenza maschile le voci e le posizioni delle donne ebree e israeliane, così come nello scorso Gay Pride è stato impedito alle associazioni LGBT ebraiche di sfilare in sicurezza con la loro identità. Episodi che non dovremmo neanche essere costretti a commentare. Chi si comporta in questo modo perde qualsiasi legittimità, qualsiasi dignità democratica. Sono impressionata e preoccupata dall’attività di propaganda nei confronti delle giovani generazioni. È in atto una manipolazione delle coscienze, un problema grave e molto profondo, non solo in Italia o in Europa: pensiamo a quel che è avvenuto nei campus americani. Non credo che l’odio per Israele e per la sua stessa esistenza – che sono cosa ben diversa dal criticare e avversare il suo governo – siano nati improvvisamente, dal nulla. “Non una di meno” per esempio ha tanto a cuore la causa palestinese, al punto da giustificare l’orrore del 7 Ottobre, al punto da chiamare Israele “entità sionista” e gridare “dal fiume al mare” come è accaduto il 25 novembre di quest’anno. Ma non si commuovono altrettanto per l’Ucraina, anzi. Si parla di autodeterminazione di tutti i popoli e guarda caso loro ne difendono solo uno, e anche le ragazze iraniane non le scuotono più di tanto.
C’è un pregiudizio antiebraico nel femminismo italiano?
Assolutamente no! Ma parlo del femminismo autentico, non di quello che si definisce “transfemminismo” e va in piazza con i maschi il 25 novembre, giorno per la abolizione della violenza maschile. Una donna mi ha raccontato che dietro allo striscione di testa del corteo ha trovato un tizio che l’aveva molestata e per anni, faceva “il femminista” con la bandana rosa. Dal canto mio, per quanto mi dispiaccia tanto, non ci vado più, e non sono certo la sola, anche perché lo scorso 25 novembre sembrava assai evidente un diffuso sentimento antisemita. Le donne dei kibbutz e del rave che il 7 Ottobre sono state stuprate e scempiate se la erano cercata in quanto israeliane, giusto? In un modo o nell’altro si torna sempre lì. Con le antisemite noi femministe abbiamo zero in comune. Vorrei poter dire altrettanto della sinistra tutta.
Lei è stata invitata alla proiezione delle immagini girate da Hamas il 7 Ottobre. Ce ne vuole parlare?
Sono stata invitata a vedere i filmati e i video scaricati dalle GoPro dei miliziani di Hamas. In un primo momento avevo pensato di non andare, sapevo che sarei stata malissimo. Poi mi sono detta che, siccome faccio la giornalista, devo avere il fegato di parlare di cose che conosco, così ho accettato. Ancora oggi quelle immagini mi sconvolgono. Al termine della proiezione sono scappata via, non ero in condizioni di parlare. Sono incredula per quello che ho dovuto guardare, per quello che è stato fatto alle donne il 7 Ottobre. Per quello che hanno fatto a una donna incinta, ai genitori davanti ai loro figli, per quello che ho visto fare ai bambini, ma anche agli animali. Credo che quello che è successo il 7 Ottobre sia paragonabile a solo ciò che abbiamo letto nei “Diari dal ghetto di Lodz” durante l’occupazione nazista, e che proprio a questo si siano deliberatamente ispirati i miliziani. Mi faceva male che fossero spesso poco più che adolescenti. Si filmavano reciprocamente, realizzavano dei video con i loro telefoni e poi chiamavano i loro genitori per descrivere le loro gesta. In una di queste telefonate si ascolta il padre che loda il figlio, mentre al suo fianco la madre singhiozza. Ecco, penso che una vera pace si potrà realizzare quando al tavolo dei negoziati siederanno le madri dei soldati dell’una e dell’altra parte.
POGROM: la nostra parola malata che dal 7 Ottobre ad Amsterdam ci fa pensare (e vivere) male
Sara Natale Sforni
Non avrei voluto aggiungere la mia vocina al coro che ha variamente commentato i recenti fatti di Amsterdam, ma due osservazioni sento di volerle condividere.
La prima è lessicale: in questa e in altre circostanze l’uso (per me un abuso) del termine pogrom e i paragoni con fatti storici del calibro della “notte dei cristalli” (subito evocata dal novello Dreyfus israeliano) non hanno altro effetto che quello di banalizzare le persecuzioni antiebraiche, accostandogli fatti oggettivamente meno gravi (come quelli di Amsterdam) o sostanzialmente diversi (come il 7 Ottobre), e di indebolire il contrasto all’antisemitismo, riducendo la ricettività di un pubblico ormai assuefatto ad allerte troppo frequenti e non sempre credibili o addirittura palesemente strumentali.
La seconda è “sociologica”: la premeditata caccia all’israeliano (ebreo) andata in scena ad Amsterdam nella notte successiva alla partita di calcio tra Ajax e Maccabi Tel Aviv (cioè tra il 7 e l’8 novembre scorso) mi ha ricordato da vicino la premeditata caccia alle donne di Colonia avvenuta nella notte di Capodanno tra il 31 dicembre 2015 e il 1° gennaio 2016, entrambe opera di branchi di periferia “musulmani”, predatori per una notte di individui indifesi appartenenti a categorie disprezzate.
Chi usa il termine pogrom per l’eccidio del 7 Ottobre e per le violenze di Amsterdam (definite minipogrom da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera» del 9 novembre scorso) evidentemente vuole sottolineare un elemento innegabile (ma inessenziale): l’ebraicità delle vittime designate ovvero il movente antisemita degli aggressori. Nel caso israeliano lo fa anche per mettere l’accento sull’ideale genocidario dei carnefici e soprattutto sull’efferatezza dei crimini commessi (omicidi, infanticidi, stupri etc.), del tutto analoghi a quelli compiuti durante i pogrom propriamente detti e analogamente accompagnati da saccheggi. In entrambi i casi però viene trascurata una differenza a mio parere fondamentale, che in quanto tale delegittima l’uso del termine, e cioè il fatto che nessuno dei due episodi sia riconducibile all’attacco a una minoranza condotto con il consenso (anche tacito) delle autorità (dunque in condizioni di sostanziale impunità), come accadeva negli shtetl e nei ghetti, e come accade oggi nei villaggi palestinesi assaltati dalle squadracce di settlers.
Credo, insomma, che se si è netti sulla natura intrinsecamente antisemita dell’israelofobia (oltre che naturalmente di Hamas, nonostante il rossetto messo allo Statuto del 2017) si può, viceversa, fare a meno di parlare a sproposito di pogrom, sia per un attacco a una popolazione senza dubbio inerme, ma sovrana, condotto invadendo un territorio (almeno in teoria) protetto da un esercito, quale è stato il 7 Ottobre, sia – tanto più – per i fatti di Amsterdam, che certo sono stati mal gestiti dalle forze dell’ordine, che hanno certo l’aggravante dell’antisemitismo, ma che sono innegabilmente lontani dal terribile pogrom (anticamera della Shoah) accaduto tra il 9 e il 10 novembre 1938.
Viceversa, la notte olandese ha molto a che vedere con quella tedesca di quasi nove anni fa: analoghe la premeditazione e la modalità delle aggressioni (violenze di gruppo su persone isolate), analoga l’estrazione socioculturale degli aggressori. Se avessimo la tentazione di considerare i branchi di immigrati musulmani più misogini di quelli autoctoni ci basterebbe pensare all’adunata riminese degli alpini nel maggio 2022 per farcela passare. Quanto all’antisemitismo, certo gli ebrei (in quanto tali) rimangono i capri espiatori privilegiati nelle periferie ad alta presenza di musulmani, come sa bene chi quei quartieri li abbandona per fare l’aliyah e come dimostra la costante confusione tra ebrei diasporici e israeliani, testimoniata per esempio da Gad Lerner, che durante un corteo milanese ProPal è stato apostrofato da «alcuni giovani immigrati» con gli appellativi yahud (giudeo) e israeli (Gaza. Odio e amore per Israele, p. 225).
Tuttavia, non trovo sostanziale differenza tra gli ululati antisemiti in arabo e i più urbani (anche per merito dell’apporto femminile) cori in inglese dei fan della Palestina judenfrei “from the river to the sea”. Sempre a Milano, lo scorso 25 aprile abbiamo assistito a una Valle Giulia ancora più ipocrita, in cui i «figli di papà» non hanno fatto a botte con i «figli di poveri», ma si sono divertiti a cospargerli di benzina ideologica; e così, mentre i nostri sovversivi tuonavano festosamente contro “Israele criminale”, un piccolo branco di ragazzi musulmani di periferia si è assunto l’onere di passare dalle parole ai fatti, scagliandosi contro le insegne della Brigata Ebraica e di Sinistra per Israele. Proprio in questi giorni la somiglianza tra le proteste esplose nel quartiere milanese del Corvetto per il diciannovenne Ramy Elgaml e la guerriglia scatenata diciannove anni fa nelle banlieues parigine dalla morte degli adolescenti Zyed Benna e Bouna Traoré (anch’essi deceduti per sottrarsi alle forze dell’ordine) dimostra non solo l’alta infiammabilità delle minoranze che abitano i “ghetti” europei, ma anche la conservatività delle aree laterali, come si direbbe in linguistica, cioè il tragico isolamento delle periferie, la loro autolesionistica coazione a ripetere. Sul fronte propriamente occidentale, invece, qualcosa di nuovo c’è, ma a mascherare l’antico: perfino Chef Rubio, quando si ricorda, usa la formula “ebrei sionisti”, risibile escamotage per inveire impunemente contro i suoi nemici. Meno antisemiti, quindi, i “nostri”, o solo meno arrabbiati, più politicamente corretti?
Naturalmente l’antisemitismo rabbioso degli «esclusi (in una esclusione che non ha uguali)» (sempre per citare Pasolini), puniti con il solito zelo, non è meno grave, ma è più facilmente diagnosticabile e forse più curabile di quello inconsapevole o indifferente dei nostri bravi ragazzi inclusivi, coccolati anche quando inneggiano con spensierata protervia all’“Intifada pure qua”, per i quali non si può neanche sperare che, insieme alla malattia del disagio sociale, se ne vada uno dei sintomi.
E a proposito di cure, di parole e realtà malate, visto che scrivo dalla capitale linguistica d’Italia, mi chiedo se i tempi non siano ormai maturi per un Vocabolario curativo che, senza pretese normative (assurde per una scienza tanto inesatta quanto quella lessicografica), passi in rassegna alcune problematiche parole d’ordine, infettate dall’ideologia, dalla A di apartheid alla P di pogrom (e oltre), passando per la G di genocidio, per la M di martiri etc.
ENZO SERENI E L’INTELLETTUALE EUROPEO, OGGI
Colloquio con David Bidussa
Massimiliano Boni
Perché oggi è ancora importante studiare la figura intellettuale di Enzo Sereni?
Enzo Sereni è caratterizzato da un percorso biografico in cui si possono riconoscere due tratti fondamentali. Il primo è questo: le scelte che compie nella sua vita esprimono un’impostazione esistenziale. Intendo dire che, giovane della media borghesia ebraica romana, opera fin da subito scelte niente affatto scontate, tantomeno comode. Sono scelte che producono anche rotture negli ambienti familiari e dalla forte caratterizzazione ideologica. È questo che a mio avviso oggi rende la figura di Enzo Sereni a suo modo inquietante, perché, vivendo un’epoca priva di ideologie, non riusciamo più a comprendere come sia possibile fare scelte anche radicali, che allora invece era naturale compiere, perché ispirate da una precisa scala di valori. Direi dunque che la prima caratteristica di Enzo Sereni è che tutta la sua vita è orientata a questa scala di valori.
E il secondo tratto?
Enzo Sereni è un personaggio molto diverso dalle figure intellettuali dei suoi contemporanei. Direi che la sua azione è sempre caratterizzata da una profonda curiosità, che lo porta lontano dall’esperienza politica dei suoi simili, perché sperimenterà sempre nuovi innesti sulla sua base ideologica di stampo socialista. In questo modo Sereni costruisce un percorso che non va inteso come un tradimento, piuttosto come un costante arricchimento. Sereni ci mostra che aderire ad un’ideologia non significa rinunciare a ricercare strumenti per comprendere la realtà. Quando si rende conto che la sua formazione di base non è sufficiente per comprendere la complessità del suo tempo, aggiunge nuove esperienze, dimostrando come le ideologie del primo ‘900, che pretendevano di descrivere in modo esaustivo la realtà sociale, politica ed economica, insomma quelle che potremmo chiamare le ideologie verticali, sono in realtà insufficienti. Ne esce rafforzata la figura di un uomo che fa scelte “ibride”. In questo direi che Sereni è un vero intellettuale laico. Intendo che per lui l’ideologia non serve a descrivere un modello teorico, ma al contrario deve servire per realizzare cose concrete.
Tu sostieni che fra Emilio ed Enzo Sereni non ci fu mai una totale lacerazione politica, bensì un confronto.
Se studiamo l’adesione ideologica di Emilio Sereni al marxismo e al comunismo, potremmo sorprenderci del fatto di trovarci davanti ad un uomo non rigidamente allineato ai dogmi dell’ideologia comunista. I suoi scritti, ad esempio quelli in materia di agraria, sono pieni della stessa curiosità intellettuale del fratello Enzo. Emilio, uno dei più grandi agronomi nella storia del nostro paese, contamina il suo marxismo con riferimenti diversi, ad esempio quando riflette sullo sviluppo del territorio italiano, che non segue affatto l’ideologia agraria del comunismo sovietico. Se, sul piano della vita pubblica, può apparire un rigido funzionario di partito, sul piano culturale, economico ed agrario, Emilio, al pari del fratello Enzo, mostra la stessa vivacità intellettuale. Del resto, questo spiega anche perché Emilio, pur essendo stato a lungo senatore del Pci, non ha mai davvero compiuto una carriera all’interno del partito, perché non è mai stato un funzionario del tutto ortodosso all’ideologia che il Pci predicava. Certo tra Emilio ed Enzo rimangono profonde differenze sul piano politico, perché danno risposte diverse alle stesse domande. Ma Emilio non sarà mai un fanatico dell’ideologia comunista. Potremmo paragonarlo a uno di quegli ortodossi religiosi che, in quanto perfettamente legati alla propria identità, si possono prendere la libertà di andare a curiosare in altri campi.
Nel tuo recente intervento all’incontro organizzato a Roma sulla figura di Enzo Sereni, hai messo in evidenza la necessità, che, per progettare un futuro politico, occorra costruire un “mito politico”. Quale fu il mito politico costruito da Sereni?
Il mito politico che aveva in mente Enzo Sereni era composto da due elementi. Il primo era fare in modo che un soggetto, da sempre attivo sul piano culturale, come gli ebrei della diaspora, potessero finalmente diventare un attore politico, che potessero esprimere in piena autonomia le loro scelte politiche, economiche e culturali, come loro non era mai stato consentito per 2000 anni. Il sionismo di Enzo Sereni è questo: una grande tenda politica che contenga tante anime, dove l’obiettivo primario è consentire a chi vi si riconosce una piena autonomia. Detto questo, l’attualità di Enzo Sereni è anche comprendere che, realizzato l’obiettivo del sionismo, cioè la nascita di uno Stato ebraico, il mondo non finisce certo lì. Sereni è sempre consapevole dell’esistenza di un’altra comunità, quella araba e in particolare palestinese, che, mentre gli ebrei lottavano per avere un proprio Stato, aveva le stesse esigenze, e si poneva le stesse domande. L’attualità di Enzo Sereni dunque pone la necessità di pensare a una coabitazione fra comunità diverse. Sereni ci mostra come non sia sufficiente soddisfare i propri bisogni e come non sia sufficiente limitarsi a edificare la propria comunità. È necessario piuttosto costruire una società in cui più comunità riescano a coabitare sulla base di pari diritti e doveri.
Anche dopo essere emigrato nella Palestina britannica, nel 1927, Sereni sarà inviato da parte del movimento sionista in Europa e negli Stati Uniti, dove sarà a contatto con molti esuli, e dove riflette sulle origini delle dittature, che lo porteranno poi a scrivere la “Storia del fascismo”.
Quando Sereni va in missione in Germania, o a Il Cairo, o anche negli Stati Uniti, si trova a contatto con due comunità di tipo diverso: quella della diaspora ebraica, e quella dei tanti italiani emigrati all’estero. Sereni si rende così conto che molti di quegli esuli, che spesso si sono trovati a fuggire dall’Italia per motivi politici, tuttavia rimangono legati al loro paese. Molti di questi, negli anni ’30, vedono il fascismo con simpatia e fiducia, perché ritengono che sia un movimento che può riscattarli da una condizione di inferiorità. Il problema che si pone Sereni è dunque quello di riuscire a dialogare con comunità straniere rispetto al paese che li ospita e che non possono essere catalogate in maniera rigida, sulla base ad esempio delle proprie competenze professionali, o sul censo. In altre parole, Sereni si domanda come entrare interagire con i flussi migratori di quel tempo. Il suo obiettivo è innescare all’interno di queste comunità processi culturali che facciano maturare l’esigenza di un’emancipazione non solo dalle condizioni di inferiorità in cui vivono, ma soprattutto che maturino un’idea di futuro alternativa a quella del paese dal quale provengono. Solo un’idea di futuro per Sereni è in grado di sottrarre queste comunità al fascino dell’autoritarismo dal quale provengono.
Questa sua attenzione a comprendere come opera il campo avverso è utile oggi, in cui le destre sembrano dettare l’agenda alla politica?
Oggi direi che ci troviamo nella stessa situazione. A sinistra, cioè, c’è la necessità di proporre un modello sociale, politico ed economico in cui ci si batta per migliorare le condizioni attuali. È una questione enorme, perché ha a che fare, ad esempio, con il tema della cittadinanza, in un tempo in cui il nostro paese è oggetto di migrazioni da parte di chi, proprio come gli italiani di inizio ‘900, cerca la propria emancipazione e il proprio riscatto. Sereni comprende che il mito politico che occorre costruire non può essere più quello del Risorgimento, che era un mito molto identitario (si trattava di costruire l’Italia), ma che occorre edificare una società pluralistica fondata sulla libertà, non sull’identità nazionale. Qui anche vediamo l’attualità di Enzo Sereni, nell’azione di un uomo che ragionava in termini di società multiculturale e interculturale.
È da qui che parte la costruzione di un modello alternativo a quello della destra?
L’ideologia che oggi propone la destra è la stessa di allora, non prevede la possibilità di coabitazione tra culture diverse. È un modello che oggi appare vincente, come negli anni ’30 apparivano vincenti le dittature in Germania e in Italia. La sinistra deve invece battersi per una democrazia che rispetti le differenze.
Eppure sembra che oggi in Occidente prevalga un modello opposto, quello dell’identità e dell’esclusione.
Oggi tende a prevalere il modello delle autocrazie, che stanno diffondendo un lessico politico e un modello sociale che vuole farsi egemone per i prossimi anni, perché risponde ai problemi e alle paure che attraversano le nostre società, proprio come avvenne in Europa nella metà degli anni ‘30.
Puoi fare un esempio?
Guarda le reazioni sempre più attutite rispetto all’aggressione di Putin. Se oggi si guarda la reazione dell’opinione pubblica cosiddetta moderata, quella meno politicizzata, è difficile sfuggire alla sensazione che essa ricerchi una tranquillità come quella che a un certo punto sembrò offrire il patto di Monaco del 1938.
Che soluzione alternativa proponi?
Non spetta certo a me indicarla. Del resto ritengo che la funzione degli intellettuali sia quella di saper porre le domande, piuttosto che fornire le risposte. A me pare però che siamo alla fine di quella bolla in cui noi europei abbiamo vissuto per oltre settant’anni, in cui ci siamo illusi che la nostra democrazia potesse continuare a svilupparsi sulla base di una premessa implicita.
Quale?
Abbiamo sviluppato un modello di welfare in cui il continuo progresso sociale derivava anche dal fatto che non ci facevamo carico della nostra sicurezza, garantita dagli Stati Uniti. In sostanza potevamo fare a meno di pensare alla nostra difesa, indirizzando così le risorse verso altri obiettivi. Oggi che il modello è cambiato dobbiamo avere la forza di ripensare il modello economico, ma anche realizzare una maggiore integrazione difensiva. Siamo ormai davanti al tempo delle scelte. Le democrazie europee dovranno mostrarsi in grado di assumersi la responsabilità delle scelte che per lungo tempo abbiamo delegato ad altri. Se non vogliamo ritrovarci dipendenti dalla Cina, dobbiamo capire che la libertà nessuno te la regala, e che non è mai gratuita.
A tuo avviso l’attuale classe dirigente della sinistra è in grado di assumersi queste responsabilità e di proporre un modello alternativo alle destre?
Diciamo così: se osservo l’attuale quadro politico, e se guardo le figure che oggi vi agiscono, io non credo che la sinistra stia esprimendo una classe dirigente all’altezza di quello che richiederebbe il tempo che stiamo vivendo. Detto questo, aggiungo che rimango all’interno di questa parte del campo da gioco, perché i miei punti di riferimento mi spingono a continuare a farmi domande su come migliorare la società da sinistra e su come costruire un progetto per cui valga la pena battersi.
Hai appena pubblicato il suo ultimo libro, “Pensare stanca”, in cui tratteggi una serie di profili di intellettuali. Chi è per te un intellettuale? Ed Enzo Sereni rientra nel tuo paradigma?
Ho provato a fornire due canoni di intellettuale del ‘900. Il primo opera per modificare le condizioni politiche, sociali ed economiche di partenza. In un mondo caratterizzato da forti organismi collettivi, come i partiti o i sindacati, con le loro liturgie e i loro apparati, l’intellettuale poteva essere un funzionario organico a tale sistema oppure una figura che poneva problemi, sollevava domande, perché si rendeva conto che la comunità in cui militava aveva difetti e mancanze e che da sola non era in grado di risolvere le questioni che pure poneva. Un vero intellettuale, a mio avviso, è questo: chi pur rimanendo sempre nel proprio campo, lo sollecita al cambiamento evidenziandone le aporie; mostra uno sguardo critico rispetto al proprio campo di azione e sa sviluppare concetti, categorie e parole che mostrano l’insufficienza del mondo di appartenenza per chiederne un cambiamento. Questa tipologia di intellettuale la ritroviamo fino agli anni ’70, cioè fino a quando il sistema dei partiti di massa comincia a declinare irreversibilmente. Terminata quell’epoca, oggi siamo di fronte ad un bivio: da un lato c’è l’intellettuale “brontolone”, animato da un forte egocentrismo e che dichiara di avere sempre ragione; la lista degli intellettuali inscritti in questa categoria è praticamente infinita. Dall’altro lato c’è chi non si stanca di porre domande, anche scomode. Enzo Sereni è stato un intellettuale di questo tipo: quando si è reso conto che l’ideologia alla quale apparteneva non era in grado di rispondere alle domande che lui si poneva non è rimasto chiuso in quel recinto, ma ha sperimentato modelli ed esperienze nuove. Enzo Sereni ci insegna, contro ogni tendenza al totalitarismo, l’importanza di costruire una società multipla, scevra da ogni facile moralismo.
Cosa intendi?
Pensa a tutto il dibattito odierno sulla transizione energetica. Comprendere la necessità di favorire il cambiamento del nostro sistema di produzione non deriva da un’esigenza altruistica o morale, ma da una convenienza economica. A questo dovrebbe servire un’intellettuale oggi: a spiegare che il cambiamento è necessario non perché in tal modo saremo più buoni, ma perché, concretamente, avremo vite migliori e più convenienti.
L’ultima domanda è per Israele, e per il conflitto che dura da oltre un anno. Non ti chiedo ovviamente quale sarebbe stata la posizione di Enzo Sereni, piuttosto se tu vedi oggi Israele in pericolo, per la sua stessa esistenza.
Io non vedo oggi un grande futuro per Israele. Questo non significa che ne ipotizzo la distruzione fisica. Quello che intendo è che non vedo in Israele, come non lo vedo in Italia, un concreto progetto culturale e politico in grado di affrontare le sfide che ci sollecitano, innanzitutto quelli di coabitazione fra realtà diverse. Da questo punto di vista Israele non è un’eccezione, perché oggi in tutto il mondo c’è un problema di coabitazione e di coesistenza, ossia un problema di poco pluralismo. Vedo dunque un rischio diverso.
Quale?
Al di là dei vari pregiudizi ideologici, dobbiamo riconoscere che Israele fin dalla sua esistenza ha costruito il suo successo sulla base di una speranza: che per gli ebrei non ci sarebbe stato un futuro altrettanto certo e sicuro come vivere in quello Stato. Al contrario, oggi i flussi demografici ci dimostrano che una porzione certo minoritaria, ma non più insignificante, di giovani tra i venti e i quarant’anni abbandona Israele. Non lo fa né perché c’è una guerra in corso, né per una scelta ideologica, ma semplicemente perché oggi in Israele c’è una fortissima disparità sociale ed economica, e quindi la società tende ad espellere le generazioni più giovani. Proprio come in Italia. Al di là dei numeri, questa tendenza registra la profonda crisi della vocazione di Israele, del motivo per cui è stato costituito nel 1948. Su questo credo che Israele debba riflettere oggi.
SUL LIBRO DI ANNA FOA
Anselmo Calò
Certamente Anna Foa ha scritto il suo libro Il suicidio di Israele per avviare un dibattito, ma non credo che avesse immaginato che il dibattito invece di essere sulla sua tesi, finisse per ridursi, in campo ebraico, al fatto se fosse opportuno o meno che lo scrivesse.
Questo dibattito non mi appassiona perché non lo condivido, Anna Foa ha fatto benissimo a scrivere il suo libro e a noi che lo abbiamo letto – purtroppo molti? Alcuni? che lo hanno giudicato non lo hanno neppure letto – piace ragionare sui suoi contenuti.
Dopo aver ripercorso la storia del sionismo, evidenziando che Israele è nato sulla base di due ideali, due pilastri: l’ebraicità e la democraticità dello Stato, l’autrice registra, con emozionata partecipazione, l’allontanamento dello Stato Ebraico dagli iniziali ideali.
Lo slittamento del Paese dalla sua forte natura democratica, che ai tempi dell’Yishuv aveva comprensione della condizione dei vicini arabi, verso un forte nazionalismo. Un cambiamento che si profila immediatamente con la nascita dello Stato, se teniamo conto che dal 1948 al 1966 gli arabi israeliani hanno vissuto una condizione non dissimile da quella oggi riservata agli abitanti della West Bank (con l’importante differenza di avere la cittadinanza e poter esercitare i diritti politici).
Foa rimarca che l’occupazione ormai permanente della Cis-Giordania determina condizioni di apartheid, che seppure non paragonabili alla storia sudafricana, perché non dettate dal razzismo, sono ugualmente segnate da un diverso regime di diritti tra arabi ed ebrei che abitano nella West Bank, i primi sottoposti all’autorità militare di occupazione, i secondi all’autorità civile israeliana.
La vera cesura però si verifica con la legge del 2018 che definisce Israele come Nazione del popolo ebraico, sancendo così una diversa appartenenza al Paese tra ebrei e altri. La prevalenza della ebraicità sulla democraticità del Paese inizia così.
Con la formazione del sesto governo di Netanyahu le premesse della legge del 2018 divengono politica effettiva del Governo. Il primo ostacolo da rimuovere per condurre questa politica è la Corte Suprema che, pure in assenza di una Costituzione, presidia la democraticità dello Stato.
La parte democratica del Paese si mobilita. Purtroppo con una scarsa partecipazione degli arabi israeliani. Nel frattempo il controllo della polizia e dell’amministrazione (civile) della Cisgiordania, posti nelle mani dei due rappresentanti dell’ala messianica del Governo Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, si manifesta con un forte peggioramento delle condizioni degli arabi della West Bank, oggetto di violenze anche fisiche da parte dei coloni, che rimangono impunite.
Foa critica con durezza la conduzione della guerra a Gaza del Governo di Netanyahu per l’assenza di iniziativa per salvare gli ostaggi, la mancanza di attenzione verso le richieste delle loro famiglie e i pesanti bombardamenti su Gaza che muovono due milioni di persone da un capo all’altro della striscia causando indicibili condizioni di vita agli sfollati e non ultimo, il pesante bilancio delle vittime, che pur non considerando veritieri i numeri forniti da Hamas sono lo stesso troppo elevati per essere considerati solo “danni collaterali”.
La conduzione della Guerra a Gaza, l’attacco alla Giustizia, il disprezzo per le proteste e le violenze di frange dei coloni che peggiorano ancora di più le condizioni di vita della popolazione palestinese nei territori occupati, portano l’autrice a scrivere che “la trasformazione di Israele in un Paese autoritario avanza”. In questa prospettiva Israele si sta suicidando.
L’autrice registra con attenzione i segnali di vitalità democratica che permangono in Israele, ma il suo giudizio netto sul suicidio di Israele sembra non dare chance a questa parte del Paese. Per Foa Israele si sta suicidando nonostante la forte opposizione al Governo, il giudizio di Foa è definitivo anche se una gran parte del paese si oppone alle politiche di Netanyahu, anche se prima del 7 Ottobre ogni sabato si manifestava contro la riforma autoritaria della Giustizia, anche se nelle manifestazioni contro la conduzione scellerata della guerra sono scese in piazza ogni settimana fino ad un milione di persone (su una popolazione ebraica di 8).
Quanto meno sarebbe stato rispettoso, per quanti si oppongono alla deriva autoritaria che indica l’autrice, porre un punto interrogativo al titolo, piuttosto che affermare senza dubbio che Israele si sta suicidando, domandarsi semplicemente se siamo di fronte al “Suicidio di Israele?”
Foa scrive che troppo spesso si assiste all’accusa di antisemitismo, per ogni critica ad Israele e questo è vero. L’antisemitismo dovrebbe essere richiamato quando nei confronti dello Stato Ebraico si usa un doppio standard rispetto agli altri Paesi del Medio Oriente.
Gli oltre 40.000 morti a Gaza denunciati da Hamas sono una tragedia ma non un Genocidio, soprattutto se paragonati ai circa 300.000 morti nella guerra civile siriana tra il 2011 e il 2016 (di cui quasi 90.000 civili fonte SOHR – Osservatorio siriano per i diritti umani). In Sudan la guerra negli anni tra il 2003 e il 2005 ha fatto 200.000 morti e altri quasi 25.500 dal 2023 all’agosto 2024 (fonte Sole-24 Ore 29/9/2024). In Yemen ci sono stati 377.000 morti di cui 155.000 per operazioni belliche (fonte ANSA 23/11/21). Per questi morti non sono state fatte manifestazioni e la CPI non è intervenuta. L’attenzione verso i comportamenti di Israele non è la stessa attenzione che si riserva agli altri stati, anche del Medio Oriente. Perché?
C’è un punto specifico su cui dissento fortemente da Anna Foa, quando scrive “come respingere l’assimilazione tra ebrei ed israeliani quando nella diaspora le voci contro Netanyahu sono flebili”.
Addossare ad ogni ebreo la responsabilità per ciò che compie Israele come Stato sovrano è veramente inaccettabile. Purtroppo nelle manifestazioni propal abbiamo ascoltato attacchi diretti contro gli ebrei e valgano per tutti gli spregevoli attacchi alla Senatrice Segre. Questi sono inaccettabili atti antisemiti. Foa attribuisce l’ondata di antisemitismo di questi mesi al comportamento dello Stato d’Israele. L’autrice non si accorge qui di cadere nelle tesi dell’antisemitismo tradizionale, quello che attribuisce agli ebrei stessi la responsabilità di creare l’antisemitismo e questo da una attenta studiosa della storia ebraica che stimo, è per me fonte di grande dolore.
C’è un altro passaggio in cui mi sembra che Foa non consegni al lettore la sua sapienza di storica ed è quando commenta frettolosamente l’accusa di colonialismo rivolta al sionismo e di conseguenza ad Israele. Questo aspetto è centrale nella critica all’esistenza dello Stato ebraico. Il terzomondismo che anima l’antisionismo si nutre di tale accusa per negare la legittimità dello Stato Ebraico, e per questo avrebbe meritato una indagine più approfondita volta a spiegarne, se non sradicarne, le basi.
È quanto fa invece Arturo Marzano, che l’editore Laterza, che ha pubblicato il libro di Anna Foa, ha mandato in libreria negli stessi giorni, per spiegare ai lettori le origini del conflitto tra Israele e Palestina.
Si tratta di “Questa terra è nostra da sempre, Israele Palestina”: il titolo del volume potrebbe essere un’affermazione di uno o dell’altro popolo in guerra, e dà efficacemente l’idea della motivazione territoriale del conflitto.
Marzano, in poche pagine analizza la problematica della possibile natura coloniale del sionismo riportando tutti i diversi giudizi sul fenomeno che segnalano le differenze tra il movimento sionista e il colonialismo, non ricorrendo nulla nel fenomeno sionista del colonialismo europeo
Proprio perché si tratta di un conflitto territoriale la nozione colonialista che più si avvicina alla fattispecie è quella del colonialismo di insediamento (come l’espansione verso ovest degli Stati Uniti, la nascita dello Stato di Australia, o l’insediamento dei boeri in Sudafrica) ma l’autore non tralascia di ricordare la motivazione fondamentale del sionismo, richiamata anche nel titolo del libro, la costante presenza ebraica nel territorio.
Diversamente dagli esempi sopra richiamati, alla base dell’immigrazione ebraica vi erano i legami storici, culturali e religiosi dell’ebraismo con Erez Israel. Il libro di Marzano ben ricostruisce concettualmente i diversi passaggi storici del confronto arabo-ebraico, poi divenuto israelo-palestinese. Pone al lettore materiali di riflessione e conoscenza e cerca di evitare di manifestare propri giudizi definitivi. All’accostamento tra antisionismo ed antisemitismo, Marzano dedica un capitolo del libro, riportando il giudizio di Robert Wistrich, e tra gli altri di Jean Amery, entrambi condividono la sostanziale equivalenza tra i due fenomeni. Anche Marzano conclude che l’accusa di antisemitismo lanciata addosso a chiunque critichi Israele è sbagliata.
Credo che bisognerebbe abbandonare l’espressione di antisionista per chi critica lo Stato di Israele.
Non è necessario essere antisionista – cioè negare agli ebrei il diritto di farsi uno Stato proprio – per criticare, anche pesantemente le politiche dello Stato Ebraico, o meglio del suo Governo, non soltanto con riferimento alle atrocità della guerra in corso, ma anche all’occupazione di territori palestinesi, alle politiche di apartheid nei confronti degli arabi della Cis-Giordania, fino alla definizione di Israele Stato degli ebrei (legge del 2018) che nega il diritto naturale di tutti i suoi cittadini di farne parte. Israele non si sta suicidando, sta uccidendo la sua natura democratica ma resterà come Stato Ebraico.
CONGRESSO NAZIONALE DI SINISTRA PER ISRAELE
AVVISO:
il Congresso di “Sinistra per Israele” si terrà
a Roma sabato 8 e domenica 9 febbraio 2025.
TORINO
Al via la costituzione della sezione Torino-Piemonte
Con una lettera inviata ai 130 torinesi e piemontesi che sottoscrissero a marzo il Manifesto “Dal 7 Ottobre alla Pace” si è avviata la costituzione della sezione Torino-Piemonte di Sinistra per Israele. Un primo appuntamento per coloro che intendono condividere l’iniziativa è fissato per martedì 17 dicembre per un confronto sulle tesi del Congresso nazionale di SxI.
Inoltre, il 16 gennaio al Circolo dei Lettori verrà presentato il libro di Fabio Nicolucci “Israele e il 7 Ottobre. Prima/dopo”. Con l’autore ne discuteranno Anna Segre Vicepresidente della Comunità ebraica di Torino, Alessandra Tarquini autrice di saggi e monografie su ebraismo e sionismo, e Piero Fassino.
ROMA
LABORATORIO RABIN
Incontro su “Antisemitismo a sinistra: un problema aperto”, con Andrea Romano e Alessandra Tarquini
clicca qui per vedere l’incontro
A PROPOSITO DEL LIBRO DI ANNA FOA
Flavia Di Castro
Sulla questione israelo-palestinese e sulla guerra in Medio-Oriente esistono due grandi correnti, a seconda di quale popolo sia considerato l’anello debole: i Palestinesi o gli Israeliani? Da queste due, se ne dipartono varie altre: stavolta il punto dirimente è la causa dell’oppressione e la sua possibile soluzione. Così, i Palestinesi sono oppressi da Israele o da Hamas? E gli Israeliani sono a rischio di sterminare o di essere sterminati? Ancora: la soluzione è la distruzione di uno dei due popoli, la creazione di un unico Stato dove possano convivere insieme o la creazione di due Stati, uno ciascuno per i due popoli? Potremmo continuare, e chiederci se questi due Stati debbano essere entrambi democratici o no, oppure se il fondamentalismo religioso sia proprio della cultura popolare o sia invece incompatibile con la democrazia stessa, per arrivare, infine, alle grandi domande: cos’è davvero il sionismo?
E cosa vuol dire “democrazia”? Quanto ai diritti, essi sono universali o legati alle culture e alle circostanze?
Le risposte che ciascuno di noi dà a queste domande, ne determinano la posizione politica e possono far cadere perfino in posizioni estreme, quali l’esaltazione del razzismo, della violenza, dell’antisemitismo, di una politica genocida, pur lasciando la convinzione di star realizzando una politica di sinistra in difesa di minoranze oppresse o in pericolo.
Le risposte infatti sono spesso date in una maniera pre-razionale, extra-storica ed emotiva: per questo, movimenti femministi e LGBT possono esaltare Hamas, pur conoscendone la violenza contro donne e omosessuali; per questo, persone democratiche possono considerare “partigiani in lotta per la libertà” perfino i terroristi e gli estremisti o i fondamentalisti più violenti delle due parti, e possono esaltarli con una retorica verisimile e suadente e, pertanto, efficace e di successo; per questo, la propaganda dell’una o dell’altra parte viene creduta e accettata senza metterla in dubbio o sottoporla ad alcuna controprova critica.
Il libro di Anna Foa nasce – e non potrebbe non essere così – da una di queste correnti della sinistra, non la più estremista, e si è attirato elogi, ma anche critiche, in particolare per il suo titolo tranchant, “Il suicidio di Israele”, considerato inopportuno e provocatorio da ampie parti della sinistra e dell’ebraismo. Nel dibattito tenutosi presso il circolo PD Parioli lo scorso 7 novembre, sono stati contestati altri aspetti del libro: soprattutto l’essere troppo unilaterale nel condannare Israele senza quasi mai menzionare le responsabilità dei suoi avversari. Altri lo hanno invece apprezzato per vari aspetti. Ne ricordo alcuni. Positivo è, in primis, l’aver sottolineato le sfaccettature di una Israele plurale, fondata su diversi “sionismi” (e non su di uno solo), e perciò intrinsecamente democratica. Infine il libro porrebbe le premesse per una nuova pace possibile, fondata sul riconoscimento democratico dell’altro (ma sarà reciproco un simile riconoscimento? Questo resta il busillis).
L’aspetto più importante della serata, tuttavia, è stata proprio la discussione in sé: al di là delle diverse posizioni e dei dissensi, solo la discussione può portare a superare le diverse contrapposizioni e a ritrovare un linguaggio e un centro comuni, basati sul rispetto e sul riconoscimento dell’altro e del suo vissuto, fondamenti di ogni democrazia. E questo era lo scopo principale della serata.
SINISTRA PER ISRAELE: PERCHÉ?
Aldo Winkler
Cinquantasei anni sono tanti per esordire in una associazione politica. Il motivo di questa tardiva discesa in campo, mi si consenta un pizzico di umorismo (yiddish?), è inequivocabilmente connesso all’orribile scempio del 7 Ottobre, e completa un percorso personale di coming out ricorrenti, in una fase di impellente necessità personale di esposizione all’impegno condiviso.
Questo cammino è stato intrapreso dapprima tre anni fa, nell’Ente in cui svolgo il mio mestiere di magnetista ambientale, proponendo un progetto sullo studio degli effetti delle Leggi Razziali sulla comunità scientifica in Italia. Allora, mi liberai del pudore di manifestarmi ebreo, ereditato dalla persecuzione razziale che colpì la mia famiglia, pur di trattare i drammatici esiti culturali del nazifascismo. Non era ancora emersa, ritenendola scontata, l’esigenza di sbandierare la mia natura sinistra, qui in associazione ossimorica con Israele,qualcuno oserebbe obiettare.
Devo a Luciano Belli Paci il coinvolgimento in Sinistra per Israele. Tanti, gli amici che ho incontrato, in questo cammino. Mi hanno accolto e responsabilizzato, sicuramente al di là della mia inconsistente esperienza politica, invitandomi a entrare nel Coordinamento della Sezione romana e nel Laboratorio Rabin. Guido Laj, a te l’onere, di rappresentarli tutti. Quanto è politica, l’amicizia? Tantissimo, quando si è ebrei, e di sinistra. E ci si sente soli e spaesati.
Per me, Sinistra per Israele ha rappresentato innanzitutto un antidoto al senso di solitudine, a volte persino troppo efficace, pensando alla coinvolgente chat della Sezione romana. Sullo spaesamento, ahinoi, potrei scrivere i famosi Fiumi di Parole che portarono una fortuna soltanto effimera agli interpreti. A tale proposito, chiedo ai lettori, e a tutti coloro che sono ebrei, o di sinistra: vogliamo davvero lasciare la Memoria, le tematiche di genere e la cultura – penso a ciò che sta accadendo nelle Università e nella Ricerca – nelle mani di destrorsi nostalgici, sinistrorsi di vocazione terzomondista e complottisti di varia natura, vedovi dei fasti No-Covid?
Quale forma di pregiudizio ha animato gli organizzatori del Pride di Bergamo, presunti progressisti, quando hanno scritto di non volere “bandiere israeliane o inneggianti alla simbologia connessa allo Stato di Israele”, facendo così transitare il Maghen David da oggetto di discriminazione razziale a nazionale?
Sinistra per Israele è, per me, innanzitutto uno spazio di coinvolgimento propositivo, oltre che di dibattito e crescita culturale, da cui ripartire per affrontare quei temi che, nel mondo ebraico, non si riescono più a declinare a sinistra.
Non dobbiamo infatti reagire con rassegnazione a una tale portata di narrazioni, ideologie ed eventi avversi, a livello di intensità e durata temporale, da aver portato tanti iscritti e rappresentanti della Comunità Ebraica di Roma, per sempre devastata dalla furia nazifascista, a rivolgere le proprie aspettative di protezione e tutela a destra, sentendosi traditi dalla sinistra. D’altra parte, la sinistra non deve essere mai più complice della diffusione strumentale di parole quali genocidio e apartheid, sbandierate dalla Cgil a piè sospinto, persino quando interviene per fomentare propositi di interruzione dei rapporti con le università israeliane.
Così come non si può tollerare che, ogni 25 aprile, gli ebrei siano costretti a partecipare sotto scorta alle celebrazioni della Resistenza e della Brigata Ebraica, al cospetto di bandiere e cori antistoricamente inneggianti ai palestinesi, il cui Gran Mufti Amin al-Ḥusayn fu alleato di Hitler e sostenitore del programma di sterminio del popolo ebraico.
Vi sono precise responsabilità, a sinistra, se la situazione attuale è sfuggita di mano a tal punto da convincere un cinema milanese a non proiettare un film su Liliana Segre, per paura di gesti vandalici.
Accedere ai luoghi di culto ebraici è ormai un percorso di guerra; i bambini e i ragazzi sono assuefatti a frequentare le scuole e i movimenti giovanili ebraici tra camionette dell’esercito e raccomandazioni di celare i simboli ebraici. Qualsiasi evento, convegno o riunione di argomento o partecipazione ebraica deve essere segnalato al commissariato locale per motivi di sicurezza.
È arrivato il momento che la sinistra si interroghi su queste responsabilità: questo, il nostro dovere, come associazione. Assumendosi l’impegno che Sinistra per Israele cresca, anche al proprio interno, e diventi sempre più attrattiva verso le due anime a cui intende rivolgersi e che la compongono, ossia quella più sensibile al punto di vista delle Comunità ebraiche e quella più orientata su temi talvolta divisivi – anche tra di noi – di politica estera, ribadendo che questo è innanzitutto il momento di assumersi precise responsabilità, nelle tematiche, nel linguaggio, persino attraverso il dialogo con le parti politiche di segno diverso, pur di favorire intenti comuni e forieri di pace vera, non invocata per meri scopi ideologici, elettorali o personali, alimentando, nella realtà, il conflitto. E, con esso, l’antisemitismo.
BOLOGNA
GRUPPO DI LETTURA LETTERATURA ISRAELIANA
Anna Grattarola
Il gruppo di lettura sulla letteratura contemporanea prende vita dopo un dialogo tra Sergio Della Pergola e Marcella Emiliani sul tema Israele: come la demografia diventa politica, tenutosi il 16 novembre 2016 a Bologna.
L’iniziativa fu proposta da Sinistra per Israele al Cabral, dopo uno sgradevole – perché squilibrato nella scelta dei partecipanti – incontro sul conflitto israelo-palestinese nel quale, nel contrastare proclami e argomenti protervi, si erano trovati uniti Marcella Emiliani e Luca Alessandrini.
Il gruppo fu varato il 9 gennaio 2017 in una riunione finale al Cabral tra i soggetti promotori, e affidato, per la scelta dei libri da proporre, la conduzione e il coordinamento ad Anna Grattarola, che aveva tenuto corsi sulla letteratura israeliana, “Israele nella voce dei suoi scrittori”, per l’Università Primo Levi APS. Dal suo primo appuntamento il 23 marzo 2017 prosegue i suoi incontri e si ritroverà il 12 dicembre prossimo per parlare insieme di Un intoppo ai limiti della galassia di Etgar Keret.
La Biblioteca Cabral, comunale, ha coinvolto il Museo Ebraico e l’Istituto Parri e da allora il gruppo di lettura s’incontra circa una volta al mese, alternativamente al Cabral, al Museo Ebraico e al Parri, promuovendo una cooperazione non scontata tra istituzioni culturali pubbliche. Tradizionalmente il Cabral era più incline a simpatizzare col mondo palestinese e col mondo arabo piuttosto che con Israele. E dunque, un ulteriore piccolo ma significativo successo è consistito nel portare il Cabral a divenire un soggetto più attento alle ragioni di Israele e disponibile.
Ad ogni incontro si forniscono informazioni sull’autore, si presenta brevemente il libro e insieme lo si commenta, ciascuno esprime la propria opinione e la propria interpretazione, molto liberamente e, chi preferisce semplicemente ascoltare, ascolta. Il clima è del tutto informale e cordiale.
Poiché spesso ci sono riferimenti al Medio Oriente si approfondiscono date, persone citate, situazioni.
La partecipazione è libera, gratuita e aperta a tutti.
Il gruppo ha promosso incontri diretti con gli autori; abbiamo già incontrato Lizzie Doron, intervistata da Luca Alessandrini su Cinecittà e tradotta dall’ebraico in simultanea dal docente del Museo e online Itamar Orlev che ci ha parlato del suo “Canaglia”.
Durante la chiusura dovuta al Covid il gruppo si è ritrovato online grazie alla competenza e disponibilità del Museo ebraico; la modalità online è stata apprezzata, tanto che ci è stato chiesto di continuare così.
Oggi il Cabral, essendone mutata la direzione ed essendo venuta meno una persona autorevolissima come la compianta Marcella Emiliani, si dimostra pericolosamente squilibrato per almeno tre motivi: è stato co-promotore e ha fornito una sede importante per la presentazione dell’appello in odore di antisemitismo dei docenti universitari nel novembre 2023; ha predisposto una bibliografia sul conflitto israelo-palestinese a dir poco incompleta, curata dai docenti di discipline storiche riguardanti il Medio Oriente, nonostante la presenza di molti volumi utili conservati dalla biblioteca e omessi; il recente tentativo, sventato, di escludere Sinistra per Israele dal novero dei promotori del Gruppo di Lettura, quando esso è stato concepito, progettato e condotto da Sinistra per Israele.
Si continua come sempre, imperterriti.
Lo spazio pubblico mette tutti e ciascuno a proprio agio, e tutti si sentono liberi di interloquire, chiedere, criticare, scambiarsi pensieri, insomma comunicare.
La proposta di leggere scrittori israeliani ha suscitato anche critiche e rifiuto, in coloro che, sia come singoli che come membri di associazioni, non vogliono dare spazio a nulla e a nessuno che si riferisca allo Stato di Israele.
I nuovi scrittori israeliani, come Oz e Kaniuk e tanti altri, sono autori che cercano di tenere insieme etica e politica e sono loro i primi e più attenti e acuti critici di tante manifestazioni del governo israeliano. Gli autori proposti presentano una realtà ricca di sfaccettature, di contraddizioni e di aspetti non ben conosciuti al di fuori di Israele.
Potere affrontare e discutere temi molto delicati, confrontare opinioni diverse è un modo per vedere, oltre le lenti colorate del “sentito dire”, per cercare di capire gli aspetti molteplici di tante realtà complicate, e, chissà, forse, ridurre qualche pregiudizio.
RASSEGNA STAMPA
Simone Santucci
Si ringrazia Radio radicale per la collaborazione
nell’aiutare a far conoscere la Newsletter di SxI
- Il papa terzomondista allontana il dialogo con Israele (Assael su Domani, 17.11.24)
- Edith Bruck sulle dichiarazioni di Papa Francesco (La Repubblica, 18.11.24)
- L’arresto dello scrittore algerino Sansal (Corriere della sera, 22.11.24)
- L’accusa di sterminio deve essere per Hamas (il Foglio, 23.11.24)
- Il mandato della CPI allontana la pace (Renzo Guolo, Domani 23.11.24)
- Fassino: la decisione della CPI non alimenti l’antisemitismo (Il Foglio, 24.11.24)
- Mia madre Liliana Segre e l’antisemitismo che cresce (Luciano Belli Pace, 24.11.24)
- Il 12% dei francesi non vuole ebrei in Francia (HaAretz, 24.11.24)
- Netanyahu boicotta HaAretz? (HaAretz, 26.11.24)
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- L’erede di Abu Mazen: serve il cessate il fuoco anche a Gaza
- Liliana Segre: a Gaza non è genocidio (Corriere della sera, 29.11.24)
- Giorgio Sacerdoti sulla decisione della CPI (Riflessi, 29.11.24)
- Presentazione su radio radicale della Newsletter di “Sinistra per Israele” di dicembre 2024
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